Kate Beckett fece una lista mentale di quello che ancora l'aspettava, prima che quella giornata massacrante potesse considerarsi conclusa. Si passò una mano sulla fronte. Era solo metà pomeriggio. Aveva il sospetto che non ne sarebbe uscita viva molto presto, quando il suo unico desiderio era quello di andarsene già a dormire e aprire gli occhi il mattino seguente.
Camminava a passi rapidi sul marciapiede affollato, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, cercando di evitare di farsi investire dagli altri pedoni sospinti in avanti dalla sua stessa fretta.
Si stava dirigendo verso la sua auto, che aveva lasciato qualche isolato più a sud, dopo un sopralluogo su una scena del crimine che le aveva portato via più tempo del previsto, ritardando tutta la tabella di marcia che, con tanta fatica, era riuscita a organizzare incastrando tutti gli impegni. Saltato un tassello del complicato ingranaggio, tutto il resto, ne era sicura, sarebbe franato in un drammatico effetto domino di cui non riusciva a prevedere le conseguenze. Avrebbe di nuovo fatto tardi e questo avrebbe portato malumori di cui era stanca di preoccuparsi.
Sospirò, cercando di calmare l'irritazione che sempre più spesso provava, un grumo di insoddisfazione che, se lasciato libero di agire, si sarebbe amplificato e avrebbe preso possesso della sua giornata. Era solo più nervosa del solito. Non era colpa di nessuno.
Si costrinse a rallentare, invece di precipitarsi all'appuntamento successivo. Sarebbe stata comunque in ritardo e non per colpa sua. Aveva fatto il possibile. Si era impegnata con tutta la sua buona volontà, ma fin dal mattino le cose avevano preso una piega dispettosa che sembrava avere l'unico intento di remare contro i suoi sforzi di fare sempre il meglio per tutti. Tanto valeva godersi quell'inaspettata passeggiata all'aperto che il caso le aveva messo a disposizione.
Era una bella giornata primaverile, una di quelle in grado di sorprendere anche chi abita a New York da sempre.
Il calore del sole penetrava negli strati di tessuto che indossava, un cambiamento più che piacevole dopo la permanenza prolungata in un interno freddo e umido, per lo più inginocchiata in una posizione scomoda. Si massaggiò la schiena dolorante, alzando il viso alla ricerca del tepore dei raggi quasi estivi. L'inverno era finito, finalmente.
Strizzò gli occhi, facendosi ombra con una mano per non venire accecata. Il cielo era terso, nessuna striatura biancastra a rovinarne la limpida perfezione. Non ricordava quando fosse stata l'ultima volta che si era concessa il tempo di fare qualcosa di così futile come alzare lo sguardo e ponderare l'esatta sfumatura di blu. Mossa sbagliata. Blu era una parola che il suo vocabolario non poteva contenere. Le faceva tornare in mente qualcosa che, molto semplicemente, era solo una perdita di tempo. O così aveva deciso secoli prima.
C'era stato un tempo, che si impuntava con forza di lasciare svanire dimenticato in un angolo, come un foglio accartocciato rimasto incastrato in un mobile, in cui si era buttata a capofitto nel lavoro, quando andava in panico al solo pensiero di avere un buco libero di cinque minuti. La sua giornata doveva essere un susseguirsi arido di compiti e doveri. Non aveva funzionato. Si era ridotta a uno straccio che non era stato utile a nessuno.
Da allora si era ripromessa di non farsi fagocitare dalle incombenze quotidiane e di darsi il permesso - qualche volta era stata costretta a imporselo -, di staccare mentalmente dal suo lavoro per riprendere fiato. Per riprendere contatto con stessa, senza dover meditare su fiamme di candele color violetto o bastoncini di incenso che la facevano venire la nausea. Si trattava di fermarsi, interrompere quello che stava facendo, guardarsi intorno e registrare quello che le era prossimo, solo per rendersi conto di far parte di una collettività, da cui cercava istintivamente di sfuggire.
Si calò nel ruolo di osservatrice, limitandosi a notare, dai margini, il movimento ondoso di turisti e newyorchesi indaffarati, i rumori discordanti dei clacson delle auto, il vocio assordante, cani e proprietari che passeggiavano in una fluida sintonia, i venditori di hot dog e di frutta fresca e la macchia di colore di una bancarella di fiori in bilico sul ciglio della strada.
Aveva voglia di caffè. Forse sarebbe stato piacevole fermarsi al primo chiosco e poi sedersi su una panchina, al sole. Il parco non era lontano. Non ci andava da anni.
Scosse la testa. La coda alta che le stringeva i capelli, che con le ore aveva iniziato a provocarle fitte dolorose al capo, danzò intorno al suo viso. Non aveva tempo di oziare, aveva ancora troppe cose da fare. Sarebbe stato per la prossima volta. Né le piaceva bere caffè camminando per strada da sola. O fare molte altre cose senza compagnia. Guidare, per esempio. O indagare.
