THY FEARFULSYMMETRY
Tyger! Tyger! burning bright
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?
In what distant deeps or skies
Burnt the fire of thine eyes?
On what wings dare he aspire?
What the hand dare seize the fire?
– William Blake, The Tyger –
PROLOGO
Luglio 1943
Dalla sua mansarda all'orfanotrofio Wool's, Tom sentiva il fastidioso fischio degli aerei, che ronzavano in cerchi concentrici sopra la sua testa. Doveva essere la RAF; in caso contrario, l'allarme sarebbe già suonato. Il richiamo lamentoso della sirena gli ricordava l'insopportabile frignare dei Babbani più piccoli. Era accaduto già due volte, in quel mese: tutti erano scesi nel rifugio ricavato dalla cantina; la grassa Mrs Cole e l'immancabile bottiglia di gin, gli infanti, i bambini e gli adolescenti pallidi e malaticci nei loro completi grigi, vicini a lui per età ma per nessun'altra cosa. Tom invece era salito sul tetto, lo sguardo in alto, a osservare il cielo diventare rosso e nero, gli aerei abbassarsi e le bombe esplodere con un tonfo quasi liberatorio, lontano, verso Westminster. Il profilo perfetto illuminato dai bagliori rossastri, le palpebre immobili, incurante del fumo e del rumore, si chiedeva oziosamente quante vittime Babbane sarebbero state purgate prima della fine di quella guerra-lampo che si protraeva ormai da quasi tre anni.
Blitzkrieg, l'avevano chiamata i Babbani, con il loro stupido ottimismo, le facce comuni e ottuse illuminate di un'ingenua speranza: erano fiduciosi che qualcuno avrebbe provveduto a loro, che un'entità superiore o le circostanze o il fato avrebbero scongiurato la catastrofe, o almeno che ne avrebbero accorciato la durata.
Radio Londra trasmetteva i discorsi d'incitamento di Churchill, i bollettini del fronte e gli aggiornamenti sulla campagna di El Alamein, che andava avanti ormai da più di un mese. Tom sorrise, mettendo in mostra gli zigomi alti e la sinistra simmetria del viso triangolare, di un pallore singolarmente attraente messo ancor più in risalto dai capelli scuri, ondulati ma perfettamente in ordine. I tedeschi stavano vincendo, i segnali erano ovunque. Dalle patetiche preghiere delle donne che imploravano una divinità inesistente di restituire loro un padre, un fratello, un marito, dalle ultime leggi antisemite approvate dal governo collaborazionista di Vichy all'evacuazione del ghetto di Varsavia, Tom vedeva il delinearsi di un piano più grande. Per il Bene Superiore.
Sì, i tedeschi stavano vincendo perché Gellert Grindelwald aveva preso il potere. Nel giro di tre anni, la sua ascesa era stata gloriosa, incontrollabile. Tom si chiese se i governanti Babbani non cadessero sotto la sua Maledizione Imperius l'uno dopo l'altro al fine di realizzare il suo grande disegno. Nella comunità Babbana si parlava di sangue ariano, progetti di eugenetica, della fine della razza semita: gli ebrei che per secoli avevano rubato nell'ombra il denaro e il potere delle alte sfere Babbane. Per la comunità magica, tutti loro erano Sanguesporco a prescindere, e c'era solo una massima che contava: Potere ai maghi. I Mezzosangue venivano tollerati, i Sanguesporco perseguitati e catturati. Si vociferava che la sua sede centrale fosse a Numengard, che la Bacchetta Invincibile rispondesse a lui e che avesse al suo servizio uno stuolo di creature oscure e Dissennatori. Il mago oscuro più potente di tutti i tempi, dicevano, quello che perfino quel Babbanofilo di Silente aveva paura di affrontare.
