Kate Beckett procedeva di malavoglia, bloccata nel fiume di persone che seguivano diligentemente i cartelli per il recupero bagagli dell'aeroporto. Su e giù da scale mobili, corridoi infiniti, con la sensazione che avrebbero girato in tondo per sempre.
Cercava di tenersi ai margini, per non farsi travolgere dai loro corpi frettolosi e ingombranti. Le mancava un po' l'aria, ma era solo un'impressione, lo sapeva. Lo spazio era piccolo e loro erano tanti, ma c'era abbastanza ossigeno per tutti. Non sarebbe successo niente.
Stringeva a sé la sua borsa a tracolla, il suo unico bagaglio a mano, come a volersi proteggere, e mettere una distanza fisica tra lei e il resto del mondo. Sobbalzava violentemente quando qualcuno, per sbaglio, la sfiorava.
Non ce la faceva. Era... troppo. Troppo presto, troppo faticoso. Rischioso. Non era pronta. Era da sola e non era in grado di badare a se stessa. Era stata una pessima idea, prendere un aereo e partire. Perché non l'aveva fermata nessuno?
Sentì la sensazione familiare del panico che le stringeva lo stomaco, il cuore che accelerava i battiti e le rombava nelle orecchie. Non di nuovo, per favore, no. Le gambe erano molli e temette di svenire.
Calma, doveva solo stare calma.
Lo sapeva che non stava per svenire, c'erano motivi scientifici a dimostrarlo e lei li aveva imparati. Si passò una mano tra i capelli, la nuca già fradicia di sudore.
Rallentò, rischiando di essere travolta e questo aumentò il suo terrore. Mormorò delle scuse generiche, a cui nessuno fece attenzione.
D'istinto si guardò intorno per cercare una via di fuga, ma tutto quello che vide furono corridoi interminabili e gente. C'era gente ovunque, sembravano essersi moltiplicati.
Guarda fuori. Fuori c'è l'aria aperta. Fuori è grande. C'è solo una parete di mezzo.
La cosa, per quanto insensata potesse sembrare, paradossalmente, sembrò calmarla davvero. E non era un'impressione, il cuore stava rallentando, non le sembrava più che stesse per spiccare il volo da un momento all'altro.
Fece un respiro lento e profondo, come le aveva insegnato il dottor Burke. Contò fino a quattro con le dita, come quando era una bambina, e poi espirò, lasciando andare tutto. Lo ripeté più volte, sapendo che all'inizio era difficile imporre un ritmo alla respirazione, ma poi il corpo si arrendeva e l'ansia indietreggiava. Quando era fortunata.
Mise una mano in tasca e si sentì confortata dal piccolo contenitore di vetro che toccò con le dita, fedele compagno da qualche mese, suo malgrado. Questa volta non era servito e lei si sentì bene per questo. Era sbagliato, ma voleva dimostrare a se stessa che poteva farcela senza. Voleva almeno avere qualcosa su cui esercitare un controllo illusorio.
Le sembrò di sentirsi meglio, quindi riprese a camminare a passo più spedito, desiderando solo essere fuori di lì e respirare un po' di aria fresca. Però era rimasta sulle sue gambe, e non aveva ceduto al panico. Non era finita in un angolo rannicchiata senza riuscire a far circolare aria nei suoi polmoni, credendo di morire.
Poteva farcela. Era la sua piccola vittoria quotidiana.
Forse partire non era stata una cattiva idea, dopotutto. Forse aveva ragione chi l'aveva incoraggiata e le aveva promesso che sarebbe andato tutto bene. "Tutto bene" era un'isola che non aveva ancora raggiunto, ma aveva apprezzato le buone intenzioni.
Le bastava arrivare a sera, e pensare che non era stato peggio del solito. Segnava i giorni che erano andati meglio di altri. Li contava. Aveva contato anche i sedili dell'aereo e i gradini della scaletta agganciata per la discesa a terra. Contare la faceva concentrare su qualcosa d'altro che non fosse il malessere continuo.
Finalmente finì la lunga marcia e si predispose, insieme alla moltitudine di variegata umanità, sua casuale compagna di viaggio, ad aspettare l'arrivo dei bagagli. Si tenne in disparte, scegliendo un angolo che le sembrò meno esposto e da cui aveva una migliore visuale di tutto l'ambiente. Così era pronta per qualsiasi evenienza.
Era troppo grande. Chi aveva progettato degli spazi così ampi? Poteva succedere di tutto. C'era troppa gente, chiunque poteva avere un'arma e tirarla fuori all'improvviso. No, non potevano averla, ricordò a se stessa. Erano passati attraverso il metal detector, prima di salire sull'aereo.
