Castle era seduto sulla poltrona girevole del suo ufficio. Era più che seduto, era abbandonato in modo scomposto contro l'alto schienale di pelle, cercando un modo per far passare il tempo più velocemente.
Teneva d'occhio le lancette dell'orologio che si spostavano con esasperante lentezza. Odiava quei momenti, erano così contrari alla sua natura impaziente. Impetuosa, gli piaceva dirsi.
Il cellulare era davanti a lui, parcheggiato con cura e allineato ortogonalmente con cura meticolosa rispetto al perimetro della scrivania, lo schermo nero e muto a schernirlo.
Lo prese, controllò di non aver ricevuto messaggi o chiamate impreviste negli ultimi dieci secondi, e lo rimise a posto. Tutto taceva. Ricominciò ad attendere.
La sua frustrazione cresceva di minuto in minuto.
Kate, sua moglie, la sua legittima consorte da un anno proprio oggi, gli aveva detto, concesso, di passare a prenderla al lavoro, ma non un minuto prima, Castle, non lavoriamo insieme e non voglio che te ne vai in giro a ficcare il naso, per scovare casi e avere la scusa di trascinarmi davanti alla lavagna.
Perché no? Saremmo bravissimi. Siamo bravissimi. Che il suo primo pensiero non sarebbe stato proprio di trascinarla davanti alla lavagna l'aveva tenuto per sé. Qualche volta un uomo deve fare quello che deve fare.
E' proprio per questo, Castle, perché non possiamo più farlo.
Lui aveva letto tra le righe che Kate condivideva il medesimo dispiacere per non poter far insieme quello che veniva loro meglio, fuori dal loft, almeno.
Perché lavorare non era proprio la prima cosa che gli veniva in mente, se pensava a loro due, da soli, nella loro privacy legalmente riconosciuta.
Non voleva pensare ai loro altri piaceri. Oh, sì, ci avrebbe pensato, e l'avrebbe indotta a fare lo stesso. E non solo a livello contemplativo o cerebrale.
Ma questo sarebbe successo solo alla fine della loro serata, che aveva preparato con cura.
Era il loro anniversario. Se l'era ripetuto dal mattino, e tutti i giorni delle settimane precedenti. Non sapeva come non l'avesse fatta andare fuori di testa.
Trecentosessantacinque giorni di Buongiorno signora Castle e lui ancora non ci credeva.
Aveva avuto in mente delle idee grandiose, per festeggiare, lui amava gli anniversari e le ricorrenze e qualsiasi altro motivo reale o meno era un'occasione per celebrare la bellezza della vita (di averla nella propria) e regalarle cose costose, ma si era scontrato con la naturale tendenza di Beckett a preferire un profilo più basso.
Quindi no ad affittare un aereo privato, no a un rapido volo in Europa con solo loro due come passeggeri e tanto champagne, e no a invitare mezza città in una terrazza all'aperto da cui dominare Manhattan, e poi il mondo.
A novembre, Castle? Aveva declinato l'offerta con una semplice alzata di sopracciglia che lo aveva fatto grugnire piano per non farsi sentire.
Rovinava sempre tutto con la sua logica, le aveva risposto fingendosi molto offeso e rimettendosi a dormire per finta, pensando intanto a qualcosa d'altro con cui stupirla.
Perché le idee gli venivano soprattutto al mattino presto e non riusciva a tenerle per sé troppo a lungo. Sempre meglio che nel cuore della notte, era successo anche questo.
Perché poi lei sarebbe uscita con quei sui nuovi tailleur severi e così sexy e lui avrebbe trascorso molte ore da solo, lontano dalla sua presenza, di cui non poteva fare a meno.
Non era abituato a farlo, a stare senza di lei. Non era quello che voleva. Sette anni insieme lo avevano viziato e adesso non riusciva a farsene una ragione.
Gli faceva piacere che fosse diventata capitano, ovviamente. L'avrebbe sostenuta in qualsiasi circostanza, anche se avesse voluto intraprendere la strada della politica. O della fioraia, se era quello che voleva.
Non sarebbe stata magnifica circondata di orchidee bianche?
Aveva sempre saputo che non avrebbe fatto il detective per il resto della sua vita, perché era preparata, brillante, e ambiziosa.
