Tutto esattamente identico. Non era cambiato di una virgola. Non c'era niente che sembrasse fuori posto. Calma piatta. A qualche giro ancora di orologio, sarebbe stata la giungla silenziosa, la sagra della noia. Era il quindici settembre ed era il primo giorno del mio primo anno di università. Molti altri ancora a venire prima di riuscire a diventare medico. Ero già maggiorenne da un po', e avevo finito la scuola da qualche mese. Sentivo ancora sulla mia pelle la sensazione di potere che mi aveva pervaso alla consegna del diploma. Avevo il mondo in mano e nessuno poteva fermarmi. Nemmeno più la mia scuola, di cui mi sembrava di conoscere tutto: ogni muro, ogni porta, ogni chiodo e ogni moneta di ogni distributore automatico. Un luogo che mi apparteneva così tanto e che allo stesso tempo di lì a poco avrei lasciato. Mi sentivo aliena al mio corpo, né dentro, né fuori. Per un po', mi ero sentita libera.
Ma la leggera brezza dell'estate, quel giorno, era durata solo pochi secondi per lasciare spazio a una cappa di caldo torrido che mi abitava schiacciava i polmoni come una pressa meccanica. Era il quindici di settembre e tutto era calcolato alla perfezione, scientificamente riportato in una tabella di marcia che non potevo consultare, ma di cui ero altro che l'ennesimo bottone nella scatola del cucito della nonna. Una marcia monotona che l'eccezionale gran caldo dirigeva ridendo di tutti sotto i baffi sudati. Sentivo che in fondo anche quest'anno sarebbe stato uguale agli altri, e la sensazione stupida di essere padrona del mondo mi aveva già lasciata da un bel pezzo. A scuola avevo sempre avuto voti alti, anche se in classe non esistevo. Non mi piaceva farmi vedere, e non chiedevo mai spiegazioni. Mi limitavo ad ascoltare il professore, e con quel nulla che facevo a casa, riuscivo davvero bene.
Quel quindici di settembre, pensavo che anche quell'anno sarebbe stato uguale, proprio come tutti gli altri anni della mia vita. Uguale come i colori tenui dei muri delle classi, l'odore di sudore di ascelle nelle aule piene, di fumo nel cortile, di panino riscaldato sulla piastra. Tutto in fondo era esattamente, esattamente identico, e non so se questo mi rassicurasse o mi spaventasse. Forse questa calma piatta mi stava stressando e basta, ma in fondo questo era ciò che mi permetteva di vivere la mia esistenza in santa pace, facendo pure la figura della secchiona a scuola. Dopo tutto cosa sarebbe potuto cambiare quest'anno, l'università non sarebbe stata altro che…
"Signorina, lei è con noi o nel mondo dei sogni?"
Sentii queste parole provenire da lontano, come un'eco che si disperdeva attorno a me e tornava a rimbombarmi dentro la testa. Alzai lo sguardo e mi vidi una quantità spropositata di occhi puntati addosso. Non avrei mai pensato di potermi sedere in un'aula così piena di gente.
"Guardi che dico a lei…"
La voce si faceva più autoritaria anche se comunque tremendamente femminile. Strabuzzai gli occhi sforzandomi di assumere un'espressione concentrata e mi feci largo tra le innumerevoli teste sedute nei gradoni davanti a me.
"Mi scusi" abbozzai, tra alcune risate soffocate
La professoressa era una donna bionda che doveva da poco aver passato la trentina. Portava i capelli biondi lunghi alle spalle, probabilmente piastrati, e un vestito blu scuro di cui non riuscivo a distinguere bene le forme dal punto in cui ero seduta. La sua luminosità un uno degli ultimi torridi giorni d'estate si stagliava contro la lavagna bianca già piena di segni blu, rossi e neri.