Era vero, ma poteva esserci una falla nel sistema. Dai, Kate, smettila di essere paranoica.
Cercò con le dita la cicatrice che pizzicava, in un gesto che le era diventato automatico. Non riusciva ancora a guardarla, ma voleva sentirla al tatto, continuamente. Era diventato una specie di gesto di conforto, a cui appigliarsi nei momenti di disagio.
Era una parte di lei nuova che aveva dovuto accettare.
Forse toccarla significava volersi convincersi di essere ancora viva. O, più probabilmente, era solo una nuova compulsione.
Vide un flash improvviso nel suo campo visivo e si portò subito una mano al fianco, senza nemmeno pensarci.
Ma non trovò niente, perché non aveva più la sua pistola. Per fortuna, pensò, perché non sarei in grado di gestirla.
A cosa mi sono ridotta.
No, Kate. L'autocommiserazione, no. Non funziona. E' solo un piacere perverso che non cambia la sostanza delle cose.
Doveva essere felice di essere ancora viva, le dicevano tutti. Come se questo significasse scendere in strada a cantare inni di gioia, mettendosi fiori di campo tra i capelli.
Se questa era la sua vita, bene, grazie, lei non la voleva.
Si sentiva danneggiata, come un vaso rotto che non sarebbe più tornato intatto. Sì, l'avrebbe riparato, con il tempo e tanta fatica, ma non sarebbe mai più stato integro.
E questo la rendeva furibonda.
Perché le avevano sparato e lei era stata colta impreparata. Perché non aveva avuto la possibilità di affrontare il suo nemico e lui l'aveva colpita a tradimento. Quando aveva la guardia abbassata.
Ma, soprattutto, come si era permesso di voler uccidere lei? Voleva averlo tra le mani per cavargli gli occhi con un coltello affilato. Uno per volta e lentamente. Vendetta privata, homo homini lupus tanti saluti a millenni di civiltà.
L'amara verità era che, alla fine, lui poteva non essere riuscito nel suo intento di ucciderla, perché lei non era tecnicamente morta, però l'aveva fatta precipitare di colpo in una non-vita che lei rifiutava con tutte le sue forze.
Era semplice. Non voleva vivere così. Spaventata, all'erta, pronta a difendersi. Impotente. Vulnerabile. Impaurita.
Lei non aveva mai avuto paura. E adesso ce l'aveva, in continuazione. Paura di stare male, di dover vivere per sempre con l'idea che il mondo le potesse chiudersi addosso di punto in bianco. Avere paura della paura, ecco qual era la cosa era la cosa peggiore. Perché era come un veleno che rendeva la vita un inferno, giorno dopo giorno.
All'inizio della sua convalescenza, quando si era rifugiata nello chalet della sua famiglia, insieme al padre, dopo essere stata dimessa dall'ospedale, aveva passato un lungo periodo alternando crisi di pianto e di rabbia, che la spaventavano e la lasciavano senza forze.
Non era lei. Non si riconosceva più.
Anche Jim accusava il colpo dei suoi momenti di sfogo, anche se lei cercava di trattenersi, senza riuscirci. Ecco un'altra cosa che le era nuova e che non sapeva gestire: le emozioni che sembravano letteralmente straripare dentro di lei, senza nessuna possibilità di mediazione, e che si alternavano a ondate, su e giù, senza logica.
Aveva anche iniziato a leggere qualche libro di auto-aiuto, che le aveva portato Jim. Quando li aveva visti, aveva soffocato il feroce desiderio di lanciarli nel camino e aveva cercato di provare gratitudine per quel padre che aveva rischiato di perdere anche la figlia, senza saperne il motivo.
E lo era stata, grata. Ma avrebbe preferito usarli per accendere il fuoco. Soprattutto dopo aver letto qualche pagina.
Oh, certo, le grandi prove della vita che ci rendono persone migliori. La sofferenza che fortifica. La forza che sembra arrivare da punti insospettabili nella profondità di noi stessi e che ci permettono di superare tutto e poi andare in giro a fare proselitismo con gli aforismi stampati sulla maglietta.
No, grazie, lei non era forte. Lei non voleva essere forte. La verità è che nessuno era più forte di altri. Anzi, che nessuno può permettersi di non esserlo, quando è necessario. Era solo che in certi momenti si doveva cacciar fuori quello che si aveva, per tirare avanti.
Se c'è una cosa che ho imparato dalla vita, è che Si. Va. Avanti.
Oddio, stava davvero iniziando a parlare per aforismi, e la cosa le fece venire da ridere, a sorpresa.
Kate Beckett, non sei finita poi così in basso, se riesci ancora a sorridere di te stessa.
E questo magari l'avrebbe messo nella lista di cose positive di oggi.