Finora, pensò Tom, accarezzando la punta della sua lunga bacchetta di tasso dal nucleo di piuma di fenice. Mise da parte la Gazzetta del Profeta, che gli era stata recapitata da un barbagianni dall'aria altezzosa. L'aveva accarezzato e gli aveva dato cibo e acqua, grato per ogni più piccolo contatto che lo avvicinasse a Hogwarts nei mesi estivi. Come al solito, in copertina troneggiava l'immagine di Gellert Grindelwald, il loro Fuehrer. Per l'Inghilterra era ancora un nemico; non aveva ancora fatto breccia nel loro governo. Peccato, pensò Tom.
Più volte aveva meditato di scrivergli, per metterlo a parte dei suoi grandiosi progetti. Avrebbero potuto realizzare molto insieme, finché Tom non l'avesse superato. Era vero che aveva preso spunto da lui, due anni prima, quando aveva fondato I cavalieri di Walburga; gli era debitore di molte idee ispiratrici su come epurare la razza magica, ma adesso aveva sedici anni… era tempo di andare oltre.
Gettò uno sguardo alla foto più recente di Grindelwald: un uomo nel fiore degli anni (per gli standard magici: Tom calcolò che doveva aver passato la cinquantina), dai capelli chiari arricciati sulle spalle (sapeva che erano biondi) e gli occhi stretti e penetranti. Vi leggeva un grande carisma, intelligenza, fuoco e qualcosa di più arcano, di più oscuro. Una promessa di potere, una minaccia, forse resa ancor più efficace dall'aria demoniaca con cui lo ritraevano; le caricature spesso lo raffiguravano con le corna ai lati della testa, squame di drago sul corpo fiero, fumo che gli eruttava dal naso e dalle orecchie. Oltre quelle esagerazioni, poteva vedere che il mago era ancora singolarmente attraente, forte come un dio vichingo. Tom lanciò uno sguardo distratto al riflesso che gli rimandava lo specchio: il naso dritto, le guance leggermente incavate e le labbra generose, gli occhi dal taglio triangolare, allungato, di ebano liquido che a volte emanavano bagliori rossastri. Letale come un serpente e bellissimo. Sapeva di esserlo, non serviva a nulla negarlo; era inutile fingere che la consapevolezza del proprio fascino non l'avesse favorito nel perseguire i propri fini. Con Slughorn l'aveva aiutato per evitarsi sospetti e punizioni, nonché per ricavare parecchie informazioni utili; con i suoi fedeli Slytherin, Dolohov, Malfoy, Black, Avery, Mulciber e Rosier, era riuscito a imporsi nel giro di pochi anni, da Mezzosangue dalle origini oscure a principe dei Purosangue, da outsider a leader.
Aveva il sospetto che anche Albus Dumbledore non fosse del tutto immune al suo fascino, ora che era cresciuto. Da bambino, aveva intuito il fantasma della grandezza che si annidava nei suoi occhi, terrorizzandolo con quel ridicolo spettacolino dell'incendio dell'armadio. Ora però vedeva la preoccupazione e i sospetti del Vicepreside: non aveva potuto provare che ci fosse lui dietro gli attentati ai Sanguesporco, eppure lo sapeva, che era stato Tom… l'aveva intuito dalla freddezza con cui s'imponeva di guardarlo, dalla controllata formalità degli ammonimenti che gli rivolgeva, dal modo troppo studiato con cui teneva le distanze, come se in fondo desiderasse capirlo, come se lo affascinasse…
Un colpo di bacchetta, e la foto di Grindelwald si staccò dal giornale; la mise con cura in un diario dalla copertina scura, che aveva acquistato al primo anno. Finì di ricontrollare le istruzioni, fedeli al minimo dettaglio, su come riaprire la Camera dei Segreti e risvegliare il Basilisco in essa contenuto. D'altro canto, chi avrebbe potuto risvegliarlo, se non Tom stesso? Solo lui, l'ultimo erede di Salazar Slytherin, sapeva parlare la lingua dei serpenti e piegare i rettili striscianti al proprio volere. Fantasticò di uscire dal diario, intatto come il riflesso dello specchio, da lì a cinquant'anni, a un secolo, con tutto il potere della sua giovinezza e immortalità inalterato, non più umano… sì, presto sarebbe stato possibile. Molto presto.
