Soggetto: X Files
Personaggi: Samantha Mulder, Jeffrey Spender
Intro: Cerca di catturare l'attimo che mi ha reso ciò che sono ...
Tipo: drammatico
Ratings: PG13
Note: Questa fanfic ha avuto una storia lunga e travagliata. Nasce come primo capitolo di una vicenda più lunga e complessa, ma è rimasta incompiuta troppo a lungo e alla fine ho esaurito interesse e ispirazione per scriverla. Così ho deciso di tradurre i capitoli in episodi a se stanti riscoprendo in questo nuova ispirazione e libertà, non essendo più vincolata al dover completare una storia, così come avviene già per le fanfic dedicate a Spike.
Il personaggio di Samantha, tanto misterioso quanto odiato (dai alcuni fans) mi ha sempre affascinato e incuriosito; la sua presenza nella serie è costante e importante fin dalla prima puntata, il solo nominarla scatena una serie di discussioni e ragionamenti, chiave di una trama intricata e complessa che ancora rimane per la maggior parte oscura. Questo va bene, un narratore non deve per forza raccontare tutto. Ci pensano gli spettatori con la loro fantasia e riempire i vuoti lasciati (a mio avviso) volutamente.
Proprio sull'onda di questa spinta creativa, ho iniziato a scrivere questa fanfic, soprattutto stimolata dagli eventi narrati nello splendido doppio episodio "Sein Und Zeit" e "Closure".
Spero vi emozioni leggerla quanto io mi sono emozionata scrivendola.
Quel che ne rimane...
I suoi capelli profumavano di latte di mandorle, come quella sera di secoli prima. Il guizzo infantile nei suoi occhi si era affievolito, fino a diventare una matura consapevolezza, come se quella figura, con la sua sola presenza, riuscisse a dare pace al suo cuore tormentato. Quel corpicino così fragile e delicato fra le sue braccia: ne avvertiva la stanchezza e il sollievo insieme, il peso del dolore, la crudeltà degli esperimenti, la serenità della libertà. E quel contatto sciolse qualcosa dentro di lui: sentì le sue membra farsi stanche e pesanti, la rabbia che covava, che aveva tenuto a fatica chiusa nel suo animo, il senso di colpa che gravava su di lui per aver lasciato che la portassero via (eri solo un bambino) scivolarono via, si congedarono in silenzio, intimoriti dal suo sguardo amorevole.
Le baciò la fronte distesa, le guance rosee, i capelli scuri.
Samantha continuava a guardarlo, serena; sapeva quello che Fox aveva passato.
- I miei pensieri sono sempre stati per te, Fox. E le mie preghiere. Nel tuo cuore non me ne sono mai andata. Ed è lì che voglio continuare a vivere. E' lì che non morirò mai -.
Aveva un ricordo: una piccola bimba con soffici riccioli scuri , una fresca tuta rosa, seduta sul prato, il sole che le bagna il viso, i grilli che cantano non molto lontani, la dolce voce di sua madre che intona una ninna nanna seduta sulla panca sotto la veranda.
Aveva cercato di sforzarsi, di ricordare altro. Ma ogni volta i suoi sforzi si rivelavano inutili, la testa cominciava a girare e doveva sedersi per non crollare a terra svenuta.
Da qualche tempo le capitava di svegliarsi continuamente durante la notte, in preda al terrore, una cieca paura di qualcosa che non riusciva a interpretare, come se ancora non avesse tutti i mezzi per farlo.
E allora si rifugiava in quel ricordo… doveva essere un ricordo: era troppo reale e vivo dentro di lei per essere solo un sogno o una fantasia. Jeffrey, con la sua logica e la sua freddezza avrebbe detto che era una specie di "coperta di Linus" mentale, nata dalla sua psiche tormentata e in cui rifugiarsi quando aveva gli incubi. Ma in realtà non voleva parlare con lui di questo: l'avrebbe presa in giro, come faceva sempre; era già abbastanza umiliante sapere che lui sentiva tutte le sue parole confuse e deliranti, il suo tormento notturno. Aveva anche provato a farsi dire cosa diceva, cosa lui riusciva captare dai suoi discorsi slegati, ma Jeffrey aveva fatto spallucce, l'aveva guardata negli occhi con quella sua odiosa espressione priva di emozioni, dicendo che non capiva niente del suo farfugliamento e che, comunque, non aveva alcun significato.