Due passi avanti e uno indietro. Era il meglio che poteva chiedere alla vita.
Pensare solo ai risultati ottenuti e non a quello che mancava.
Essere felici nonostante. Era il suo mantra.
Beh, felice era una parola grossa, pensò mentre finalmente il nastro iniziava a scorrere e la gente si accalcava con l'ansia di non veder arrivare la propria valigia. Come se la perdita del bagaglio significasse anche la perdita di una parte di sé.
Lei aveva perso già talmente tanto, e più di una volta, che aveva imparato a viaggiare leggera.
Ci si abitua tutto in fondo nella vita.
Questi erano gli attimi di cauto benessere, in cui cominciava a scendere a patti con quello che era successo.
All'inizio era solo buio. E vuoto. E freddo. E un'angoscia che era puro dolore animale.
Poi erano iniziati gli istanti di nulla, quando, all'improvviso, non sentiva niente. Sedeva sulla vecchia sedia a dondolo di vimini, in silenzio vicino a suo padre a guardare la cime degli alberi, per ore, non provando assolutamente niente. La gente probabilmente aveva iniziato a pensare che fosse diventata una specie di stramba solitaria, muta.
Suo padre capiva, era questa la cosa importante. Degli altri non le importava. Si rendeva conto che erano tutti preoccupati per lei, ma non aveva nemmeno la forza di comporre un messaggio sul cellulare. Parlare. Spiegare. Rassicurare. Le frasi di circostanza.
Non sentire niente era stato una benedizione, all'inizio. Passava le giornate in uno stato quasi allucinatorio, dormendo per la maggior parte del tempo, a causa di una sonnolenza ininterrotta, che le rendeva impossibile tenere aperti gli occhi. E dopo settimane in cui aveva passato le notti guardando il soffitto, non chiedeva niente di meglio.
Ma quando aveva iniziato a non volersi alzare dal letto la mattina, perché sotto le coperte si stava così bene, e l'idea di uscirne le sembrava indicibilmente faticosa, suo padre aveva avanzato timidamente l'idea che forse, Katie, non è il caso di vedere qualcuno?
Non voleva vedere nessuno.
Men che meno uno psichiatra che le avrebbe fatto la predica.
Se vuoi insegnarmi qualcosa, tu, prossimo, chiunque, devi passare quello che ho passato io. Altrimenti fai silenzio.
Ci era andata, per fare contento Jim e perché da qualche parte dentro di lei sapeva che aveva bisogno di aiuto. E così almeno tutti avrebbero smesso di importunarla.
Il dottor Burke era stato molto paziente con lei.
E lei usciva sempre sollevata dagli incontri con lui. Anche se piangeva, spesso, e stava in silenzio, contando le mattonelle. E lui aspettava, senza dire niente.
Le aveva spiegato che quello che sentiva era normale. Che lei era normale. Che non era danneggiata. Che nessuno è un vaso, né tanto meno un vaso rotto riaggiustato, e via di metafore dell'acqua che si adatta all'ostacolo e lo incorpora senza perdere di forza. Però, chissà perché, le frasi sagge dette da lui le facevano un effetto diverso. Forse perché voleva credere che la salvezza per lei fosse possibile, almeno un po'.
E adesso era lì, in un posto sperduto, fuori stagione, di cui non aveva saputo nemmeno l'esistenza finché qualcuno in agenzia non le aveva chiesto dove volesse andare e lei aveva detto via. Lontano.
Era a un oceano da casa, e qualcosa di più. Da sola. A pezzi, confusa, disorientata, fragile e senza sapere cosa avrebbe fatto di sé e della sua vita.
Semplicemente un mattino, svegliandosi, aveva avuto voglia di partire e lasciarsi tutto alle spalle. Voleva posti nuovi, voleva ricominciare a ricostruire una nuova Kate in un posto in cui nessuno conoscesse quella vecchia, svanita del nulla.
Si chiese quante volte ci si deve ricostruire, in una vita.
Trovò l'uscita e finalmente poté respirare aria pulita, grazie a una leggera brezza. Guardò il paesaggio brullo, punteggiato da case basse, solitarie e, più lontano, il mare.
Si sentì inaspettatamente felice di essere lì. E più calma, senza più quel perpetuo senso di soffocamento che non le lasciava la gola, da mesi. Forse era perché l'orizzonte era così ampio e le sembrava che i suoi polmoni potessero contenere tutta l'aria di cui avevano bisogno. O forse era perché ce l'aveva fatta senza svenire, morire, gestendo l'ansia. O magari stava iniziando a guarire.