Se solo fosse stata abbastanza coraggiosa, - o onesta - da ammetterlo con se stessa, si sarebbe detta che era sempre un'ottima detective, forse la migliore, senza bisogno di nascondersi dietro nessuna falsa modestia, ma la sua professione aveva perso un po' di quella patina di euforia di cui, per qualche tempo, era stata avvolta, da quando si era ridotta a dover far incastrare numeri, indizi, movimenti bancari, impronte e dna da ricercare nel database. Ogni giorno uguale, ogni giorno da sola.
Ma non lo era. Non era onesta. Doveva essere soddisfatta di spedire dietro le sbarre i colpevoli, applicando con professionalità e impegno i metodi con cui l'avevano addestrata, che era il motivo per cui aveva scelto quella professione. Il resto era... superfluo.
Potevano esserci stati anni divertenti (magnifici, euforici,chiudi quella porta, Kate) ma non era previsto che il suo lavoro lo fosse. Anzi, era controproducente. Contava solo che venisse fatta giustizia secondo i termini di legge. La storia non era importante. Si poteva fare a meno delle storie, che ti riempivano la mente di sciocchezze inutili. Lei aveva imparato a farlo.
Se Castle fosse stato ancora con lei sarebbe stata una normale giornata all'insegna dell'imprevisto, dei racconti buffi, delle teorie strambe, di caffè bevuti passeggiando adattandosi al ritmo dell'altro e frasi terminate all'unisono. Ma si sarebbe anche per lo più irritata, avrebbe dovuto intimargli di sbrigarsi, di non perdere tempo e di fare silenzio. Molte volte. Non sapeva mai cosa si sarebbe inventato di lì a cinque minuti e questo le faceva dare i numeri. Adesso aveva invece una vita molto ordinata e ne era felice.
Bugiarda, naturalmente, ma felice. Sospirò, dicendosi che lo faceva solo perché era molto stanca.
Era passato il momento in cui era stata arrabbiata e ferita, quando lui aveva sostenuto che era finita e poi era finita davvero. Era dolorosamente andata oltre anche al periodo in cui aveva tolto di mezzo qualsiasi cosa che le ricordasse i tempi trascorsi insieme.
Si raccontava di essere ormai al punto in cui era subentrato quel sentimento agrodolce per cui poteva permettersi di tornare indietro con il pensiero (non più di una volta al giorno, se possibile meno), sorridere e andare avanti. Era andata avanti. Aveva sempre saputo che il loro rapporto prima o poi sarebbe finito, lui avrebbe continuato a scrivere i suoi libri e lei avrebbe risolto i suoi casi. Si era trattato di una vicinanza lavorativa momentanea. I patti erano sempre stati quelli. Lei aveva beneficiato della sua consulenza, lui aveva trovato un modo semplice per impegnare la sua mente vivace, inevitabilmente destinata alla noia. Una collaborazione che aveva funzionato, doveva riconoscerlo, ma che non era indispensabile. Per nessuno di loro.
"Beckett?".
E sì, qualche volta le capitava di sentire la sua voce che la chiamava, ma faceva solo parte del realismo delle sue fantasticherie ed era anche il segno che doveva smettere di indulgere in attività tanto sterili. Era come ricordare una gita scolastica o una vacanza al mare. La giornata luminosa aveva solo reso più vivide le sue memorie.
Sorrise a nessuno in particolare, forse solo al suo stato d'animo più rilassato rispetto a qualche minuto prima. Il suo esercizio quotidiano di pausa per immergersi nella realtà circostante era servito, tagliando solo l'ultima parte. Con un pizzico di fortuna e rivendendo i suoi rigidi programmi, sarebbe riuscita a tornare a casa a un orario decente, per una volta. Prese dalla tasca il suo cellulare, controllò gli ultimi messaggi e, con rinnovato zelo, accelerò il passo per dedicarsi ai compiti che l'aspettavano.
"Beckett?".
La voce, che a quel punto non poteva più considerare una sua proiezione mentale, la colse impreparata. Ed era troppo vicina. Qualcuno stava invadendo il suo spazio personale, oltrepassando quella che lei considerava la sua soglia di pericolo e che era solo più ampia rispetto a quella degli altri. Senza che si rendesse conto di farlo, il suo cervello diede l'ordine di prendere la pistola dal fianco e puntarla contro quello che aveva già definito come un aggressore.