Quale idea assurda cercare in lui un amico, un rifugio nei momenti di sconforto!
Eppure sentiva chiaramente che accanto a lei, una persona molto vicina, qualcuno di cui poteva fidarsi, c'era.
E, insieme, avvertiva, giorno dopo giorno, il peso di qualcosa, la presenza costante di entità sconosciute e note allo stesso tempo. Ogni volta che fermava lo sguardo sulle proprie mani, sulla propria immagine allo specchio, aveva la certezza che qualcosa cambiava.
Cambiamento.
Consapevolezza che il suo corpo non le apparteneva del tutto.
Alle volte aveva la sensazione che qualcosa di viscido e invisibile le strisciasse sotto la pelle, divorandola come un cancro. E allora fuggiva sotto la doccia, strofinandosi le braccia e le gambe fino a farsi uscire il sangue, fino a sentir male, piangendo disperata, invocando nella sua mente quel nome, unico conforto e compagno di giochi nella sua infanzia, il suo amichetto immaginario, il sostituto di quel fratello che Jeffrey non era, non voleva essere.
Fox.
Un mugolio soffocato la distrasse dai suoi pensieri. Guardò nel buio, verso l'angolo della stanza dove sapeva essere il letto di Jeffrey. In un'altra notte, dalla finestra, sarebbero filtrati i raggi della luna, ma quella notte di luna nuova era nera e profonda quanto i suoi incubi.
Posò lo sguardo sulle lancette verdognole in fianco al suo letto: le cinque e mezza. Fra poco più di un'ora sarebbe stato giorno. Lasciò scivolare un piede sul pavimento, sentendone la superficie dura e fredda. Poi l'altro. Non che Jeffrey avesse il sonno particolarmente leggero, ma la prudenza non era mai troppa: sapeva che sarebbe corso a spifferare tutto alla mamma se l'avesse vista sgattaiolare a quell'ora fuori di casa: era da lui.
Ora veniva la parte più difficile: in quell'oscurità no ricordava se aveva dimenticato qualcosa sul pavimento o se Jeffrey si fosse tolto i vestiti gettandoli a terra alla rinfusa, pericolose trappole per i fuggiaschi. Sam si mise carponi e iniziò a gattonare verso la porta. La sua memoria fotografica era sempre stata una alleata preziosa in quei momenti di evasione tanto mentale quanto fisica. La sua prudenza si rivelò proverbiale: pochi passi e si ritrovò i jeans del fratello sotto i palmi delle mani. Più avanti la sua maglietta e le sue scarpe. Lasciava che fossero le dita ad esplorare il territorio oscuro davanti a lei, con pazienza e meticolosità. Quando seppe di essere in prossimità della porta alzò la mano all'altezza della maniglia, trovandola al primo colpo. Quindi si era risollevata in piedi e aveva tirato a sé l'uscio. Con movimenti rapidi e precisi, era sgattaiolata nel corridoio, l'aveva attraversato, usando sempre le dita come bussola, appoggiandole alla parete per verificare la propria posizione nello spazio. Una volta arrivata al salotto si era lanciata verso la finestra, l'aveva aperta ed era scesa sul prato, tenendosi bassa, acquattata sopra l'erba umida. Rimase bassa tutto il tempo che le serviva per coprire la distanza fra la propria residenza e il lato est del campo militare.
A quell'ora l'aria era frizzante, avvertiva la pelle d'oca sollevarle i peli delle braccia e delle spalle sotto il pigiama, mentre i piedi le si congelavano piano, piano. Ma questa sensazione le piaceva, alla ricerca com'era costantemente della conferma che era viva, presente.
Aveva paura di scivolare via, dimenticata, abbandonata.
Una persona è ancora viva se tutte le persone che la amano si dimenticano di lei?
Si portò fino alla rete, stando ben attenta a non toccarla, si raggomitolò sull'erba in quel punto, dove si era sempre seduta, da un paio di settimane a questa parte, quando i pensieri diventavano pesanti macigni sul cuore e la sua camera era troppo piccola per contenere tutta la sua ansia.