Si sentiva in pace anche per essere circondata da gente sconosciuta che parlava una lingua che lei non capiva. Non doveva fare conversazione, non doveva entrare nelle vite degli altri. Ne aveva già abbastanza della propria. Era come avere un'ulteriore protezione contro il mondo esterno, con il suo carico di pessimismo e brutte notizie.
Qualcosa in più sul versante ottimismo, Kate? Pensò divertita.
E in quel momento sentì un accento americano. Si stizzì subito. Dovevano essere per forza anche lì? Non ci si poteva nascondere dai connazionali? Per tutto il tempo del suo soggiorno non avrebbe parlato con nessuno, per non far capire la sua provenienza. L'aveva già deciso e adesso le sembrò l'unico modo di sopravvivere.
L'uomo stava parlando ad alta voce al telefono, rassicurando qualcuno sul fatto di essere giunto a destinazione sano e salvo. Perché la gente deve per forza avventarsi sui cellulari per comunicare di essere ancora vivi? State tranquilli che le cattive nuove arrivano a destinazione con puntualità. E se ci fosse stato un disastro aereo lo avrebbero già detto le televisioni di tutto il mondo. Potevano seguire il volo online, se ci tenevano.
Soprattutto, perché dovevano inquinare acusticamente il suo spazio vitale?
Si voltò indispettita a guardare chi avesse l'ardire di farsi riconoscere subito in un Paese straniero, neanche il tempo di arrivare, irritata con lui e con se stessa per avere una soglia di tolleranza così bassa. Lei non era così, prima. Ma era tutto quello che aveva adesso.
Aveva perfino deciso per una casa indipendente, invece che prenotare una camera in un albergo pieno di comfort, per non avere la compagnia di nessuno. Per non doverli neanche vedere.
Passerà il tempo, e io diventerò anziana e vivrò sola con tanti gatti, tutti rossi. Rabbrividì. Lei non li amava nemmeno, i gatti, ma forse a un certo punto, a furia di allontanare le persone, non sarebbe rimasto nemmeno un cane. Letteralmente.
Lanciò un rapido sguardo all'uomo girato di spalle, e si stupì perché si era aspettata di vedere qualcuno con un cappellino da baseball e i bermuda. Magari con una bibita in mano. Invece era alto. Era molto alto. E, a parte avere un tono entusiasta decisamente fuori luogo, mentre stava parlando con una donna (non stava origliando. Era impossibile non sentirlo), era elegantemente vestito con una giacca su misura che gridava migliaia di dollari. Scarpe di pelle. Ottimo taglio di capelli. Palestra, ma senza esagerare. Preferenza per uno stile di vita godereccio. Ampie spalle, jeans aderenti.
Non che le interessasse come uomo, era solo una deformazione professionale, era abituata a registrare i dettagli. Oltre a tutto il resto, come se non bastasse, aveva anche chiuso la sua ultima storia, subito dopo "Il fatto". Quindi, gli uomini erano fuori dal quadro.
Lo sconosciuto si girò all'improvviso e i loro occhi si incrociarono per un istante, prima che lei abbassasse i propri, imbarazzata per essersi fatta sorprendere a fissarlo, come se lo stesse spiando.
Che era sì quello che stava facendo, ma solo perché la fila per i taxi era molto lunga e per fortuna era arrivato il suo turno.
Aprì la portiera al volo e si tuffò dentro, senza più osare guardare nella sua direzione.
Quando finalmente fu certa di aver messo abbastanza spazio tra di loro, si abbandonò contro il sedile posteriore, senza riuscire a smettere di pensare allo sconosciuto. Le sembrava di averlo già visto da qualche parte, ma, con il suo lavoro, incontrava sempre moltissima gente. E se lo aveva già incontrato, non deponeva certo a suo favore, perché voleva dire che era stato un testimone, un parente di una vittima, un sospettato o, alla peggio, un assassino. Latitante. Erano pur sempre all'estero. Lui però non sembrava ricordarsi di lei. E di solito ci si ricorda se qualcuno ti dà una brutta notizia o ti interroga con modi poco cortesi.
Mentre guardava dal finestrino, osservando pigramente il paesaggio scorrerle davanti agli occhi, si rese conto di colpo di chi fosse lo sconosciuto. Certo che lo aveva già visto. Era Richard Castle, pensò con orrore e divertimento. Era il suo scrittore di romanzi gialli preferito. Di romanzi, punto.
Aveva sempre desiderato incontrarlo per caso e fargli osservazioni molto argute e originali sui suoi libri e andava a finire che l'universo ti dava quello che volevi, nel momento in cui ti importa meno riceverlo.
Richard Castle, nel posto più sperduto al mondo. Scosse la testa. Se glielo avessero raccontato non ci avrebbe creduto.
