Una sola occhiata e aveva capito. L'avevano trovato.

Lisbon aveva fatto attenzione a non mostrare nessuna emozione, ma a lui non era sfuggito il leggero tremito della mano mentre riappendeva il ricevitore.

Si alzò con calma, prese la giacca e con apparente indifferenza si mosse verso la porta.

"Dove stai andando, Jane?"

La voce di Lisbon risuonò – fredda e tagliente come la lama di un coltello – nell'ufficio deserto.

Si volse ad affrontarla, sulle labbra uno dei suoi soliti sorrisi disarmanti. "A fare due passi".

"Bugiardo".

Jane scrollò le spalle e rise con tanta naturalezza che Lisbon avrebbe quasi potuto credergli – se solo non avesse saputo.

Rimase sorpreso constatando che la porta era chiusa a chiave. Questo non l'aveva previsto.

"Ti ho sottovalutato, Lisbon".

Una sfumatura pericolosa si era insinuata nel tono piacevole della sua voce.

Lei lo fissò, inclinando la testa da un lato – come avrebbe fatto se avesse avuto davanti un ragazzino viziato e irragionevole.

"La chiave".

Seguì un silenzio carico di tensione. Nessuno dei due sembrava disposto a cedere.

"La chiave, Lisbon".

"No".

Jane estrasse lentamente la mano dalla tasca, mostrando la pistola.

"Non costringermi ad usarla".

"Non lo faresti mai. Lo sappiamo entrambi".

"Dammi – quella – maledetta – chiave".

"Sei così bravo a leggere nel pensiero… Perché non provi a indovinare dove l'ho nascosta?"

Gli voltò le spalle, decisa ad ignorarlo. A fingere di non vedere quello sguardo – lo stesso sguardo di un animale in trappola.

Imprecando sottovoce, Jane posò la pistola sulla scrivania e prese a rovistare nei cassetti. Tra le pile di fascicoli che prendevano polvere sugli scaffali. Dentro la scatola di cioccolatini che Van Pelt aveva portato quel mattino.

Inutile. Non riusciva a ragionare lucidamente. Doveva uscire di lì. Al più presto.

"Non hai nessun diritto di tenermi rinchiuso qui dentro".

"Invece sì".

"Ah, davvero?"

Lisbon ignorò il suo tono sarcastico.

"Ho il diritto di impedire che tu ti metta nei guai".

La risata di Jane suonò innaturale.

"Non sei mia madre, Lisbon".

"Ma sono tua amica".

Preso momentaneamente alla sprovvista, Jane tacque.

Lo squillo del telefono fece trasalire entrambi.

"L'abbiamo preso".

Sentì le lacrime salirle agli occhi. Lacrime di gioia.

Impiegò qualche istante prima di riuscire a rispondere a Cho.

"Perfetto. Grazie, ragazzi".

Alzò lo sguardo, incontrando quello di Jane.

"Non dovevi farmi questo, Lisbon. John era mio".

Si lasciò cadere sul divano, coprendosi il viso con le mani.

Una serie di sentimenti contrastanti si combattevano nel suo animo. Rabbia, per essere stato derubato della sua vendetta. Sollievo, perché l'incubo era finito. Ma soprattutto un senso improvviso di vuoto, che si allargava ad inghiottire ogni altro pensiero.

Non si mosse quando Lisbon sedette accanto a lui e gli posò una mano sul braccio.

"Jane…"

Reagì bruscamente al suo tono comprensivo.

"Non dire nulla, per favore".

Lisbon considerò con una stretta al cuore le mani serrate a pugno – le nocche bianche – e l'espressione di acuta sofferenza che gli attraversava il volto.

"Jane, guardami. È tutto finito".

Nei suoi occhi il rancore fece strada a qualcosa di indefinibile. Liberato improvvisamente dal peso che l'aveva oppresso per tutto quel tempo, il suo animo si ritrovò indifeso di fronte al dolore dei ricordi.

"John doveva essere mio".

Di colpo cedette, appoggiandosi alla spalla di Lisbon e piangendo come un bambino.

"È finita, Jane. Sei libero".