Elena
Eccolo di nuovo. Dorme beato, nel mio letto, come un bambino. Com'è possibile che sia successo questo? Come ho potuto permetterlo?
Lo guardo. Da questa angolatura non si nota la brutta cicatrice sul viso. Non è molto cambiato da allora, sembra conservare intatta quella bellezza malvagia che hanno i tedeschi. Sono attratta da lui. Non riesco a negarlo neanche a me stessa nonostante tutto quello che mi ha fatto; non riesco a far tacere il mio cuore. Mi ha resa sua schiava. Ormai so che non potrò liberarmi di lui; ha ucciso la mia coscienza e intorpidito la mia volontà. Quando aprirà quei meravigliosi, terribili occhi, le mie mani tremeranno e farò tutto ciò che vorrà.
Mi vergogno di me stessa. Ho ripagato i miei morti con tanto orrore. Sento gli occhi severi di mio padre attraversarmi l'anima. Lo vedo quasi, in questa oscurità e scorgo mia madre voltarmi la schiena, sdegnosa.
Chi restituirà a mia sorella la sua piccola vita incenerita a Birkenau? Non di certo il suo assassino.
Chi restituirà a me l'innocenza perduta? Non troverò conforto in nessuno, nemmeno in quel Dio crudele che ha permesso tutto ciò.
Non mi sento come gli altri scampati alla tragedia. Ho vergogna di dire che c'ero anch'io
fra le larve di Auschwitz, io che ho pagato con tanto sangue il Dio crudele.
Io non ho mantenuto l'onore; ho venduto la mia dignità all'aguzzino che dorme nel mio letto. Mi avvicino: ai raggi della luna i suoi capelli sembrano d'argento Un altro whisky per annegare i ricordi. Non sono poi tanto diversa da lui. La ragione l'ho perduta da tempo.
Lo ricordo bene il giorno che partimmo da Fossoli; una bella giornata di fine autunno. Non ho mai saputo come fossi arrivata lì. Ricordo solo due SS che ci strapparono dalla casa in cui eravamo ospitati. Povero babbo! Chissà come si sarà disperato! Sperava di salvarci dai bombardamenti e invece ci aveva condannate. Avevo sperato che lui fosse venuto a strapparci da quella prigione e invece io e mia sorella ci trovammo su quel treno che ci avrebbe portate all'inferno.
Non ricordo quanti giorni durò quel viaggio: so solo che furono molti e interminabili. Ricordo il gelo, la fame, la sete e la vocina implorante di mia sorella che mi chiedeva aiuto. Tentai di intenerire le guardie per un po' d'acqua, ma quei mostri erano sordi alle nostre voci.
Non ho mai inventato tante storie come durante quel viaggio. Dovevo distrarre Emilia dalla fame e occupare la mia mente affinché non fosse sopraffatta dalla disperazione. Erano le storie che piacevano a lei: quelle dove la bella principessa riesce a sposare il valoroso cavaliere. Poi, anche le mie storie non bastarono più e avvertii forte la mancanza di mia madre. Lei avrebbe aiutato Emilia.
Avevo solo diciotto anni, con il bagaglio dell'inesperienza come compagna, i sogni e l'ingenuità ancora intatti e non conoscevo quanto potesse essere crudele la realtà.
Il treno si fermò bruscamente e, dallo strano clamore, capii che eravamo arrivati alla meta. Ricordo ancora, con sollievo, la vampata di aria gelida che m'investì quando furono aperte le porte del vagone.
Mi sembrò per un attimo di rinascere.
La puzza nauseante di quel vagone, dove eravamo rinchiusi in cinquanta, parve allontanarsi quasi per incanto. Mi colpì subito la stranezza del paesaggio: c'era la neve e tutto era avvolto in una strana patina grigia; un paesaggio spettrale dove i pochi alberi rinsecchiti erano l'unica testimonianza che forse, anche lì, c'era vita. Non ci misi molto a capire in che posto eravamo finite e soltanto allora rimpiansi Fossoli. I cani abbaiavano furiosamente contro di noi e alcuni uomini ci inquadrarono con la forza in due lunghe file: da un lato gli uomini, dall'altro le donne, per essere schedati. Più in là ci aspettavano alcuni camion.
