[ Don't let go ]
E ce n'era di
posto in questa sporca trincea
si spartiva ogni giorno e minuto
ora ho tutto per me, ma mi rimane l'idea
di essere quello che
non è tornato.
Ora è tutto per me. Resta solo l'idea
che
forse son io a non esser tornato.
'Dal
fronte non è più tornato', Vladimir Vysotskij
Intuisco i suoi
passi, prima ancora di udirli realmente.
Lo immagino al di là
della porta, stringere con ferocia le dita della mano sinistra
intorno alla bacchetta, nascondendola abilmente all'interno della
manica della sua lunga veste esotica. Penso alla sorpresa che si
dipingerà sul suo volto quando, varcata quella soglia, non troverà
Yaxley ad attenderlo. Troverà me.
Quando finalmente bussa con
discrezione sul legno brillante della porta, conosco già quel che
sarà il probabile svolgimento della nostra discussione.
«Entra,
Shackelbolt».
So già che non mi piacerà. Che non riuscirò ad
essere crudele quanto vorrei.
Che non sarò nemmeno
comprensivo.
Non sarò umano.
L'averne prontamente
riconosciuto la voce non mi trattiene dall'esclamare con sorpresa il
suo nome quando, al tono piatto e alla raucedine che l'hanno sempre
contraddistinto, si aggiungono di fronte ai miei occhi i lineamenti
irregolari del suo volto.
«Dolohov!»
Osservo il punto in cui
anni fa il suo naso è stato rotto, la lunga cicatrice che gli solca
diagonalmente una guancia. Mi ritrovo mio malgrado a sorprendermi di
quei segni rossi e in rilievo che interrompono così bruscamente il
candore della sua pelle: ero convinto che si trovassero sull'altra
guancia.
«Dov'è Yaxley?»
«Non credevo avessi preferenze.
Pensavo ci detestassi tutti allo stesso modo».
Ha ragione, eppure
replico ugualmente: «A quanto pare ti sbagliavi, Antonin».
Sottolineo aspramente il suo nome.
Lui attende silenzioso qualche
istante prima di scoppiare a ridere sonoramente, reclinando la testa
all'indietro mentre porta i piedi ad incrociarsi sulla scrivania
ordinata di Yaxley.
«Non è vero» constata poi freddamente,
recuperando in un solo istante il suo autocontrollo.
«Tu non
sbagli mai Dolohov?»
«Sempre». E la sua risposta mi sorprende,
lasciandomi momentaneamente interdetto. «Perchè non ti
siedi?»
Antonin osserva con attenzione ogni mio movimento, mentre
prendo lentamente posto di fronte a lui.
Fiamme arancioni bruciano
senza emettere alcun suono nel camino, evidentemente ridotte al
silenzio da un incantesimo. Nessun'altra fonte di luce rischiara
l'ambiente oscuro e ostile, eppure il profilo aguzzo di Dolohov si
staglia netto sulla parete alla mia sinistra. Le nostre ombre stanno
intrattenendo un'altra conversazione lungo le pietre di quel muro,
scambiandosi parole che noi non possiamo udire.
«Non hai mai
visto la tua ombra prima d'ora?»
«Non ho mai pensato che potesse
essere più viva di me».
Mi aspetto che la sua risata di scherno
riecheggi nuovamente nella stanza, ma non è così. Il suo silenzio è
forse ancor più penetrante e solo quando mi costringo a guardarlo in
volto decide di romperlo. Le sue labbra sono piegate in una smorfia
amara.
«Cosa volevi da lui?»
«Lui?»
«Yaxley».
Sorrido,
senza nemmeno sapere perchè. Mi domando chi potrebbe trovare
piacevole la risposta che sto per dargli.
«Qualcosa che tu
rifiuterai di concedermi, esattamente come avrebbe fatto
lui».
Dolohov toglie i piedi dalla scrivania, quasi la sua posa
maleducata lo avesse improvvisamente messo a disagio. Sembra captare
nell'aria il sentore solenne della richiesta che sto per formulare,
spero, con voce sicura e profonda. Sembra che le mie emozioni debbano
diventare le sue, che lo costringano a sedersi meno scompostamente,
congiungendo le grandi mani a sottolineare la sua assoluta attenzione
o il suo totale distacco.