Si lasciò andare al gratificante ricordo del suo primo omicidio. Era avvenuto per procura, in un bagno femminile del terzo piano al castello di Hogwarts. Moaning Myrtle, la chiamavano, l'inutile Sanguesporco brufolosa, grassa e con gli occhiali: un insulto alla casa di Ravenclaw per la sua incapacità. Uccidi, aveva ordinato al Basilisco, e aveva visto la ragazza accasciarsi sul pavimento allagato, il terrore negli occhi…
Le labbra gli s'incurvarono leggermente, in una lieve vena di autocompiacimento. Si rimproverò per quell'attimo d'indulgenza verso se stesso. Era solo l'inizio. Era tempo di agire più direttamente, di prendere in mano le redini del suo destino, di cancellare la vergogna di un'ascendenza che gli aveva fatto guadagnare soltanto una faccia attraente, che gli era odiosa. Doveva lavare l'onta del sangue e appurare se esistessero ancora dei degni discendenti della linea Slytherin. Intascò il diario e il libro che, dopo una serie di estenuanti ricerche tra i registri e gli annuari scolastici, gli aveva fato vedere la luce (Nobiltà di natura: genealogia magica), e si avviò in strada.
Era un bel mattino; persistevano ancora i riflessi rosa e aranciati dell'alba. Donne dai capelli corti, vestite in abiti maschili, si dirigevano in fabbrica in bicicletta o a piedi, o verso la metro recentemente ampliata. Non sapeva se ammirarle o disprezzarle: erano creature estranee, che lasciavano esposti lembi di pelle – addirittura gambe nude – che si comportavano e lavoravano come gli uomini che avevano salutato al fronte. Le donne, a suo avviso, non erano nate per lavorare, ma per perpetuare la discendenza magica: se non erano streghe Purosangue, non vedeva per loro alcun motivo di esistere. A Hogwarts aveva sempre rifuggito qualsiasi contatto con l'altro sesso: non credeva che le streghe fossero all'altezza della sua magia, che avrebbero capito con la lucidità e la freddezza necessarie la grandezza delle sue idee. Quelle della sua Casa erano formali, dai capelli irreggimentati in rigide acconciature, distanti come avrebbero dovuto essere nella loro coprente uniforme scura; quelle delle altre Case, più audaci, non le degnava comunque di attenzione, anche se dall'altra parte non si poteva dire lo stesso. Ignorava i loro sguardi languidi, i loro goffi tentativi di approccio e i sospiri patetici, nonché tutti i fastidiosi artifici che escogitavano, dai trucchi alla moda alle Pozioni d'Amore, per attirare il suo interesse. Non le rispettava nemmeno: non provava desiderio sessuale per i loro corpi, né capiva le smanie sussurrate dei suoi compagni. Era fiero di non condividerle; gli sembrava un'ulteriore prova di quella diversità che dalla nascita l'aveva marchiato e l'aveva fatto sentire superiore agli altri. Dopotutto, sua madre, l'ultima discendente della fiera linea di sangue di Salazar Slytherin, si era sprecata buttandosi via dietro a un Babbano e soccombendo all'ignominia della morte. Era stata solo una donna, uno strumento per un fine più grande di lei.
Sperava che la casa di famiglia dei suoi parenti Slytherin contenesse dei cimeli preziosi da mostrare con orgoglio ai compagni, in modo che nessuno avrebbe mai avuto da dire sulle sue origini, sussurrando alle sue spalle. Cercò un angolo appartato, si confuse nel traffico mattutino, rimarcando ancora una volta la bruttezza e la volgarità di quei mostri di metallo che chiamavano automobili, e pensò con tutte le sue forze: Little Hangleton.
Hogwarts, giugno 1996
Harry si asciugò gli occhi con la manica, guardando senza vederle le acque profonde del Lago Nero. Si avviò verso la Foresta Proibita, senza provare un reale desiderio di entrarci. Bramava la solitudine, un riparo da quei raggi di sole che gli ferivano gli occhi, da quella radiosa giornata estiva. Gli esami erano finiti e, sebbene la Seconda Guerra contro Voldemort fosse ormai una realtà incontrovertibile, vedeva intorno a sé soltanto facce felici, ragazzi e ragazze che festeggiavano la bella giornata e la fine dell'anno: si schizzavano, si sfilavano le calze, amoreggiavano.