L'orizzonte cominciava a farsi più nitido, da dietro l'ombra scura delle colline si intravedeva l'alone più chiaro dei primi raggi del sole.
I campi si estendevano tra la rete e il punto in cui Sam stava guardando la luce che , come attesa ospite ad una festa che si sta facendo noiosa, ritornava padrona del mondo.
Girò la testa verso l'albero, chiedendosi se Barbara le avesse lasciato un messaggio prima di andarsene a letto la sera prima. Si alzò in un lamento mugugnato, quasi a malincuore; ma la curiosità era troppa.
Si avvicinò al tronco, lo studiò con circospezione, quindi infilò una mano nella cavità che doveva essere stata la tana di qualche scoiattolo.
L'aria all'interno del tronco era fredda e densa, carica di umidità. Provava un certo disagio ogni volta che doveva esplorarlo a tastoni.
Le ricordava l'atmosfera buia e cupa che si respirava dentro L'Ossario che si vedeva in lontananza, dal lato nord del campo.
Qualche anno prima, quando ancora Jeff era il fratello che era, rompiscatole se vogliamo, ma protettivo e presente, si ritrovavano spesso a fantasticare su ciò che poteva contenere. Il padre di Barbara aveva raccontato che quella specie di torre e ciò che conteneva era quello che rimaneva dopo che la guerra di Secessione era arrivata in quell'angolo del Paese.
"Quello che ne rimane".
Sam e Jeff si erano guardati negli occhi: un guizzo di infantile pazzia era passato tra i loro sguardi, un'intesa che ora rimpiangeva. Il Colonnello Paley sapeva cosa quei due avevano in mente.
- Non cacciatevi nei guai, ragazzi -, li aveva ammoniti. I due ragazzini lo avevano guardato, l'espressione nei loro volti era mutata ad una innocente e pacata remissività, avevano annuito con i loro occhioni sgranati e le labbra serrate, ma si erano subito voltati, tornando a guadarsi negli occhi. Il colonnello si era allontanato scuotendo la testa, sapendo che il suo era solo fiato sprecato.
Durante il pomeriggio Sam e Jeff erano andati al parco giochi che si trovava in fondo alla strada che conduceva al campo a nascondere le bici tra i cespugli, che sarebbero poi venuti a riprendere quella notte.
Il piano era di sgattaiolare fuori dal campo passando dall'entrata principale, aspettando il momento che qualcuno entrasse: il punto era parecchio illuminato, ma se erano svelti e silenziosi, avevano buone probabilità di farcela.
Era estate, non faceva freddo e si erano portati un po' di "scorte": patatine, pop-corn e succhi di frutta.
Nascosti tra i cespugli vicino alla sbarra, Sam e Jeff potevano sentire i loro cuori battere, i loro respiri concitati, l'eccitazione prendere possesso delle loro menti.
- Perché ci vuoi andare, Sam?-, le aveva chiesto il fratello con un filo di voce.
- Voglio vedere cosa succede ad un essere umano dopo che è morto -.
L'aveva guardata: quella creaturina piccola e indifesa, che aveva piagnucolato fin da quando era entrata nella sua vita, che doveva sempre difendere a scuola, che doveva confortare dopo che si era svegliata, nel cuore della notte, in preda agli incubi, quella ragazzina voleva vedere i morti. Non sapeva se fosse prudente chiederle il perché, dato che apparentemente Sam non avrebbe dovuto provare alcun interesse per certe cose: non era da donne!
Ma lo sapeva, Sam era diversa, era per quello che li era lì. Sam era come sua madre.
La stava ancora fissando e quando lei si era voltata per dargli il via, lo aveva colto con il suo sguardo da pesce lesso su di sé e con la bocca spalancata.
- Non ci avrai mica ripensato, vero?-, lo apostrofò lei.
Jeff si risvegliò dall'apatia momentanea e scosse la testa in un ampio e convincente gesto di diniego.
- Andiamo -, disse il ragazzo, prendendola per una mano e attirandola fuori dal nascondiglio.