«Rivoglio il suo corpo, Antonin».
La
mia ombra stringe ferocemente a pugno la mano sinistra. Le unghie
affondano nella mia stessa carne e se non lo avessi visto replicato
sulla parete con la coda dell'occhio, non me ne sarei nemmeno
accorto.
«Lo pretendo».
Il primo impulso è quello di
rispondergli: «Il corpo di chi?» Riesco a immaginare la piega
feroce che assumerebbero le mie labbra, sentire il tono subdolo della
mia voce. Ma, non so il perchè, evito.
«Perchè vieni a
chiederlo a me?»
«Veramente avrei voluto chiederlo a Yaxley»
replica con estrema calma.
«Ma certo. Lui ti avrebbe come minimo
offerto un tè». Percorro con le dita lo scheletro della mia
cicatrice, arrivando a stringere il mento, come se dovessi realmente
valutare la sua richiesta. Un gesto assolutamente involontario.
«Lo
sai che non posso farlo, lo hai detto tu stesso». Capisco che la mia
risposta lo ha stupito dal modo in cui i suoi occhi scuri si dilatano
nella penombra dell'ufficio. Da come le sua mani corrono a stringere
un lembo della veste colorata. Mi viene voglia di ringhiargli che sì,
ero un Serpeverde, e sì, sono un Mangiamorte, e sì, sono ancora in
grado di comprendere l'importanza di seppellire degnamente un
amico.
«Non puoi tu,
Antonin?» mi domanda, nessuna apparente emozione a trapelare dalla
sua voce calda, penetrante.
«Cosa vuoi dire?»
«Dovrei
chiedere a qualcun altro?» inizia a spiegare, separando
accuratamente ogni parola dall'altra. «Qualcuno... più
in alto?»
«Tipo?»
gli rido in faccia, sinceramente divertito dalla sua ingenua
insinuazione.
«Piton, ad esempio».
«E ti abbasseresti ad
implorare l'uomo che vi ha traditi, uccidendo il vostro, uhm,
mentore?
Ad ogni modo» proseguo in fretta, per precedere qualunque suo
tentativo di replica «temo che la nostra gerarchia interna sia in
costante cambiamento».
«Allora cosa mi suggerisci di fare?»
Non
vorrei dirglielo e al contempo vorrei. Sento l'eccitazione che la
consapevolezza di poterlo ferire in profondità mi dona, scorrere
incontrollabile nelle vene. Insieme al sangue. Naturale come il mio
respiro o il mio pensiero.
«Sì, Kingsley, dovresti chiedere a
qualcuno che sta più in alto».
Lo vedo sporgersi leggermente in
avanti sulla sedia, in attesa.
«Dovresti chiedere a
Nagini».
«No».
Mi limito a dirlo piano, tornando a
poggiare la schiena contro la sedia.
Le fiamme nel camino si sono
quasi completamente spente, le braci non sono più sufficienti a
proiettare le nostre ombre sui muri. Dolohov si alza, dandomi le
spalle per ravvivarle con la bacchetta.
«No» ripeto, e non
voglio più vedere il ghigno malvagio sul suo volto, il rossore
innaturale della pelle dove la cicatrice deturpa il suo profilo
severo.
«Credi che continuare a ripeterlo lo renderà meno
reale?» Non riesco a decifrare il suo tono, ma del resto non sono
nemmeno interessato a farlo: non mi aspetto nulla da lui. Vorrei
soltanto poter trovare la forza di aggredirlo, qui, ora, lottare come
animali, come se questo
potesse in effetti renderlo meno vero.
«No».
E non so se sto
rispondendo alla sua domanda, alla sua schiena curva sul fuoco, o se
lo sto ripetendo un'altra volta. No.
Forse è semplicemente quello che penso, perchè quello che ha detto
è inconcepibile. Assurdamente tale.
Io sono qui per riavere il
corpo.
Evidentemente lui è qui per distruggermi.
