Non si può mutare la natura di un uomo mutandolo d'abito.
Antico proverbio cinese

Prologo

Nella mia casa ci vestiamo di bianco. Di bianco fin sotto i piedi, tunica e copricapo, immacolato come dev'essere la coscienza di un uomo davanti al cielo, come ci si deve vestire per non essere bruciati dal sole. È la tradizione della mia gente da innumerevoli generazioni, e mio padre mi ha insegnato ad esserne orgoglioso.
Ma per strada ci vestiamo come tutti gli altri. Con giacche e camicie, abiti ordinari. Perché è pericoloso farsi riconoscere da quelli che non ci penserebbero un istante a spararti. Non che così si riduca molto il rischio che qualcuno ti spari. Ci convivo da quando ero troppo piccolo per ricordarmene. Non si può camminare per strada senza sentire o immaginare di sentire ad ogni attimo la detonazione di una bomba o di una pistola, o, se sei davvero sfortunato, che ti si pari davanti qualche pazzo con gli occhi spiritati che ti chieda da che parte stai. E non sai come rispondere per non essere colpito. E spesso se non rispondi ti colpisce lo stesso.
Papà dice che una volta non era così. Che tutti potevano uscire di casa e andare a scuola salutando l'altra gente per la strada e quella rispondeva. Che non dovevamo nascondere chi eravamo. Ma se gli chiedo quando è stato, non mi risponde. Forse non se ne ricorda neanche lui e sono solo storie che gli raccontavano da piccolo come fa lui con me. Io non vado a scuola. Non c'è più la scuola. È stato uno dei primi edifici ad essere bombardato. Quelli della nostra tribù non volevano che i loro figli studiassero coi nemici. O forse è il contrario. Quello che so me lo insegna papà a casa.
Mi insegna che il nostro paese è stato fondato da persone di molte tribù diverse che si riunirono in questa valle per migrazioni varie, prima dell'arrivo dei bianchi. Poi col tempo diventammo una nazione forte e anche molti bianchi di vari paesi vennero a vivere qui, impiantarono industrie, aziende e affari. Con la ricchezza venne l'egoismo, forse. O forse la ricchezza venne solo per pochi e i più divennero sempre più poveri e ne diedero la colpa gli uni agli altri. Fatto sta che ogni razza e ogni tribù si è messa contro tutte le altre. Neri contro neri, bianchi contro bianchi e soprattutto neri contro bianchi. Ognuno pretende di avere il diritto di governare il paese a vantaggio della sua etnia e religione. Il governo più o meno fa finta che non succeda niente, perché anche i governanti appartengono alle varie parti in lotta oppure hanno affari in corso con gli stranieri che incoraggiano una di esse. E intanto per le strade ogni giorno si muore. Vorrei andare a scuola. Vorrei rivedere i miei amici. Vorrei che fossero di nuovo miei amici.
Io ho otto anni.
Papà è diverso dagli altri della mia gente. È un avvocato. Dice che la mia gente è tutto il nostro popolo, di qualsiasi tribù o paese sia originaria ogni persona. Ma quasi tutti non la pensano come lui. E per questo anche quelli con le nostre stesse origini lo odiano. Dicono che è un traditore della sua tribù. Ma se è un traditore perché è odiato anche dagli altri? Qualcuno, della nostra tribù o di altre, gli dà ragione. Ma sono troppo pochi. E disprezzati da tutti. Papà dice che ci sono interessi economici troppo forti dietro questa guerriglia perché si possa fermarla solo con la ragione. Che gli altri paesi lasciano fare perché c'è un giro di compravendite… e altre cose che non capisco. Dice che di questo passo non mancherà più molto prima che tutto vada in rovina e moriamo tutti.
Per questo papà ha chiamato il suo vecchio amico. Dice che prima che nascessi hanno combattuto insieme, in un'altra guerra ma per gli stessi motivi. Allora bisognava liberarci dai colonizzatori europei. Ora bisogna liberarci da noi stessi e da un altro tipo di coloni. In questo tempo loro due sono rimasti in contatto per lettera. Quando ha parlato di lui ha corrugato la fronte e ha fatto un'espressione strana. Mi è sembrato a disagio, ma non mi ha detto il perché. La settimana scorsa ha detto di avergli telefonato e che aveva promesso di venire. Non sarebbe stato solo. Da quel giorno papà è molto più serio.
Oggi è il giorno in cui deve arrivare il volo. Papà mi ha portato con sé all'aeroporto internazionale. Di solito non mi fa uscire di casa anche se lui mi accompagna, perché è troppo pericoloso. Ma stavolta mi ha chiesto lui di venire. Ha continuato a fare quella faccia seria per tutta la strada. Ho avuto paura di domandargli perché. Forse questa persona che dobbiamo incontrare è un uomo cattivo? Forse papà è stato costretto a chiedere aiuto a qualcuno di cui non si fida? Che posso fare io che sono piccolo per aiutarlo? Che posso fare per difenderlo? Sono sempre triste perché vorrei aiutare tutti, uscire da questa cosa, e non posso. Mi sento soffocare quando ci penso.
Siamo davanti alle porte d'uscita passeggeri quando l'aereo atterra e papà mi tiene la mano. È sudato. Continua a fissare davanti a sé. Poi mi stringe la mano un po' più forte e capisco dove devo guardare. Il suo amico è quello che sta venendo verso di noi adesso, vestito con un abito scuro senza cravatta e sorridente. Due bianchi camminano proprio dietro di lui, disposti come se fossero un triangolo e guardandosi in giro. Uno ha una strana faccia mobile, che si corruga in modo diverso ogni volta che cambia espressione– e la cambia quasi continuamente. L'altro tiene le mani in tasca e sembra prestare molta attenzione a tutto quello che guarda. Non riesco a decifrare il suo sguardo. Sembra uno come tanti altri che ho visto, eppure ha… qualcosa. Quando si accorge di me, mi guarda con un sorriso come se fosse un mio compagno, che me lo rende subito simpatico. Se l'amico di papà ha amici così, allora non può essere cattivo neanche lui.
Papà mi lascia la mano e si muove incontro all'uomo che guida il gruppo, stringendogli tutt'e due le mani con un gran sorriso. –Grazie di essere venuto.
–Di niente. Avevo voglia anch'io di rivederti, George. E se quello che mi hai raccontato è vero…
–È vero purtroppo. Venite. Ne parleremo in macchina. Vi ospiterò a casa mia, sarete più sicuri che in albergo. Ti ho parlato di mio figlio Kimeo, vero?
Lui annuisce e mi mette un attimo una mano sulla testa, mentre gli altri due sorridono. –Certo. E mi fa piacere conoscerlo. Ti somiglia davvero molto.
–E questi sono…– continua papà esitante –gli amici di cui… mi hai scritto?
Un altro cenno d'assenso. –Non preoccuparti, George. Quello che si può fare lo faremo. Facci strada e intanto spiegami a che punto siamo.