La sua sorpresa si centuplicò riflettendosi in milioni di frammenti di specchio quando percepì una mano sicura bloccarla. Scattò in lei immediato l'istinto al combattimento ed era già pronta ad atterrare l'aggressore, quando si rese conto, percependolo con i sensi prima ancora che con la logica, che si trovava di fronte a Castle. In persona. Una persona fatta di carne e di ossa che stava valutando se fosse ancora sotto la linea di tiro o se poteva considerarsi fuori pericolo.
"Non sparare! Non sparare! Sono innocuo", esclamò comicamente.
Già, innocuo. Parliamone.
Lo fissò muta. Il resto del mondo le scivolava intorno, ignaro di quello che si agitava nel suo animo, mentre esteriormente era congelata sul posto, incapace di muoversi e di rompere il silenzio stupefatto.
Era stata lei? Lo aveva materializzato dal nulla? E se era andata così, poteva anche farlo scomparire?
Non era la versione visiva di Castle che ogni tanto andava a recuperare in uno dei suoi cassetti segreti. Era una versione reale che aveva subito dei cambiamenti, dall'ultima volta che l'aveva visto. O forse la sua memoria aveva ricostruito a mano libera la sua immagine, facendo sbiadire qualche dettaglio con il trascorrere del tempo. Molto tempo. Anni.
Sperimentò la curiosa sensazione di trovarsi davanti a una persona che un tempo aveva conosciuto bene e che adesso era solo un po' diversa dalla versione precedente. Forse era il taglio di capelli, o quelle piccole rughe più numerose vicino alle palpebre, che si notavano solo quando sorrideva. O forse qualcosa di ineffabile che non era nelle condizioni di approfondire, visto il suo stato cerebrale appena più vivace di una linea piatta.
Ma il suo sguardo era sempre quello che era stata abituata a ricevere e su cui aveva contato fino ad abbassare la guardia e a non rendersi più conto che avrebbe potuto rivolgersi altrove. E anche il blu. Il blu era di quell'esatta sfumatura che non aveva mai dimenticato.
Non si aspettava di incontrarlo. Non dopo aver temuto di imbattersi in lui a ogni angolo di strada, in ogni scena del crimine. Faceva prima a dire ovunque. Aveva pensato che sarebbe stato brutto, ma obbligatorio, incrociarlo, prima o poi. Non poteva smettere di andare in giro per una città che poteva rivelarsi molto piccola, in circostanze indesiderate. Ma non era mai accaduto e, con il tempo, si era convinta contro ogni regola di buonsenso, che non sarebbe mai successo.
Castle abbassò le braccia, davanti alla sua mancanza di reazione a quella che doveva aver giudicato un'ottima irruzione nella sua vita, quando le aveva allungate verso di lei, forse per salutarla in modo affettuoso. Lei però aveva fatto un balzo all'indietro, come se fossero state lingue di fuoco pronte a imprigionarla, invece che arti umani. Castle si allontanò a sua volta di un passo, come sempre attento alle sue reazioni e riportò le proprie braccia vicino al corpo, cercando di non farsi notare.
"Non ho perso l'istinto, a quanto vedo", commentò Castle enigmaticamente.
Kate non capì. Non avrebbe capito nemmeno se le avessero spiegato qualcosa di banale, per esempio come funzionavano i semafori cittadini.
"Evitare di farmi sparare da te".
"Dopo tanto tempo passato al distretto non hai ancora capito che non devi cogliere di sorpresa un poliziotto armato?", replicò Kate, trasformando il suo subbuglio interiore in un tono pieno di acredine, di cui si vergognò.
Quindi erano queste le frasi che si erano scambiati al loro primo incontro.
Ci aveva pensato, se l'era immaginato. Non perché avesse fantasticato su un loro incontro casuale, che era infine avvenuto in un'atmosfera di irrealtà che stava tenendo in ostaggio le sue normali funzioni mentali. Aveva solo voluto prepararsi al meglio. Aveva deciso tempo addietro che sarebbe stata cortese, era pur sempre una persona civile. Distaccata e molto gentile, con quel guizzo di elegante superiorità che avrebbe decretato la sua vittoria morale, se fosse stata una gara, e non lo era affatto.
Si sarebbe espressa in modo sintetico, ma incisivo, si sarebbe informata sulla sua vita e sulla sua famiglia, gli avrebbe augurato buona fortuna e se ne sarebbe andata, camminando a testa molto alta, lasciandogli la sua schiena altera come ultimo fugace ricordo, per sostituire quello in cui era stata lei a guardarlo abbandonarla, infuriata e muta.
Non era decisamente quello che stava succedendo in quel momento, con lei piantata sullo stesso punto del selciato da minuti, incapace di iniziare qualsiasi conversazione, sentendo i secondi ticchettare nella sua mente con crescente angoscia, mentre il silenzio li imprigionava. Doveva dire qualcosa e doveva farlo per prima, per recuperare un vantaggio, invece di sorridere impalata e prossima all'imbalsamazione.
