Uno
Kate Beckett si portò distrattamente le dita alle labbra e ne sfiorò con lentezza il contorno. Quasi in trance, aumentò la pressione fino a graffiarsi, provocandosi così una fitta dolorosa che la risvegliò bruscamente.
Dandosi della sciocca per essersi fatta sorprendere in un gesto che era sfuggito alle maglie strette della sua censura, iniziò a sfregarsi con vigore. Si sarebbero arrossate e avrebbero fatto nascere qualche occhiata perplessa – perfino maliziosa – ma non le importava. Se le sarebbe strappate, se avesse dato retta al sergente interiore annidato nella sua mente, che le sbraitava ordini e la riempiva di biasimo.
Non che avesse torto. Non era decisamente in quelli che si potevano definire ottimi rapporti con se stessa. E il colpevole era Castle. Il colpevole era sempre Castle, rammentò con una smorfia di disappunto, non scevra da un'ombra di senso di colpa, sempre in agguato. Basta con questi pensieri, ripeté stringendo le mani a pugno. Quel che è fatto è fatto. Non si deve piangere sul latte versato. Non sapeva quando fosse sorta in lei la necessità di esprimersi a frasi fatte, ma era un'altra delle cose che aveva recentemente scoperto su di sé e che ormai non la stupivano più. Non dopo quello che era successo.
Sospirò platealmente, in preda al desiderio non troppo malcelato di prendersi a schiaffi. Se solo fosse servito a qualcosa, grugnì in silenzio. Era tempo di tornare alla realtà, si ammonì, rientrando nel salotto dell'appartamento lussuoso dove era stata rinvenuta la vittima, all'alba.
Castle le rivolse un'occhiata in cui lei lesse più interrogativi del più banale "Dove sei stata?". Non aveva nessuna voglia - o intenzione – di rispondere a nessuno di essi. Si era defilata con la scusa di dover fare una telefonata, piantandolo in asso quando non era più riuscita a sopportare la sua presenza. Aveva sperato che l'aria fresca l'avrebbe aiutata a schiarirsi le idee, ma non era andata così. Anche perché le idee su quanto accaduto ce le aveva molto chiare. Erano le conseguenza a non lasciarla, eufemisticamente, tranquilla.
Scrollò il capo e non lo beneficiò dell'ombra di un sorriso. Con un po' di fortuna poteva illudersi che non fosse lì. Erano insieme da ore e, a un certo punto, la sua pazienza aveva raggiunto il limite. Non perché Castle avesse fatto qualcosa di irritante, non più del solito, insomma. A essere del tutto onesti non era stato per nulla fastidioso. Quando si erano incontrati in strada, di fronte al palazzo storico dove avevano appuntamento, le aveva porto l'abituale caffè, stranamente muto. Le aveva però offerto un sorriso luminoso che contrastava tanto apertamente con il proprio umore molesto da indurla a bofonchiare un ringraziamento risentito e a voltargli le spalle. Non lo aveva guardato negli occhi, proprio come si era ripromessa di fare da quando si era svegliata, molto prima che il suo cellulare squillasse per avvertirla dell'omicidio. Non aveva dormito molto quella notte. Sempre che si potesse considerare "dormire" quell'assopimento frammentato da schegge allucinatorie tanto vivide da sembrare reali. Castle ne aveva fatto parte. Ovviamente.
Qualsiasi cosa accada, niente contatto visivo, si ricordò per l'ennesima volta con forza, fissando il cadavere sul quale erano chinati entrambi. Perché la colpa era stata di quel paio di occhi blu, lo sapeva benissimo. Erano quelli ad aver fatto scattare il cortocircuito. Quindi, per il bene di tutti, soprattutto il suo e indubbiamente anche quello di Castle – anche se lui non aveva avuto modo di esporre la sua opinione in merito, perché lei non gliel'avrebbe chiesta – dovevano rimanere lontani. Se non fisicamente, perché il locale angusto non lo consentiva, dovevano farlo almeno mentalmente.
Già. Niente di più facile che togliersi Castle dalla testa, sbuffò sarcastica. Si chiese quando sarebbe scoppiata. Perché era indubbio che se avesse passato altre ore immersa in quella tensione irrisolta, avrebbe presto dato i numeri. Concentrati, Kate. È una normale giornata lavorativa.
Le sembrava però che il caffè avesse un sapore diverso. Forse avrebbe dovuto smettere di berlo. Non completamente, non sarebbe stato possibile, solo quello che lui le portava ogni mattina con tanta... Non finire la frase, si rimproverò. E pensa a quello che stai facendo. Gli avrebbe inviato una nota scritta in cui lo esentava dal quotidiano compito di risvegliarle i neuroni assopiti. Era capacissima di prepararsi del caffè da sola. Non era inetta fino a quel punto e sapevano entrambi che glielo permetteva solo come estremo e, diciamolo, insensato, atto di cortesia nei suoi confronti, data la sua smania di rendersi utile.
