1.
«Io… non c'ero… se non nella mente perversa di lui… e già nel cuore di lei…»

La ragazzina seduta sulla staccionata dondolava le gambe avanti e indietro, con interessata indolenza. Un sole stupendo inondava la pianura illuminando i campi mietuti e i covoni di grano.
Poteva avere dodici anni, era grassoccia e rossa in viso. Aveva un vestitino corto, un po' strappato, e calze spesse che continuavano a scenderle alle caviglie. Aveva buttato le scarpe logore in terra, con fastidio, sotto di sé. Mangiucchiava un pezzetto di pane raffermo e teneva gli occhi fissi sulla strada sterrata in lontananza che passava tra i campi. Quelli erano i soldati che tornavano dalla guerra. E i prigionieri liberati che tornavano a casa.
Gente di ogni parte del paese. E anche stranieri. Sfollati, trasferiti in paesi dove c'erano case per accoglierli, persone disposte ad ospitarli, finché non fossero potuti tornare dalle loro famiglie. Laceri, smagriti, molti camminavano zoppicando, coi loro fardelli in spalla. Aveva sentito parlare dei posti dove i nemici tenevano coloro che catturavano, e li torturavano. Una specie di favola paurosa di cui però ora vedeva le prove. Per lei che era orfana di padre, quegli anni avevano significato poco… non molto da mangiare, un vago sentimento d'ansia, non il tormento di avere qualcuno che amava al fronte, non l'ossessione delle bombe. Gli invasori non erano arrivati in quel villaggio così piccolo sperduto nelle campagne. Ora pareva che la guerra fosse quasi finita. Uno o due degli adulti parlavano di alcuni rimasugli da sistemare. Ma in una stupenda mattinata di sole come quella, era difficile credere che ci fosse qualcuno che combatteva o moriva da qualche parte del mondo. Guardava la lunga colonna di uomini e poche automobili incedere lentamente, un po' turbata, più curiosa della novità. Il suo interesse si risvegliò improvvisamente quando un puntino di quella fila si staccò dagli altri, per venire barcollando nella sua direzione.
Era un ragazzo, non molto alto, di corporatura robusta ma dall'aria emaciata, lunghi capelli scuri scarmigliati che gli ricadevano sul viso. Reggeva sulle spalle un sacco in condizioni non molto migliori delle sue, e avanzava a fatica un passo dopo l'altro. Una gamba era rigida, il passo strascicato. Più di una volta vacillò e sembrò che stesse per cadere, ma con uno scatto rabbioso ogni volta si risollevava come se non volesse darla vinta a qualcuno. Era arrivato ormai a poche decine di metri dalla staccionata dove la bambina lo fissava quasi ipnotizzata, quando le sue energie parvero finalmente esaurirsi. Inciampò in un rametto sul sentiero e scivolò in avanti verso terra.
Con un gridolino lei saltò giù dal suo posto e corse a sostenere lo straniero senza neanche curarsi di rimettere le scarpe, per istinto. Era parecchio più grande di lei, ma lei era piuttosto forte per aver sempre aiutato la madre nei campi. Lo sostenne spingendo, esclamando concitatamente: –Sta bene, signore? Coraggio, signore… Mitja, Mitja!– chiamò rivolta verso casa. E poi, quando non ebbe risposta, più forte: –Dimitri Ivanovic! Vieni a darmi una mano! È pesante, mi cade!
Suo fratello maggiore, un mulone allampanato di sedici anni, uscì dalla baracca strascicando i piedi. Gli ci volle un attimo per fissare gli occhi distratti e afferrare la situazione. Ma ancora mentre stava precipitandosi ad afferrare l'uomo dall'altra parte, questo si era già ripreso abbastanza da piantare una grande mano sulla spalla della piccola soccorritrice, che sussultò in risposta. Sollevò gli occhi e vide il suo sguardo spiritato, quasi pauroso, tra le ciocche scarmigliate. –Dove siamo?– chiese con voce affannata e leggermente roca.

Lo fecero sedere sul recinto, e gli portarono una ciotola d'acqua e del formaggio. Mangiò e bevve avidamente, quasi strozzandosi, e si asciugò la bocca col dorso della mano. Lo fissavano attoniti. La mamma sarebbe tornata dal paese soltanto a sera.
L'uomo chiese di nuovo il nome del villaggio, ad annuì più di una volta tra se stesso, rimuginando, quando ebbe avuto risposta. –Sì, era qui che dovevo venire. C'è un mio zio che ci abita… non lo conosco, ma mi hanno dato l'indirizzo all'ufficio. Lev Aleksejevic Asimov…
I due si guardarono in faccia un attimo perplessi. –Non so– disse infine la sorella stringendosi nelle spalle. –Questo paese è piccolo, però io non ho mai sentito di uno che si chiami così.
–Io sì, forse– mormorò il fratello con aria meditabonda, cercando di ricordare. –C'era un Lev Aleksejevic, ma mi pare che sia morto qualche anno fa. Un tipo strano, se ne stava da solo in una casetta lontana dalle altre… veniva solo una volta alla settimana per comprare da mangiare e farsi una bevuta.
–Doveva somigliarmi allora– ghignò il ragazzo, oscuramente divertito. –Bene, così a quanto pare resto un senzatetto. Tanto valeva che non lasciassi Mosca.
La ragazzina guardava quel tipo strano con interesse fin dall'inizio, indagando il suo volto bruno. Sarebbe stato perfino bello, senza quell'espressione dura, amara. Non l'aveva mai vista in nessuno, e stranamente questo la attraeva. –Eri un soldato, signore?