Lo spazio tra l'auto e i cespugli era minimo, ma con i loro corpi minuti non fu una grande difficoltà superare la sbarra. Ora dovevano correre più in fretta che potevano per raggiungere l'oscurità al di là dell'alone del lampione che troneggiava sopra il casello di controllo.
Non si fermarono una volta fuori dal raggio d'azione della guardia, ma continuarono a correre fino al parco, fino al nascondiglio.
Si tuffarono fra le foglie e cominciarono a rovistare: le biciclette erano ancora lì, affondate dove le avevano lasciate poche ore prima.
Mentre si trascinavano fuori dal cespuglio, Jeff vide che qualche foglia si era impigliata fra i capelli di Sam, quei capelli che, dopo che lei li aveva tagliati l'anno prima, erano diventati lisci, lisci, quasi come spaghetti.
Si passò le mani fra i suoi, accorgendosi che anche lui aveva la testa piena di foglie e rametti secchi. Iniziò a spazzolarseli con foga. Sam notò quello che il fratello stava facendo, e anche lei cominciò a spettinarsi i capelli per liberarli dalla vegetazione.
- Che dici, ne ho ancora? -, aveva detto quando aveva pensato di aver finito. Jeff le si avvicinò levando una mano e affondò le dita nella sua folta chioma scura, sopra l'orecchio sinistro.
Prima ancora di accorgersene, quel gesto li aveva messi terribilmente a disagio: non era così che, come nei film con Cary Grant e Grace Kelly, i due protagonisti si innamoravano?
Sapevano entrambi di non essere realmente fratello e sorella, anche se si comportavano come se lo fossero.
D'altronde a Sam non rimaneva altro se non quel surrogato di famiglia, dato che di quello che era stata non si ricordava niente e che, a parte Jeff e sua madre, non aveva nessun altro.
Jeff aveva in mano un rametto striminzito, se lo era rigirato tra le dita per un paio di secondi, quindi lo aveva lasciato cadere a terra.
- Grazie – aveva sussurrato Sam e, guardandolo, si era accorta che anche lui non aveva fatto un buon lavoro.
- Hai ancora delle foglie, Jeff -, aveva detto abbassando lo sguardo sulla propria bici.
Jeff si era dato un'altra energica spazzolata e questa volta si era ripulito per bene.
Si erano avviati in silenzio, lui davanti e Sam dietro, pedalando con forza e sentendo in quel momento tutta l'illegalità di quello che avevano fatto. Se qualcuno si fosse accorto che erano spariti, li aspettavano giorni duri! Ma quello che era trapelato nei loro sguardi quella mattina, quando il Colonnello aveva raccontato loro la storia dell'Ossario, era un tacito accordo, una profonda consapevolezza e due erano le cose che il loro sguardo aveva suggellato: avrebbero visto quello che c'era là dentro e la punizione non li spaventava.
Né le minacce, né i castighi e nemmeno le punizioni corporali li avevano mai fermati. Quelle erano conseguenze, situazioni a cui non si sarebbero potuti sottrarre, molte volte anche se non avevano fatto niente.
Non potevano semplicemente ignorare quell'informazione e stare a guardare quella costruzione da lontano senza tentare di entrarci, di scoprire qualcosa che ancora non sapevano, che nessuno sapeva, ma che andava scoperta e raccontata assolutamente.
Si sentivano quasi in dovere di farlo, come se il loro scopo nella vita fosse scoprire la verità dietro ad ogni cosa, ogni apparenza. La loro vocazione di pionieri era il loro lasciapassare per castighi la cui fantasia, negli anni, aveva cominciato a scarseggiare. La loro tendenza ad infrangere le regole più elementari era il loro punto debole… o forte. Ma in mezzo alle difficoltà, chissà come, il loro legame non si spezzava: erano un team ben affiatato, Jeff e Sam, la premiata ditta Spender&Spender.
Arrivati all'Ossario si resero conto che non avevano la più pallida idea di come fare per entrare. La porta era ovviamente chiusa, le finestre erano piccole e inaccessibili feritoie, il muro invalicabile.
- Ebbene, Jeff, qualche idea? -.
- Perché lo chiedi a me? -, aveva sbottato lui, che fino a quel momento aveva sperato che Sam non lo mettesse nella solita posizione di "uomo della situazione": era così terribilmente pesante e scomoda la scintillante corazza da Principe Azzurro!