Chiesi ad una donna in divisa, implorandola con il mio tedesco stentato: "Bitte, kind durst" (per favore, la bambina ha sete). Lo sguardo di quel mostro fu come una pugnalata. Urlò qualcosa di incomprensibile e passò oltre. Non mi arresi a quel rifiuto; mi chinai a terra e raccolsi un pugno di neve: "Mangiala. È buona" dissi porgendolo a mia sorella. Ricordo un dolore sordo dietro la nuca. Caddi a terra semi incosciente sotto lo sguardo attonito di Emilia. Non so per quanto tempo rimasi distesa sulla neve, forse soltanto per pochi secondi. Sentii la punta dura di uno stivale sollevarmi il mento.
"Schon!" disse il soldato, tirandomi su con un solo braccio "Es ist ein schönes Jew wurm". (È un bel verme ebreo).
Ancora intontita, non capii le sue parole. Incontrai i suoi occhi, avvertii il loro freddo fin dentro le ossa, avvilupparmi il cervello e togliermi il respiro. Tremavo, mentre quell'uomo mi guardava studiandomi; non osavo neppure respirare. Espirò il fumo della sigaretta sul mio viso, cosa che mi fece tossire violentemente, poi, alla fine, sembrò perdere interesse verso di me e si allontanò. Cercai di tranquillizzare mia sorella, rimasta lì, immobile, ad osservare la scena. Le sorrisi, tentando di mascherare le lacrime, e l'aiutai a salire sul camion. Quella a cui assistetti dopo fu la prima scena di orrore della mia vita. I camion, stracolmi, non erano sufficienti, ed una ventina di persone rimasero a terra.
Ricordo il rumore sordo della mitragliatrice. Li uccisero così, senza un perché. Non c'era posto per loro sul camion.
Non piansi.
Il mio cervello si rifiutò di credere a quello che gli occhi avevano visto: il sangue sulla neve di quei poveretti immobili e tutti noi ammutoliti dall'orrore.
Non impiegammo molto tempo per arrivare al campo e lì tutto mi fu chiaro: non era Fossoli, era l'inferno!
Non riuscii ad abbracciare con lo sguardo l'ampiezza del reticolato. L'ingresso era sormontato da due torrette, con le guardie armate e, sul cancello, una scritta, di cui appresi solo dopo il significato: "Arbeit macht frei": il lavoro rende liberi.
Ci portarono alle docce.
Svestii con delicatezza mia sorella che ormai aveva smesso di piangere, anzi! Da quel giorno non l'ho più sentita piangere e non ricordo più la sua vocina flebile. Forse, nel dolore, è stata più forte di me.
Fu un ristoro sentire l'acqua calda scorrere sulla pelle arida. Sorrisi ad Emilia per infonderle coraggio ma quei piccoli occhi innocenti avevano assistito a troppe barbarie per avere ancora fiducia in un sorriso. Altre docce avrebbero spento il suo, soffocato nel gas di Birkenau.
Quell'attimo di respiro fu presto interrotto dalla voce dura delle sorveglianti che ci cacciarono fuori nella neve. Lì, in quello spiazzo, dove ormai era calata la notte, con i piedi affondati nella fanghiglia gelida, dubitai di rivedere la luce del sole. Ero stata sempre delicata di polmoni e non erano state poche le volte in cui avevo sofferto di bronchite ma, stranamente, il fisico resse a quel supplizio.
Non so quanto tempo attendemmo lì, immobili al gelo, prima che ci distribuissero le divise; so solo che non avevo più fame né sete mentre osservavo preoccupata, stringendola a me, mia sorella, pallida e muta. Mi guardai intorno. Non avevo mai visto donne anziane e nude e
dalle facce così spaventosamente tirate. Anch'io dovevo apparire così: livida e spaventata.
Le donne che si accasciavano a terra, stremate dalla fatica, venivano selvaggiamente picchiate da alcune prigioniere che, al posto della stella gialla di David, portavano, cucito sulla casacca, un triangolo verde. Dopo quel triste rituale distribuirono le casacche a strisce, di tela ruvida, e ci condussero agli alloggi. L'impressione che ne ebbi fu fortissima. Mi riportò alla mente i dannati della città di Dite. Vidi un numero imprecisato di donne sporgere le teste dalle loro nicchie e guardarci con i loro occhi spenti. Non ci rivolsero la parola, limitandosi a stringersi per far posto nei loro giacigli. Tenendo Emilia stretta a me, mi strinsi ad una di quelle schiave.