Questo però non gli evitava di provare malinconia, e nostalgia nei giorni peggiori, perché questo significava stare separati.
Era stata la loro routine, l'aveva amata e gli era sempre andata benissimo, grazie. Era così che erano cresciuti come coppia, loro non avevano mai sofferto di troppa presenza. Più tempo trascorrevano in reciproca compagnia, e più si nutrivano l'uno dell'altra.
Da qualche settimana aveva dovuto imparare a fare a meno di lei, a riempire le sue giornate, con l'aiuto di Alexis, aspettando di poterla rivedere la sera, a un orario decente, quando erano fortunati, ma spesso molto tardi, anche nel cuore della notte.
Avevano indagato insieme, qualche volta, quando i loro casi si incrociavano non del tutto casualmente o lui, come investigatore privato dotato di regolare licenza, richiedeva l'intervento della polizia di New York.
Lei arrivava con lo sguardo da: "Non mi inganni nemmeno per un momento", che lui preferiva interpretare come un: "Se potessi ti trascinerei all'angolo della strada", cosa che, in un momento di rara condivisione, gli aveva confessato essere vera per la maggior parte delle volte.
Non gli confidava spesso quel genere di cose intime, perché sapeva che lui le avrebbe usate contro di lei e , nel suo solito modo poco misurato, avrebbe colto ogni occasione per lanciarle occhiate ardenti (era lei che aveva usato quel termine, ardenti, e lui si era sentito lusingato), dall'altra parte della stanza.
Lui, infatti, aveva iniziato davvero a guardarla con intenzioni per niente fraintendibili da quando glielo aveva rivelato con riluttanza, sapendo di irritarla oltremodo, ma non potendo fare a meno di... essere se stesso. Scanzonato, come amava definirsi.
Ti piacerebbe, Castle, secondo la versione di altre occasioni era riuscito a trovare una scusa valida per andare al distretto, dove la scovava seria, grave e composta, china sulle carte e rinchiusa nel suo ufficio, circondata da un'aura di autorevolezza.
Si era seduto compito davanti a lei, come se non fosse suo marito, per rispetto del suo nuovo ruolo, e si era trattenuto dalla voglia di passare un dito sulla ruga che le veniva sulla fronte, quando era così concentrata, e un po' preoccupata. Di certo provata dal nuovo ruolo.
Si rendeva conto che per lei era difficile abituarsi alla carica, sentirsi all'altezza. Si sfiniva per fare tutto giusto, per farsi rispettare, per dimostrare che era brava e che si meritava l'avanzamento di carriera.
Certo che se lo meritava, le aveva ripetuto per tutta l'estate. Ma toccava a lei rendersene conto. Intanto lavorava il triplo di prima, come un mulo.
E lui intanto si riempiva di amore che riusciva a trattenere a stento, aspettando i loro momenti privati che, a causa dei recenti avvenimenti, erano diventati sempre più preziosi.
L'accoglieva stanca, le sorrideva, o l'abbracciava, a seconda di come fosse andata la giornata (ma lui cercava sempre un modo di baciarla, lì sulla soglia, con ancora la borsa a tracolla) le toglieva la giacca e le preparava la cena, come atto di cura e di amore, ultimandola mentre lei si faceva la doccia e attraversava la loro camera scalza e con i capelli ancora umidi.
Era la prima immagine che gli veniva in mente durante il giorno, e quella che aveva più cara. Quella in cui, ai suoi occhi lei era più bella. Ed era molto, per essere una donna sempre tanto splendida.
Qualche volta si imponeva di smettere di guardarla, prima di consumarla per troppo amore.
Sì, si rendeva conto di essere diventato eccessivamente romantico, ma quello che provava per lei, la passione che gli bruciava dentro, non si era ancora spenta.
Aveva pensato che tutto quello che sentiva nei suoi confronti, si sarebbe in qualche modo sedimentato. Non era successo.
Non lo aveva desiderato, certo, avrebbe voluto consumarsi d'amore per sempre, per quanto lo riguardava, ma aveva trovato umano che, a un certo punto, quello che provava per lei si stabilizzasse, si addomesticasse, forse era quella la parola esatta.