- Perché io, sinceramente, non ne ho! -.
Grazie a Dio Sam conservava quel pizzico di orgoglio tutto femminile che recentemente si era fatto largo fra le donne e che aveva sollevato gli uomini da obblighi assurdi quali l'aprire la porta e farle passare per prime, oppure di aiutarle a sedersi scostando loro la sedia.
Sam apparteneva a quella specie di donne che ancora rappresentavano una sparuta minoranza e che volevano fare tutto da sole. Sam non avrebbe mai detto "Sei tu l'uomo", piuttosto si sarebbe messa a scalare quel muro inaccessibile scorticandosi le dita! L'adorava per questo, poteva nasconderlo a lei e agli altri, ma non a se stesso.
E non solo questo: adorava quel suo viso delicato, quei suoi occhi così espressivi e quella cascata di capelli che avevano un profumo che non aveva mai sentito da nessun'altra parte, e che poteva sentirsi addosso quando, la notte, si accoccolavano l'una accanto all'altro dopo essere rimasti alzati a guardare un film dell'orrore.
Avrebbe voluto non lavare più i maglioni o le camice per non farlo scivolare via!
Sapeva che nessun'altra ragazza sapeva di buono come Sam.
Preso nei suoi pensieri, gli ci volle un po' per rendersi conto che la ragazza stava armeggiando con la porta come un abile scassinatore.
- Il lucchetto è vecchio e arrugginito. Basterebbe un calcio per sfondarlo! D'altronde, non penso che qualcuno venga qui di notte. E probabilmente nemmeno i tizi che custodiscono l'Ossario la pensano così -.
Iniziò a sferrare forti e precisi calci al lucchetto che sotto il vibrare energico dei suoi colpi tintinnava come spaventato.
Jeff si mise accanto a lei e, senza essersi messi d'accordo prima, iniziarono a colpire il catenaccio alternandosi.
Dopo un paio di colpi il lucchetto cadde a terra inanimato e inutile.
Jeff non poté trattenere un sorriso compiaciuto: il suo apporto di uomo era stato determinante. Voleva che fosse chiaro che tra i due era lui il più forte, era lui che proteggeva Sam, non certo il contrario. Era da lui che Sam doveva andare quando aveva paura o aveva bisogno di conforto. Da nessun altro.
La ragazza entrò nella porta scura senza fare il minimo commento sulla sua palese virilità e lui si sentì un po' deluso. Anzi, molto.
- Ehi, Sam, ho buttato giù la porta a calci, l'hai visto anche tu! -
- Bella forza, Jeff, dopo che io avevo fatto tutta la fatica! Sai quanti calci gli ho mollato io e quanti tu? -
- Cos'è? Li hai contati, Spender? -
- Certo, Spender! Io gliene ho dati nove e tu solo quattro! Per la legge dei grandi numeri, vinco io! -.
L'espressione di Sam si fece beffarda e compiaciuta. Dio, che voglia che aveva di metterla tacere con un bel cazzotto! Era lui l'uomo e lei la donzella in pericolo!
Ma poi pensò che le avrebbe lasciato un livido orribile sul viso, e quindi decise di lasciar perdere. Cercò di pensare ad altro, si guardava intorno e fingeva di non aver dato importanza a quello che lei aveva detto.
Presto avvertirono la presenza chiara e netta della morte incombere tra quelle mura. Aveva il corpo pervaso dai brividi e una fifa blu si stava impadronendo di lui. Ma mai e poi mai lo avrebbe dato a vedere.
Avvertiva i sospiri di paura di Sam accanto a sé, la sentiva strofinarsi le mani lungo le braccia per riscaldarsi.
- C'è un freddo che non mi piace qui -
Dillo, Sam, fallo per me!
- Ho paura…-
Si!, esultò Jeff dentro di sé.
Sentì il corpo tremante di Sam schiacciarsi contro il suo, ne avvertiva le vibrazioni di paura, addirittura l'odore!
- Dobbiamo tirare fuori la torcia -, balbettò Jeff, mentre si chinava per rovistare nel suo zaino.