Mi
sorprende che non abbia ancora pronunciato il suo nome.
Credevo
che Azkaban mi avesse ormai privato di ogni sentimento, defraudato di
ogni emozione, lasciandomi sospeso in uno stato che tutto è fuorché
umano. Eppure tornare a guardare il suo volto è difficile. Osservare
la rabbia e la disperazione che lottano voracemente per prevalere,
deturpare i suoi lineamenti morbidi, rimanendo impassibile è una
sfida. Si intravede la lince al di là dei suoi occhi, si intuisce il
suo ringhio feroce nella piega austera delle labbra.
Mi appoggio
pigramente al camino, nell'attesa che accada qualcosa e devo
ammettere che, quando Shackelbolt sfodera la sua bacchetta alzandola
repentinamente verso di me, mi coglie impreparato.
«Cosa vuoi
fare?» Non ho nemmeno il tempo di indignarmi per la nota di paura
che scorre vergognosamente nella mia voce, prima di accorgermi che la
bacchetta è in realtà puntata verso il camino al quale sono ancora
poggiato, rigido e teso. Un movimento elegante della mano e lo
scoppiettio innaturalmente silenzioso delle fiamme torna a farsi
rumoroso, colmando in un istante il silenzio opprimente della
stanza.
«Voi non siete umani» dice, la sua affermazione
lapidaria accompagnata dalla neonata voce roca del fuoco.
«Sì»
concordo, alzando le spalle. «Forse hai ragione. Anche io ho sempre
pensato che fare prigionieri fosse molto più umano.
Affidarli alle cure dei Dissennatori è decisamente più
civile...»
«Non
farlo!»
Rido, non potendo fare altrimenti.
«Non provarci
neanche!» continua, e la rabbia sembra uscire finalmente vittoriosa
dalla battaglia, svanendo poi però così velocemente come è giunta.
Scompare e non lascia niente dietro si sé, assolutamente niente.
Forse solo una sfumatura di rassegnazione, nonostante sia l'ultima
cosa che mi sarei aspettato di vedere sul viso di Kingsley
Shackelbolt.
«Cosa ci fai ancora qui?»
«Vuoi che me ne
vada?»
«Yaxley sta per tornare».
«Hai paura che ti veda
intrattenerti con il nemico?» non mi guarda mentre lo dice, ed io
torno a ridere ancora una volta. Potrebbe quasi sembrare che
quest'incontro mi stia donando la conversazione più divertente degli
ultimi vent'anni.
«Non preoccuparti per me, la mia fedeltà non è
mai stata messa in dubbio». Lascio il camino per abbandonarmi sul
bracciolo imbottito della sedia. Accarezzo la stoffa morbida con i
polpastrelli. «Ma potresti sempre uscire da questo ufficio in
lacrime, sono certo che alzerebbe le mie quotazioni. Cosa ci fai
ancora qui?» ripeto, e lo dico perchè vorrei rimanere solo.
Capire
cosa è successo in questi ultimi minuti.
Non so cosa mi
trattenga. Le nostre ombre, forse, tornate a muoversi sulle pareti
della stanza.
Quella di Dolohov è più grande della mia e
d'improvviso si trasforma davanti ai miei occhi, diventando
l'immagine mostruosa del suo
corpo, divorato dal serpente.
E il serpente è la mia ombra.
Il
serpente sono io.
Scuote la testa come per svegliarsi da un
sogno ad occhi aperti, o più probabilmente un incubo.
Si alza
repentinamente e attraversa l'ufficio a grandi falcate, andandosene
senza più pronunciare una sola parola. Un attimo soltanto e non è
più in questa stanza. Finisce tutto così, così come è
iniziato.
Yaxley arriva poco dopo. Mi trova ancora seduto sul
bracciolo, ancora intento a carezzarlo.
«Allora?» Punta la
bacchetta verso il camino per zittire le fiamme, infastidito.
«Non
sono stato umano» sussurro impercettibilmente.
«Come?» domanda
lui, sedendosi sul bordo della sua scrivania.
Sta osservando le
nostre ombre.