Che non bastasse aprire gli occhi tutte le mattine e vederla nel letto vicino a lui per riempirsi d'amore divorante. O che avrebbe smesso di contare le ore prima del suo ritorno.
Invece lei era ancora in cima alla lista. Nonostante si fosse messo con lei, come si era proposto di fare anni prima, e l'avesse sposata.
Trovava ancora incredibile che lei ricambiasse con uguale impeto, a modo suo, certamente, ma con altrettanto trasporto.
E quando la vedeva rigirarsi la fede tra le dita non poteva fare a meno di pensare a quando era riuscito finalmente a infilargliela senza che ci fosse niente a oscurare la loro felicità.
Nessuna minaccia, nessun serial killer, complotto mondiale, suv nero alle sue spalle.
Ricordava quello che era successo un anno prima come se stesse accadendo di nuovo davanti a lui.
Glielo aveva proposto di nuovo, di sposarlo, preso da un'idea improvvisa.
Forse, se ci avesse riflettuto, non lo avrebbe fatto.
Ma, in quel momento, era stato sopraffatto dai sentimenti per lei, dalla paura di finire in un altrove, se esisteva, in cui loro non erano insieme, anche se era convinto che sarebbero stati loro in tutti gli universi possibili, al punto da sentirsi pronto a respingere qualsiasi obiezione logica, o emotiva, che lei avrebbe potuto presentargli, e a ragione.
Lei, invece, forse travolta dal suo notevole entusiasmo, non aveva protestato, né aveva replicato.
Si era aperta in un sorriso che non le aveva mai visto e che lo aveva letteralmente abbagliato e aveva detto di sì. Solo "sì".
Si era chiesto per un istante se avesse dovuto insistere anche prima, durante quel lungo mese che avevano concordato (che lei gli aveva imposto e lui aveva accettato per rispettare i suoi tempi), o se, forse, era quello il momento giusto.
Non lo avrebbe mai saputo.

Quando l'aveva vista a pochi metri da lui, aveva voluto solo infilarle quell'anello al dito e farla sua ora e per sempre, amen, come era stato fin dall'inizio, e come sarebbe stato fino alla fine dei suoi giorni (dei loro giorni, pensava in segreto. Non voleva spaventarla con le sue certezze da veggente mancato).
Era stato un momento di pura estasi, per lui. Anche solo perché aveva finalmente capito cosa significasse sposare qualcuno che amava davvero, in modi a lui incomprensibili, che sfidavano il senno, gli toglievano il sonno e si alimentavano giorno dopo giorno, aumentando di intensità, espandendosi come l'universo intorno alla galassia.
Aveva voluto darle quello che desiderava, quello che meritava, che meritavano, ma era rimasto incerto fino alla fine.
Davvero le andava bene un matrimonio intimo? Solo loro e le persone molto vicine? Era quello che aveva sempre desiderato? C'era qualsiasi altra cosa che poteva fare per lei?
Pensava incessantemente a modi immaginabili, e inimmaginabili, di renderla felice.
Sia perché, in fondo in fondo, si sentiva sempre in colpa per averla lasciata due mesi.
Signore del cielo, non riusciva nemmeno a pensare a cosa significassero due mesi, sessanta giorni, pensando a lui forse morto.
Lui non avrebbe resistito nemmeno due ore incerto sulla sua sorte.
E in parte perché si sentiva nato per quello. Per amarla. E renderla felice.
E sembrava che lei amasse essere resa felice da lui. La guardava ammirato, compiaciuto, sorpreso e un po' spaventato all'idea che una donna del genere volesse proprio lui. Tra tanti, solo lui. Possibile?
Promettendo di farlo per il resto della sua vita, e avendoglielo provato nei fatti, tutti i giorni da allora.
Sì, i suoi sogni si realizzavano. Ma così? Non era troppo per un essere umano? Se lo meritava davvero?
A quanto pareva, sì.
E se non lo meritava, era comunque grato a chi aveva agitato la bacchetta magica e gliela aveva fatta incontrare.
Se ne sarebbe reso meritevole. Purché gliela lasciassero, a qualsiasi costo.

Finalmente giunse l'ora, prese le chiavi e uscì dall'ufficio, per andare finalmente a prenderla.