Anche Sam si chinò, ignara del potere che aveva su di lui. Questa sua ingenuità non faceva che renderlo ancora più nervoso. Ma capì che non c'era niente di innaturale in tutto questo: era l'occasione che aveva sempre cercato per dimostrarle che era forte e che non era più un bambino.
Ma adesso Jeff stava pensando che l'oscurità era preferibile al raccapricciante spettacolo che si parava loro davanti: alle spesse mura di roccia e legno erano state fissate delle travi come mensole, e queste mensole erano ricoperte, anzi, sommerse da teschi umani. Si accavallavano, in bilico, pericolanti, ti aspettavi che da un momento all'altro ne cadesse qualcuno, frantumandosi in mille schegge sul pavimento.
Sam si era di nuovo schiacciata contro di lui, cingendogli il braccio sinistro. Quel contatto era l'unica cosa che gli impediva di fuggire urlando fuori dalla porta dietro di loro.
La torre era circolare. I teschi ricoprivano le pareti esterna ed interna. Girarono in circolo, bene attenti a dove mettevano i piedi: la morte che respiravano lì dentro era talmente vicina e presente che avevi paura di calpestarla.
Il muro interno si interruppe: la sua lunghezza serviva a coprire un semicerchio, proteggendo il cuore del reliquiario dall'accesso diretto della porta. Anche da quella parte, il muro era ricoperto di teschi, ma capirono che il "pezzo forte" del macabro museo era ben altro di qualche testa bollita: al centro della torre stava una bara di vetro, ingiallita e opacizzata dagli anni. Al suo interno, sopra un drappo di velluto rosso rifinito in oro, si accavallavano ossa. Jeff poteva distinguere chiaramente una mano, quello che rimaneva di un piede, i femori, le costole, le scapole, lo sterno, la spina dorsale (ma, a quanto poteva vedere, ne mancava un considerevole tratto), il cranio. Il tutto era stato ordinato e disposto in modo da ricomporre una figura umana, quasi a riconsegnare la memoria di quello che doveva essere stato sicuramente un ufficiale di alto grado.
Lì accanto erano visibili la divisa e le armi di quell'eroe di guerra. Un'etichetta ingiallita dal tempo e ormai illeggibile spiegava chi era e il suo ruolo determinante in qualche battaglia del passato.
Sam sussultava ora accanto a lui, ammutolita.
- Stai bene, Sam? -.
Samantha si limitò ad assentire con un impercettibile movimento del capo. I suoi occhi scintillavano nell'oscurità, resi enormi e ancora più chiari dalla paura.
Jeff tornò a contemplare le spoglie mortali dell'ufficiale, avvicinandosi maggiormente alla bara.
Sam tentava di trattenerlo accanto a sé, timorosa di restare sola in quel luogo, ben decisa a non fare un ulteriore passo avanti. Ma Jeff si divincolò dalla sua stretta e si appoggiò al vetro.
- No, Jeff… -, sussurrò Sam, in un tremito.
- Non temere, Spender, sono qui, mi vedi, faccio solo qualche passo -, la rassicurò, allungano una mano a sfiorarle la spalla.
E fu allora che la vide, la paura di Sam, la vera natura di tutto il suo terrore. Non poteva spiegare l'origine della sua certezza, dove e come aveva imparato a decifrare quel viso e quelle espressioni, ma leggeva nei suoi occhi e nelle pieghe del suo volto deformato dall'orrore che Sam provava una paura diversa dalla sua.
Lui era terrorizzato da ciò che vedeva, ma ne era anche affascinato: come ogni mistero della vita, anche la morte esercitava sulle persone un certo potere. Ma Sam, no, Sam non ne era affascinata affatto: guardava quel resti come un condannato a morte guarda la sedia elettrica su cui dovrà essere giustiziato. Nei suoi occhi leggeva la cieca certezza che quello era il suo destino, il destino di tutti. Capiva che Sam voleva andarsene.
Scosso da una nuova virilità, Jeff la prese per un polso, la trascinò verso la porta, sentendola impotente e pesante sotto la stretta delle sue dita. La portò fuori, un metro, due metri, tre metri. Si fermò quando era sicuro di non avvertire più il gelo che usciva dall'uscio ancora spalancato dell'Ossario.