–Già.– Nuovo sorso d'acqua. –Non perché ne avessi voglia. Ero studente all'università. Mi hanno portato a forza sotto le armi. Come tutti, del resto. Medico militare. Studiavo medicina. Anche uno del primo anno andava bene per rattoppare i feriti in trincea.
Lei non aveva mai conosciuto qualcuno che fosse stato all'università. Sgranò gli occhi. –Sei un dottore? Allora sei importante!
–O lo sarei diventato.– Rise. –Volevo migliorare la razza umana. Tutti questi anni sono stati un'interruzione inutile. O forse no. Mi hanno insegnato quanto abbia bisogno di essere migliorata. Al fronte lo vedi da vicino, com'è fatto dentro un uomo. Un groviglio di sangue e schifezze. E basta così poco per romperlo. Pochi miseri grammi di una sostanza inanimata. E stupido, soprattutto stupido. Solo degli idioti sprecherebbero le loro forze ad uccidersi così rozzamente, senza uno scopo. Ho fatto quella vita solo pochi mesi. Poi mi hanno catturato.
–Sono passati altri soldati da qui. Erano stati prigionieri.– C'era qualcosa in quel volto alterato, in quell'espressione quasi travolta, che le faceva intuire una ferita profonda. Una ferita che aveva avuto conseguenze. E quasi in modo ridicolo, le faceva nascere l'istinto materno di proteggere quel giovane più alto di parecchi centimetri, che doveva avere dieci anni più di lei. –Raccontavano che i nemici uccidevano le persone con il fuoco, e con l'aria, e con le iniezioni…
–Diciamo che io sono stato un po' privilegiato. Una fortuna nella sfortuna. Non ero… tra quelli che avevano più voglia di uccidere. Nei campi di concentramento facevo ancora il medico per gli altri prigionieri. E a volte anche per i soldati di guardia. Mi davano cibo e altre cose, in cambio. Meglio della sorte che è toccata ad altri. Ogni tanto… quando mi chiamavano ad aiutare in infermeria… mi è capitato di assistere.– Un lampo macabro in volto. –Erano veramente crudeli, quei tipi… forse solo un po' più di noi… però bisogna dire che avevano METODO. Sapevano cosa volevano ottenere. Forse non erano completamente in errore.– La voce gli si abbassò. Rimuginava quasi tra se stesso. –La maggior parte degli uomini sono bestie. Da una parte e dall'altra. È uno spreco che tanti idioti abbiano organi sani che starebbero molto meglio a menti migliori delle loro… e nessuno si serve neanche della metà delle sue risorse fisiche…– Gli occhi gli si erano come infossati, il volto si era scurito. Con un guizzo parve riemergere dal buio in cui era scivolato. –Sono tornato e ho trovato la mia casa distrutta… l'università non riaprirà ancora per molto. Speravo di poter riprendere gli studi se avessi trovato qualcuno a cui appoggiarmi, quando alla capitale le cose si fossero rimesse un po' in piedi. Ma a quanto pare no. Dovrò cavarmela con le mie forze.
La ragazzina era un po' confusa da quel lungo discorso che sembrava avere poco senso, ma le ultime frasi la fecero scattare all'improvviso. –Puoi restare da noi– esclamò con impeto. –Mamma dice sempre che bisogna aiutare i soldati. E non abbiamo un dottore al paese. Puoi lavorare qui finché non torni alla capitale.
Parve considerare la proposta. –Perché no?– disse infine. –Di certo non ho un'alternativa migliore. Finché non finisce la guerra anche da quell'altra parte non cominceranno seriamente a ricostruire. E poi, così potrò far pratica. Avrò bisogno di molta pratica… per quel che ho in mente di fare.– Per la prima volta considerò attentamente i due ragazzi. –Non avete capito molto di quel che ho detto, vero? Be', non importa. Bisogna cominciare col materiale a disposizione. Dovremo diventare tutti migliori… più forti… perché non possano più farci del male. In ogni senso.
Molti dei soldati che avevano già visto facevano discorsi così strani. Mamma diceva che avevano visto l'inferno, e che non bisognava meravigliarsi che chi era stato all'inferno non potesse più tornare come prima. Però questo ragazzo era giovane. Forse per lui sarebbe stato diverso. Si sorprese a sperarlo, e ignorò le sue parole rudi. Non sapeva quale fosse il suo male. Però poteva cercare di aiutarlo a guarire. Doveva essere buono, in fondo. Non si stava forse augurando che nessuno facesse più del male?
Lo prese per un braccio, mentre Dimitri faceva altrettanto dall'altra parte per sostenerlo. Lo straniero era ancora malfermo sulle gambe. –Vieni dentro. Puoi stenderti sul letto di mamma, per riposare. Poi, quando torna, le chiediamo se ti possiamo ospitare.
Lui le si appoggiò, avvicinando il volto al suo, parendo esaminarla. Le rivolse uno strano sorriso storto. –Non sei esattamente un genio, a quanto pare. Ma quello può mettercelo qualcun altro. E dove la natura non è stata capace di far meglio… rimedieremo. Se non in questa generazione, nella prossima… nei nostri figli o nei loro.
Lei rispose al sorriso. –Io, quando avrò un bambino– dichiarò con orgoglio –lo chiamerò come mio padre.
La mano scura, forte, le si strinse più forte sulla spalla come un artiglio, mentre i tre si avviavano per entrare nella casetta.