Sirius emetteva la sua risata trionfante simile a un latrato, mentre Bellatrix approfittava del suo attimo di distrazione per colpirlo con un getto verde… l'incantesimo gli faceva perdere l'equilibrio; scivolava oltre il velo nero, quello che Harry aveva sentito bisbigliare… ma Sirius non aveva parlato: si era limitato a non esserci, improvvisamente, per sempre.
Non esserci per Harry che gridava, cercando di trattenerlo. Un'altra persona amata, un fratello, un amico che se ne andava irrimediabilmente, per colpa sua…e della profezia.
Nessuno può vivere se l'altro sopravvive.
La sua vita doveva concludersi presto per mano di un mostro pluriomicida, oppure doveva diventare lui stesso un assassino. Non c'era scampo, soltanto queste due opzioni… il senso di pesantezza, rabbia e inquietudine che l'aveva accompagnato in quell'anno di merda, in cui era stato il solo a gridare il ritorno di Voldemort, le cicatrici delle parole Non devo dire bugie ancora scarlatte sulla sua mano, tornò a opprimerlo, insieme all'ennesima fitta che gli trapassò la fronte.
Lui era soddisfatto… no, provava qualcosa di simile a gioia, anticipazione… stava per compiere un omicidio, pensò Harry, quasi indifferente. Stava diventando bravo a leggere le sue emozioni. In altre circostanze, se ne sarebbe preoccupato. Adesso, lo archiviò come un semplice dato di fatto. Il tradimento di Dumbledore lo aveva amareggiato non poco. Gli aveva mostrato la profezia soltanto quando non poteva farne a meno, dopo avergli taciuto la verità per anni…
"Non sai ancora tutta la verità, giovane Potter."
"Cassandro" disse Harry, piatto. Non aveva sentito il sopraggiungere degli zoccoli, immerso com'era nei suoi pensieri.
"Abbiamo osservato a lungo le stelle. Marte splende luminoso nel cielo" disse il Centauro, il manto scuro che si confondeva con i riflessi del fogliame.
"So che ci sarà una guerra, anzi è già in corso" disse lui, stancamente. "E ne ho avuto abbastanza di segreti, per oggi."
"Ti sei chiesto perché Dumbledore ha lasciato la scuola all'improvviso?"
"Fudge l'avrà chiamato al Ministero" Harry scrollò le spalle. Non gli interessava affatto se il governo Fudge sarebbe caduto o meno; non provava neanche un senso di cupa soddisfazione.
"Dumbledore è in grave pericolo, tutti noi lo siamo. Ma forse tu puoi salvarci, Harry Potter… il Prescelto" disse Cassandro enigmaticamente, prima di galoppare via tra i meandri della foresta.
Non aveva voglia di cercare Ron e Hermione. Non si sentiva di confidare loro una cosa del genere, né le ultime rivelazioni sulla profezia né i sospetti di Cassandro. Ne aveva avuto abbastanza, di rivelazioni…
Tirò fuori il Mantello dell'Invisibilità per forza d'inerzia, pronunciò la parola d'ordine – "Ape frizzola" – che fece sbloccare l'irascibile troll a guardia dell'ufficio del Preside e salì la scalinata a forma di grifone. S'intrufolò nell'Ufficio pochi minuti dopo, accodandosi a Severus Snape, la veste nera svolazzante. Un moto d'ira che sapeva appartenere soltanto a se stesso lo invase: dopotutto, se c'era qualcuno che aveva contribuito alla morte di Sirius, provocandolo perché era costretto a nascondersi nell'odiatissima casa dei genitori, senza prendere parte alla battaglia, e che non era certo dispiaciuto per la sua morte, era l'uomo dal naso adunco davanti a lui…
Albus Dumbledore emise un gemito sommesso e Harry represse un grido: aveva la mano destra annerita, completamente bruciata. La maledizione, se di questo si trattava, si stava espandendo, provocando nel Preside una lenta agonia… Snape pronunciò una complessa sequenza d'incantesimi dal ritmo ipnotico, simile a una canzone; l'uomo più anziano smise di agitarsi, ma la mano rimase annerita e inutilizzabile. Con sua enorme sorpresa, Dumbledore sorrise.