E quando furono uno davanti all'altra, Sam si accasciò a terra come inanimata, un fantoccio di stoffa molle a suoi piedi. Iniziò a singhiozzare.
Jeff si chinò accanto a lei, accarezzandole la testolina tremante, affondando di nuovo le dita in quella nuvola di capelli scuri, dalla base fino alle punte, sentendone la leggerezza, la freschezza.
Probabilmente vinta da quel gesto di conforto, Samantha si gettò tra le sua braccia, appoggiandosi al suo petto di adolescente, con le mani strette davanti alla bocca, tutta raggomitolata.
E lui non poteva fare altro che accogliere la sua angoscia, cingendola con le braccia, sfiorandole la fronte con le labbra, sentendo il proprio cuore battere all'impazzata, insieme al cuore di lei.
Con la mano affondata nell'oscurità cava del tronco, Sam era ancora alla ricerca di una lettera, una busta, anche solo di un bigliettino. Alle volte Barbara le lasciava una foto di qualche cantante o di qualche scampagnata che aveva fatto con la sua famiglia.
La invidiava talmente, lei che aveva una famiglia così unita e affiatata! Al contrario, Sam si ritrovava con un fratello che, da quando aveva iniziato ad avere quegli orribili incubi, non era più stato quello di prima, la trattava con freddezza e distacco, parlandole a monosillabi, senza nemmeno più giocare con lei; e poi c'era sua madre, che era sempre stata una presenza onirica, assente e distratta. Alle volte spariva per giorni e non si capiva dove andasse, e nemmeno lei riusciva a dare spiegazioni del dove e del perché fosse sparita tutto quel tempo.
Alle volte aveva davvero la sensazione che Jeff sapesse qualcosa e non glielo dicesse, non per proteggerla o per non ferirla, ma come se non fossero affari suoi. L'escludeva di proposito da tutto quello che lo riguardava, che riguardava la mamma, facendola sentire in più, una presenza scomoda, una persona indesiderata.
E la sua solitudine aumentava.
Quando sentì di aver afferrato qualcosa che non poteva essere altro che una busta, si guardò intorno con circospezione. Quindi la estrasse dall'albero, la nascose velocemente nella manica del pigiama e andò a sedersi di nuovo vicino alla rete.
La busta non era incollata (lo facevano per prudenza: mai lasciare troppe tracce in giro). L'aprì e lesse.
"Quello stronzo di Jeff ti tiene ancora il broncio? La prossima volta che lo incrocio in corridoio a scuola gli faccio lo sgambetto!
Tu come stai? Ancora con quegli incubi?
In classe tutti mi chiedono di te, in particolare Bryan… cosa gli devo dire?
La signorina Hannigan ci dice che non possiamo ancora venirti a trovare. Ma cos'hai? Sei contagiosa per caso? Ormai sono due settimane che sei a casa con l'influenza, sarebbe anche ora che ti facessero uscire!
Qui tutto procede come al solito: quel testa di cavolo di Bedford mi ha di nuovo preso di mira, questa volta per il compito dell'altra settimana. Proprio non riesce a credere che io sia riuscita a fare così bene! Praticamente ogni volta mi chiama alla lavagna per chiedermi la lezione del giorno prima. Che scatole!
…E' un mortorio senza di te.
Baci
B"
Ripiegò la lettera e la ripose nella busta in un sospiro.
L'influenza: sapeva ormai di non avere niente del genere, ma nemmeno lei sapeva perché i colleghi di suo padre (come se non lo sapesse che erano loro che dicevano a sua madre cosa fare!) la stavano costringendo in casa, da un po' di tempo a questa parte.
Le loro visite ultimamente si erano fatte più frequenti, molto più frequenti di quelle di suo padre; erano mesi che non lo vedeva. Non che gliene importasse, probabilmente sarebbe stata un'altra persona che si comportava come se lei fosse stata un fantasma. Ma a volte si ritrovava a sentire la mancanza di quelle sue sigarette puzzolenti!
Guardò all'orizzonte: mancava poco: il sole stava per fare capolino fra le dolci curve delle colline con il suo primo spicchio di infinito.