"Niente di cui scusarsi, forse la lezione è troppo poco interessante per lei"
Sapevo che mi stava provocando. Lo sentivo dal tono della sua voce. Per quanto l'immagine che avessi di lei fosse poco nitida, ero catturata dal contrasto tra il vestito scuro, i capelli color grano, e la lavagna bianca. Mi ripresi appena in tempo dai miei vagheggi per leggere un nome a caratteri cubitali su un angolo della lavagna "A. ROBBINS":
"No, mi scusi davvero, professoressa Robbins" mi schiarii la voce cercando di rendermi credibile "La stavo seguendo, può continuare"
"Ah sì?" mi stava sfidando? Ma ero solo al primo giorno! "E di cosa stavamo discutendo, signorina…?"
"Torres. Calliope Torres." mi affrettai
"Non eluda la mia domanda, signorina Torres" tagliò, scrivendo una X al lato della lavagna.
Ok, era guerra aperta. Ma io ero più furba: scorsi velocemente la lavagna in cerca di indizi. Qualche ricordo del college mi balenò per il cervello, illuminandomi: "monotonia delle funzioni, professoressa Robbins"
"Molto bene, signorina Torres," non aveva ancora finito, gli occhi puntati addosso a me "allora immagino possa spiegare ai suoi compagni come si trovano il massimo e il minimo di una funzione?"
"Sono da cercare tra i punti stazionari" non le bastava "la derivata prima uguale a zero" conclusi.
Tacquero tutti, gli occhi rivolti prima a me e poi a lei "Molto bene, signorina Torres" disse mentre scriveva le mie parole alla lavagna "Ora sì che possiamo andare avanti" mi rivolse un sottile sorriso e mi accorsi che tutto ad un tratto mi sentivo a raso di un filo elettrico. E non era solo il caldo torrido. Abbozzai un sorriso di ritorno e tornai nel mio mondo, stavolta sforzandomi di tanto in tanto di tenere un'espressione attenta ed interessata alla lezione.
La lezione finì dopo mezz'ora e mi misi in coda per uscire dalla grande aula. Doveva essere una delle più grandi dell'università. La puzza di ascelle stava diventando insostenibile.
"Signorina Torres" sentii chiamarmi da non troppo distante
"S….sì?" era la professoressa Robbins. Imbarazzata, mi avvicinai. La X scritta in pennarello rosso riluceva vicino al mio corpo e cominciavo a sentirmela tatuata addosso.
"Non mi piacciono le persone che interrompono la mia lezione. Specialmente il primo giorno del primo anno di medicina" lo avevo già capito. Dal suo bicipite nudo scese una goccia di sudore che si infranse con precisione millimetrica sull'angolo della cattedra. Come potevo notare un dettaglio del genere in quel momento? Mi stava sgridando, eppure non sentivo altro che l'imbarazzo trasformarsi in una specie di ipnosi bollente "Sa perché teniamo la lezione di matematica qui, come molte altre del primo semestre? Perché sarete decimati. Medicina è dura. E' sacrificio. E' guerra. E voi dovete dimostrare di essere pronti a tutto pur di uscirne vittoriosi."
Tacque. Pensai che era giunto il mio momento di dire qualcosa, ma altro non mi uscì dalla bocca se non "Mi scusi per prima, mi dispiace davvero". Ero davvero così patetica?
"Ne ho abbastanza delle sue scuse" da un'espressione stizzita ne assunse un'altra, tra la sfida e la provocazione pura. Il suo sorriso si aperse, beffardo: "mi dimostri che è pronta alla guerra vera. Dopodomani il programma prevede le derivate seconde e i punti di flesso. Se facciamo in tempo anche gli integrali. Veda di studiarli bene perché toccherà a lei spiegare."
Prima che potessi replicare era già uscita dalla porta, scomparsa dalla mia vista. Se anche dalla mia bocca aperta fossi stata capace di far sortire suono alcuno, probabilmente non avrei replicato comunque. Non volevo, anzi, non potevo. Quella viso angelico contornato dai perfetti capelli biondi nascondeva molto più di quanto potessi minimamente immaginare. Mi sentivo la X quasi bruciare addosso sotto i raggi di sole che entravano violenti dalle finestre chiuse. La guerra era dichiarata, e non si tornava indietro. Da una X rossa non si torna indietro mai.
