Abisso
La Sirena e la promessa.
- Ancora tu. Non ti sei ancora stufato di venire qua, dopo tutto questo tempo? Sei patetico! La vergogna di un ninja. – sputò con disprezzo il suo divertimento in faccia all'uomo che era appena entrato nella sua cella.
– Sono molto deluso da te. – continuò con tono fintamente deluso scuotendo la testa. - Mi ero illuso che fossi più sveglio di così, invece sei ancora qui a rincorrere un fantasma. Colui che cerchi è morto. MORTO, capisci? Quella che stai inseguendo è solo una tua stupida speranza!
La figura davanti a lui non reagì, né parlò. Si limitò a fissarlo.
Ghignò. – O forse vuoi unirti a me? Fisicamente, intendo. È per questo che torni ancora? Vuoi questo corpo? Prendilo! Non mi interessa. Potrebbe perfino essere interessante.
Allargò le braccia. – Allora? Potremmo accordarci, non credi? Io ti lascio fare quello che vuoi di questo corpo, e tu mi fai uscire. Allora? Vuoi vedere la merce prima di pagare? - si passò, insinuante, le mani sul petto, infilandole sotto il bordo dello yukata che indossava e scostandone di più i lati, esponendone la pelle liscia al di sotto.
- Se vuoi ti posso far fare un giro gratis. – terminò urlando mentre il suo ospite se ne andava sbattendosi la porta della cella alle spalle. Poi rise, sbeffeggiando il suo carceriere.
Riemerse a passo calmo dai meandri della prigione, inseguito dalle risate di colui che vi aveva rinchiuso ormai molti anni prima, ignorando accuratamente i pochi che incrociarono il suo cammino. Nessuno ci faceva più caso, tanto, a lui. Si limitavano tutti ad annuire rispettosamente nella sua direzione, non sorprendendosi di non ottenere nulla, né tantomeno di trovarlo là.
Era sempre così.
I pochi che avevano osato addentrarsi in quella cella la prima volta, non tornavano la seconda. Tanto che era diventato una specie di rito di passaggio. Un modo per dimostrare di essere all'altezza del titolo di Anbu.
Quella prigione aveva un effetto pessimo su tutti. Nessuno faceva eccezione. Neppure lui.
Per lui però …
Ogni volta che cedeva alla tentazione di attraversare la soglia sigillata, un pezzetto della sua anima ormai crepata cedeva e si perdeva nel buio. Andando a raggiungere quelli che ormai vi avevano messo dimora da tempo.
Eppure vi tornava. Sempre.
Nonostante tutto, non poteva dimenticarne l'esistenza e lasciar andare.
Era come il richiamo di una sirena.
Irresistibile. Affascinante. Mortale.
Socchiuse gli occhi al primo raggio di Sole che lo accolse all'esterno.
Avrebbe potuto raggiungere il suo ufficio anche percorrendo dei corridoi interni, ma non lo faceva mai. L'essere accecato dal Sole, il sentire il vento sulla pelle, era diventato un rito. Purificazione e memento di cosa si era giurato, un giorno di tanti anni prima. La promessa che aveva fatto.
La promessa di riportare a casa il suo migliore amico.
Per anni si era aggrappato con tutto quello che aveva a quella promessa. E quando ci era riuscito, senza davvero averla assolta, l'aveva rinnovata.
Avrebbe riportato a casa l'anima della sua famiglia, come ne aveva riportato il corpo.
Lo aveva promesso al Sole, che aveva faticato a scaldarlo mentre riemergeva dalle profondità di quell'abisso in cui il corpo del suo amico era stato rinchiuso. Lo aveva giurato al Vento, che pareva sferzarlo con aghi acuminati, rimproverandogli l'incapacità che aveva dimostrato nel non farlo nel modo corretto la prima volta. Nonostante a quel tempo si fosse in primavera.
Si chiuse la porta dell'ufficio alle spalle con delicatezza, e solo allora strinse gli occhi e buttò fuori l'aria che sempre gli si strozzava in gola quando andava a vederlo.
Desiderando di poter prendere a pugni il muro, di poter distruggere quel posto maledetto che gli aveva portato via tanto, e quando era parso disposto a concedergli -alla fine- un premio per quello che aveva sopportato, aveva invece cambiato idea. E gli aveva strappato dalle mani quello che si era appena illuso di poter riavere.
Strinse forte i pugni, urlando la propria frustrazione al proprio cervello. Assordandosi per non sentire quel dolore aspro e pungente, che gli faceva sanguinare il cuore da anni. Senza dargli tregua. Senza concedergli pietà.
Un secco colpo alla porta lo distrasse dai pensieri cupi, e lo riportò al presente.
Si sedette alla scrivania e si finse concentratissimo nella lettura di una pratica che languiva sul piano probabilmente da diverse ore.
- Avanti. – concesse con tono asciutto, quando si sentì pronto ad affrontare il mondo con la solita facciata neutra.
La testa rosa di Sakura apparve da dietro il battente. Non entrò. – Tsunade-sama vuole vederci. – si limitò a dire prima di sparire nuovamente. Asciutta e telegrafica. Era diventata così da quando avevano riportato a casa il corpo del loro amico. Piano piano, si era … affievolita. Come un lume in cui l'olio scarseggiava. Sempre di più, sempre di più. Allontanandosi da lui. Da loro.