Niente occhi, niente caffè.
Era un ottimo piano di partenza. Ce l'avrebbe fatta. Doveva solo arrivare alla fine di quella giornata – difficile essere ottimisti, quando erano solo le otto del mattino e lei aveva già prodotto idee sociopatiche, aveva un omicidio da risolvere e nessun indizio da seguire e le sue narici continuavano a percepire con una chiarezza straordinaria il profumo di Castle in mezzo alla confusione di altri odori, qualcuno decisamente sgradevole. Finirò per impazzire, mormorò tra sé. Sempre che non mi sia già successo.
Fu tentata di apporre quella giustificazione come firma ai fatti accaduti la sera precedente. Quelli per i quali si tormentava e che non la lasciavano in pace. Quelli che avrebbero chiesto a breve un prezzo da pagare, se non fosse stata più che lesta a non farsi trovare.
Gli occhi. Erano stati quei maledetti occhi.
Qualche ora prima.
Era stata una giornata lunghissima, una di quelle che sembrano prolungarsi all'infinito, e sulle quali nessuno può imporre d'autorità una temporanea tregua. Erano stanchi, irritabili e molto nervosi. Lei, almeno. Castle era solo un po' provato, ma ancora padrone di sé e pronto a trascorrere la notte al distretto, se necessario. Dovevano tornare a casa, aveva esclamato lei, invece, quando si erano ritrovati da soli, appoggiati alla sua scrivania, testardamente impegnati a fissare la lavagna che non stava fornendo nessuna magica risposta.
Sapeva bene che cosa sarebbe stato meglio fare, lo sapeva per esperienza. Doveva mollare la presa, lasciare che le informazioni si accumulassero nel suo inconscio, che le avrebbe filtrate e ricomposte in uno schema sensato che la sua razionalità, scolorita da ore di riflessioni e cibo spazzatura, non era più in grado di fare. Una buona nottata di sonno – a quel punto era stata ancora abbastanza ingenua da pensare che di lì a poco si sarebbe infilata nel proprio letto con il solo pensiero del caso a infastidirla – avrebbe fatto al caso loro. Aveva detto proprio così, voltandosi verso di lui e dandogli un lieve colpetto sulla spalla, per riscuoterlo dal torpore che cercava di avere la meglio su di lui, nonostante cercasse di combatterlo.
Avevano lavorato molto bene insieme, quel giorno. Era stato riammesso da poco al distretto e cercava in ogni modo di non farsi cacciare di nuovo, impegnandosi molto più del dovuto e smussando i suoi impeti sovreccitati, per non infastidirla. Per quello lei, Kate Beckett in persona, aveva abbassato la guardia. Perché se anche il suo desiderio primordiale era sempre quello di cacciarlo dalla sua vita una volta per tutte, era abbastanza onesta da riconoscere l'aiuto che le stava offrendo. Che offriva a tutti loro. E poi era divertente, il più delle volte. Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, a meno di essere in tribunale, ma quell'estate senza di lui era stata troppo lunga. Vuota e tediosa.
"Temo che non riuscirò a dormire", mormorò Castle passandosi una mano sulla fronte. "Questo caso è...".
"Un incubo", concluse Kate al posto suo, allungando le gambe davanti a sé per sgranchirle.
Si sorrisero, come naufraghi approdati su uno scoglio provvidenziale che avrebbe offerto loro un dubbio riparo, prima di riprendere il comune sforzo contro la furia degli elementi.
Castle continuò a sorriderle, in silenzio, anche quando le sue labbra erano già tornate a chiudersi nella consueta linea tirata. Era stata colpita dalle piccole rughe festose che gli si erano disegnate sul volto e aveva pensato, con una certa perplessità, che il sorriso di Castle non era il gesto meccanico di un puro atto di cortesia, né la smorfia stanca del mutuo soccorso. Era intimo e personale. L'aveva avvolta facendole dimenticare la stanchezza. Questo, per qualche ragione, l'aveva turbata.
Scivolò dalla scrivania e iniziò a raccogliere le sue cose in modo impacciato, infilando documenti alla rinfusa nella borsa. Non vedeva l'ora di essere fuori di lì, lontana dalla sensazione sconosciuta che Castle aveva prodotto in lei, per la prima volta da quando lo conosceva. Non riusciva a darle un nome. Forse stava covando l'influenza e le stava salendo la febbre, cercò di convincersi. Vedo cose che non esistono. Castle è normale, e io sono solo troppo stanca.