"Dev'essere impazzito, perché mai se l'è infilato? Doveva sapere che conteneva un potentissimo maleficio…"
Snape stava rimbrottando il Preside, la voce venata dalla preoccupazione. Indicava un anello dalla pietra nera smussata, la montatura spaccata al centro, che Harry non aveva notato.
"I miei riflessi non sono più quelli di una volta" commentò l'altro, serafico.
"Ha pensato che distruggere l'anello avrebbe fermato la maledizione?"
"Senza dubbio ero fuori di me." Dumbledore fece un gesto con la mano ormai inutilizzabile. "Per fortuna non è quella della bacchetta, sono mancino… quanto tempo mi resta, Severus?" Il suo sguardo era tranquillo, diretto, il tono di voce calmo e inalterato.
"Pochi mesi… un anno al massimo" articolò Snape, smozzicando le sillabe, gli occhi bassi.
"In tal caso, c'è qualcosa che dovresti sapere…"
"Anche lei. Il Signore Oscuro mi ha convocato stasera, e il giovane Malfoy…"
"C'è qualcosa di ancor più importante di questo."
Severus Snape tacque, invitandolo a proseguire.
"Harry Potter."
Harry trasalì, mentre Snape si lasciava andare a uno sbuffo sarcastico.
Dumbledore proseguì, gli occhi chiusi. All'improvviso, sembrò incommensurabilmente vecchio e stanco. Parlò come se ogni parola gli costasse uno sforzo fisico.
"Devi sapere che, la notte in cui Voldemort si macchiò dell'omicidio di Lily e James e tentò di uccidere un infante della sua culla, un pezzo della sua anima già instabile e martoriata si staccò da lui in conseguenza di quell'atto abominevole e, quando Colui-che-non-deve-essere-nominato scagliò l'Anatema mortale, si ancorò all'unico essere che ancora rimaneva in vita in quella casa… il piccolo Harry."
"Sta dicendo… che un pezzo dell'anima del Signore Oscuro risiede in Harry Potter?"
"Sì. Questo spiega la loro strana connessione, qualcosa che tante volte il ragazzo è arrivato a sospettare senza mai riuscire ad ammetterlo, e perché lui e Voldemort condividano poteri, pensieri ed emozioni e abbiano bacchette dal nucleo gemello. Finché Harry Potter vive, un frammento dell'anima di Voldemort vivrà con lui. Perciò, anche se questi venisse ucciso…"
"E' così, quindi. Dopo tutto questo, dopo tutto quanto ho fatto per… tenerlo in vita, il ragazzo… Harry deve morire." Il viso di Snape era terreo. Harry si chiese vagamente perché gli importasse tanto, ma era troppo sconvolto per poter pensare.
Nessuno dei due può vivere se l'altro sopravvive.
No, era sbagliato: Nessuno dei due può morire, se l'altro sopravvive.
Entrambi dovevano morire, nessuno poteva sopravvivere.
Era così, allora, che doveva finire… non c'era mai stata speranza, era stata tutta un'illusione. Gli sembrava di aver vissuto per tutto quel tempo attraverso un velo, protetto dalle persone che lo amavano e si erano sacrificate per lui e che l'avevano lasciato l'una dopo l'altra. Prima Sirius, adesso anche Dumbledore, se la diagnosi di Snape era esatta. Se non altro Harry li avrebbe seguiti presto, era quasi una liberazione…
"Mi sta dicendo che l'abbiamo allevato come carne da macello, per tutto questo tempo?!"