A volte la odiava, per aver perso la speranza. Loro non potevano perderla. Non potevano. Non era concepibile che loro si arrendessero. Assolutamente.
Si alzò e si avviò senza fretta verso l'ufficio di Tsunade. Lei non lo aveva aspettato. Come sempre.
D'altra parte, i giorni che li avevano visti "squadra" erano finiti da un pezzo.
Aprì la porta lasciata socchiusa da Sakura, ed entrò. Nell'ufficio, oltre a Tsunade, Shizune e Sakura, c'erano anche Kakashi, Shikamaru e …
- Bene. Ora che sei qui anche tu, possiamo iniziare. Sedetevi. – ordinò seccamente l'Hokage.
Prese posto accanto a Sakura, occhieggiando Gaara. Che ci faceva là? Che stessero pianificando una missione congiunta? Ne avrebbe saputo qualcosa prima della riunione, dato che era lui che se ne occupava. E non erano presenti altri ninja di Suna. Sakura poi non faceva quasi più missioni, occupata com'era con l'ospedale.
- Ho deciso di ritirarmi.
Lo scoppio inaspettato della bomba, lo gelò. Aprì la bocca senza pensare. – Non puoi farlo.
Tsunade lo incenerì con un'occhiataccia, e strinse più forte tra loro le dita intrecciate sulla scrivania dietro cui era seduta.
- Non hai il diritto di dirmi cosa fare, moccioso.
- Avevamo un accordo. – sibilò rabbioso. Non poteva credere che si stesse rimangiando la promessa che gli aveva fatto.
L'Hokage sostenne il suo sguardo accusatorio con durezza. – Sono passati cinque anni da quella promessa! E tu sapevi che prima o poi sarebbe successo. – scattò alla fine.
- Non si era mai stabilito un termine di scadenza, a che ricordo. – cercò di mantenere la compostezza stringendo le mani attorno ai braccioli della sedia fino a sentirli cedere sotto le proprie dita, ma non era facile. Quello era l'unico argomento che riusciva ad agitarlo, e lei lo sapeva bene.
– È ora che tutti noi guardiamo in faccia alla realtà. – condannò brutale la donna. – Non tornerà mai più.
Scattò bruscamente in piedi facendo rovesciare la sedia dietro di lui, e puntò le mani aperte sul piano della scrivania con tale forza che la superficie si incrinò.
– Non è vero. – sibilò con rancore. – Dobbiamo solo dargli più tempo. Troverà il modo di t … -/- Allora non sono stata abbastanza chiara. – lo interruppe lei con tono duro. - È ora che TU guardi in faccia alla realtà. Guardati intorno. Non vedi che sei solo tu quello che ci crede ancora?
La stanza era quieta. Nessuno si era mosso dal suo posto. Nessuno aveva obbiettato. Tutti si limitavano a fare da spettatori alla tragedia che loro stavano mettendo in atto.
La voce di Tsunade si ammorbidì. – Accetta la realtà, Sasuke. Naruto è perduto. Per sempre. Ti ho concesso di illuderti del contrario anche troppo a lungo. Sono cinque anni che ci provi, a riportarlo indietro dai meandri della sua mente. E ne erano passati altri cinque, prima che lo catturaste tu e Sakura. Dieci anni. Dieci, da quando Kurama è emerso e lo ha inghiottito. – sospirò, stanca. Sconfitta da se stessa. – Naruto è morto. E io non posso aspettare ancora a nominare il mio successore.
Chinò gli occhi concentrandoli sulle proprie mani ora serrate e premute sulla scrivania, per non vedere il dolore che riempiva quelli della donna davanti a lui. Per non vedere la pietà in quelli degli altri presenti nella stanza. - Come puoi? Come puoi far questo a colui che consideravi un figlio?
Tsunade chiuse i suoi, alla ferita che quella domanda sussurrata le scavò dentro. - Lui è morto, Sasuke. Accettalo, e vai avanti. Come tutti noi abbiamo fatto.
Accettarlo? Strinse di più i pugni, alzò gli occhi rossi su di lei. Rabbioso. – In quella gabbia c'è la persona che non si è arresa davanti a niente pur di riportarmi indietro. Respira. Parla. Vede. Sente. Mangia! E tu mi chiedi di dimenticarmi di lei? Quante volte lo avete detto al Dobe, di dimenticarsi di me? Non ho la minima intenzione di lasciarlo andare! Se non sarà lui a venire da me, allora andrò io da lui, e lo tirerò fuori dal suo abisso a forza. Anche a costo di morire nel tentativo.
- Sasuke … -/- Non ti permetterò di farlo. – Tsunade interruppe seccamente il mormorio sorpreso di Sakura, alzandosi improvvisamente. Puntò le mani sul piano, assumendo una posizione speculare a quella del moro furioso dall'altro capo della sua scrivania, e gli sibilò a poche decine di centimetri dalla faccia con la stessa determinazione che aveva riempito le sue parole: – Porterò due candidati davanti al Consiglio. E sarete tu e Sakura. Da ora in poi le vostre vite, qualsiasi sarà la decisione finale, apparterranno a Konoha, e per questo motivo non permetterò a nessuno di metterle in pericolo. Neppure a voi. Non ti permetterò di rischiare incoscientemente e vanamente la tua vita per una stupida illusione. Mi sono spiegata?
- Fottiti. – ringhiò Sasuke come unica risposta prima di uscire sbattendo la porta. Ignorando il richiamo di Sakura.