"Perché non andiamo a bere qualcosa?", propose Castle con naturalezza, ostentando di nuovo quell'espressione che non sapeva definire, ma che produceva un istantaneo calore nel suo plesso solare. Cancellò subito plesso solare dai suoi pensieri. Era la febbre. Doveva essere la febbre. A pensarci meglio, era da qualche giorno che si sentiva un po' raffreddata.
"Siamo esausti. Dobbiamo dormire. Ci vediamo domattina, Castle. Buonanotte", bofonchiò a mezza voce, in un tono poco convincente, fuggendo.
"Siamo troppo su di giri per dormire", la voce l'aveva rincorsa mentre era già quasi arrivata nello spazio sicuro dell'ascensore, aperto davanti a lei.
Kate indugiò. Mosse un passo verso quella direzione. Ce l'aveva quasi fatta, ma una forza superiore le impose di fermarsi. Le porte si richiuse e lei tornò indietro, riluttante. Si posizionò proprio di fronte a lui, che non si era mai mosso.
"Che cosa proponi? Di andare a ubriacarci per decomprimerci?".
L'aveva detto beneficiandolo di un tono sferzante con il solo scopo di sottolineare la ridicolezza del suo suggerimento – non aveva nessuna voglia di "bere qualcosa", soprattutto non in sua compagnia. C'era ancora del decoro da salvaguardare e poi era ancora arrabbiata con lui per aver ficcato il naso nel caso di sua madre. Molto arrabbiata.
Il risultato fu che, invece, la sua frase suonò come un vero e proprio invito, oltretutto molto sensato. Si era messa con le spalle al muro da sola.
"Perché no?", fu l'ovvia risposta. "È un'ottima idea. Un paio di birre, qualche nocciolina e un cambiamento di scenario non possono che farci bene. Domani saremo di nuovo qui con questo rompicapo".
Era inutile che si dimostrasse esausto al solo pensiero. Sapeva che se la stava spassando un mondo alle prese con quel caso impossibile.
"Credo invece che sarebbe un'inutile perdita di tempo che potremmo impiegare invece riposando. Ciascuno nel proprio letto". Era impazzita? Perché aveva dovuto sottolineare che avrebbero dormito separati?
"Hai fatto bene a specificarlo. Altrimenti avrei quasi pensato che avremmo trascorso la notte insieme", la canzonò.
Si era imposta di non arrossire e ce l'aveva fatta, più o meno.
"Hai capito che cosa intendo", replicò seccata, senza dargli corda.
"Naturalmente". Davvero? Perché a lei non era per niente chiaro che cosa stesse combinando il suo cervello. "E insisto nel dire che sarebbe meglio fare una tappa in un posto diverso da questo, per decomprimerci - ti sto citando -, prima di, uhm, stenderci nei rispettivi letti". Non si sarebbe mai perso un'occasione di prendersi gioco di lei, soprattutto se lei si ostinava a offrirgliela in modo gratuito. "Ma se pensi che un paio di birre siano troppo rischiose e che mettano a repentaglio il nostro riposo... Ero convinto però che reggessi meglio l'alcol, o almeno così dice la leggenda".
Quanto avrebbe voluto lanciargli addosso la scrivania e vederlo boccheggiare sotto di essa.
Valutò la situazione e si rese conto che non c'era nessun modo di andarsene vittoriosa, se si fosse fermata lì.
Castle avrebbe pensato che avesse paura di ubriacarsi finendo con il portarselo a casa. Cosa assolutamente, assolutamente, non corrispondente alla realtà. E sapeva molto bene che ignorare sarebbe stata l'opzione migliore. Non dar retta ai folli, è così che si diceva sempre. Una breve risata sprezzante e un saluto appena accennato sarebbero stati un ottimo congedo e lei sarebbe stata salva. Ma avrebbero costituito un precedente. Lui avrebbe continuato ancora e ancora a lanciarle frecciate sulla sua fuga – l'avrebbe considerata così – nel tentativo di non cadere in tentazione.
Doveva stroncarla sul nascere. Doveva fargli capire che non aveva nessun problema ad andare a bere qualcosa con lui, come si fa tra colleghi, anche se sapeva perfettamente che stava reagendo a una provocazione e non agendo secondo il libero arbitro. O, forse, sì.
"D'accordo", accettò, sfidandolo. "Ma non pensare di aver vinto tu. Ho solo voglia di una birra". E di non tornare a casa subito. E di stare in tua compagnia.
Ma quello non glielo disse. Non lo disse nemmeno a se stessa.