Harry non attese la replica pacata di Dumbledore, né si soffermò a domandarsi perché Snape fosse ancor più adirato di lui. Non provava affatto il desiderio di scagliarsi contro il vecchio Preside, né di rifugiarsi nel conforto degli amici. Voleva star solo… perché non morire subito, visto che era la fine che avrebbe fatto comunque? A uccidere Voldemort poteva pensarci qualcun altro, lui aveva fatto la sua parte…
I suoi passi lo portarono inconsapevolmente davanti all'arazzo di Barnaba il Basito, ritratto nel suo ridicolo tentativo d'insegnare il tip-tap ai troll. Harry si ritrovò a fissare l'apertura segreta della Stanza delle Necessità. Per la prima volta in vita sua, non sapeva ciò di cui aveva bisogno.
Di non essere più se stesso. Che Voldemort non esistesse, che non fosse mai nato, oppure, ancora meglio, che ci fosse stata una possibilità in più per Tom Riddle, e una vita degna di quel nome per lui, Harry Potter, senza che fosse per sempre incatenato all'altro come un'ombra. Forse, se Riddle non fosse mai diventato Lord Voldemort…
La porta si aprì, anche se Harry non ricordava di aver formulato una richiesta specifica.
Non riusciva a pensare, non voleva. Aveva bisogno di qualsiasi sollievo la stanza magica potesse offrirgli: doveva staccare da tutto, dalle rivelazioni, dalle aspettative, dall'obbligo di essere il Prescelto. Spalancò la porta, entrò con decisione e la richiuse dietro di sé.
King's Cross, 1° settembre 1943
Tom Riddle si rigirò l'anello di Salazar Sytherin al dito. Al centro della pietra nera di ossidiana era iscritto uno strano simbolo triangolare, forse uno stemma araldico. Si ripropose di indagare più a fondo la storia e i poteri dell'anello sottratto allo zio Orfin Gaunt. Era stato arrestato per l'omicidio dei Babbani che vivevano nella grande casa lassù, esattamente come aveva previsto. Quando aveva scagliato per la prima volta l'Anatema-che-uccide contro il padre che l'aveva rinnegato e gli indegni nonni dei quali non avrebbe mai saputo il nome, non aveva avvertito nulla, se non un senso di compiuta giustizia. L'avevano riconosciuto per via della somiglianza di famiglia; avevano insultato la memoria di sua madre, lo avevano accusato di volere dei soldi (negandoglieli), come se fosse un pezzente qualsiasi… La bacchetta si era levata in alto… una, due, tre volte, e li aveva ridotti al silenzio. Per sempre.
Incastrare lo zio non era nei suoi piani iniziali, solo che era stato così… deludente. Strabico, completamente fuori di testa, ricoperto di peli e sporcizia fino ai piedi. Come se non bastasse, lo aveva di nuovo insultato per la sua somiglianza con quel Babbano. Tuttavia, ciò che l'aveva convinto a incastrarlo era che possedeva l'anello dei Gaunt. Lo voleva, gli spettava di diritto! Era stato così facile instillargli un falso ricordo…
Si avviò verso la banchina del binario 9 ¾. La stazione di King's Cross era un caos di sfollati che raccoglievano i loro averi per rifugiarsi in campagna; arrivavano rari soldati in licenza dall'uniforme lisa e bucherellata dalle pallottole, alcuni mutilati, altri in una tomba. La cosa peggiore erano i mocciosi, straccioni rimasti senza casa che facevano l'elemosina e vivevano praticamente di mezzucci in quell'edificio. Si guardò intorno con disprezzo prima di attraversare di buon passo il blocco che separava i binari nove e dieci. L'Espresso per Hogwarts si estendeva davanti a lui come un serpente scarlatto. Sorrise, pregustando di riunirsi ai compagni e figurandosi la loro strisciante ammirazione per le sue gesta e le idee elaborate durante l'estate.
Era il primo settembre e stava per iniziare il suo sesto anno. La spilla da Prefetto splendeva lucida sulla sua divisa verde e argento, inappuntabile com'era tutto in lui. Era pronto, avrebbe realizzato ogni cosa. Sentiva che sarebbe stato l'anno perfetto.
