Beckett guardò il cellulare per l'ennesima volta, da quando era arrivata quella mattina al distretto. Nessuna telefonata, nessun messaggio. Castle era via da una settimana e sarebbe dovuto tornare solo il giorno dopo, ma non era da lui non farsi sentire, in qualche modo. Appoggiò il telefono e decise di tornare al lavoro e per qualche minuto le sembrò di poter riuscire a concentrarsi sul caso, ma poi qualcosa la distrasse e le venne in mente di non aver controllato le mail, e dicendosi che era l'ultima volta e poi basta, non poteva certo stare a ossessionarsi così, aprì velocemente la sua casella di posta e aspettò speranzosa, fissando l'icona che ruotava. Niente.
Evidentemente era troppo impegnato, o non aveva campo. O l'avevano rapito gli alieni.
Trovò comunque posta da Lanie, con i risultati del laboratorio, quindi abbandonò il cellulare, compose il numero del suo interno e, finalmente, riuscì a immergersi nel suo lavoro, senza pensare ad altro. Sono solo ventiquattro ore, si disse in una pausa, staccando gli occhi dal pc. Non voleva ammetterlo nemmeno a se stessa, ma una settimana senza di lui era stata dura. Non era da lei sentire la mancanza di qualcuno, non qualcuno di sesso maschile, non qualcuno con cui aveva un... legame. Era, anzi, stata contenta di avere tempo per sé, di andare a letto presto, di fare tutte quelle cose che non aveva più avuto il tempo di fare, da quando era stata travolta dall'uragano Castle a tempo pieno. Era passata qualche settimana, da quando avevano sommato pazzia alla pazzia e avevano deciso di provarci. A far cosa, non l'aveva ancora capito con certezza, ma intanto erano stati giorni di adrenalina e felicità assolute, che un po' le facevano paura, ma poi lui arrivava e lei ricominciava a credere che fosse possibile. Era possibile. E le mancava da morire. Non ne aveva mai abbastanza di stare con lui, dormire con lui, svegliarsi e trovarlo a guardarla, e anche mentre risolvevano i casi, seri e responsabili, avvertiva sempre quel brivido di eccitazione sotterranea che le derivava dal condividere un segreto con lui.
Gli altri non avevano notato niente, e loro non avevano messo al corrente nessuno della loro relazione. In primo luogo perchè era tutto talmente magico che lo volevano tenere per sé, almeno per il momento. Un momento molto lungo, erano entrambi d'accordo. E poi perchè non potevano ufficialmente avere una relazione, la politica del dipartimento non lo permetteva. E, in ultimo, perchè Espo e Ryan li avrebbero presi in giro fino alla morte, e a lei non dispiaceva certo evitarsi l'esperienza.

Lo sentì ancora prima di vederlo e il suo cuore fece un salto. "Come mi è mancato questo odore di sangue e di casa", proclamò ai quattro venti, uscendo dall'ascensore. Lei alzò la testa e il suo viso si aprì per un attimo al sorriso, mostrando apertamente la gioia inaspettata di vederlo, prima di ricomporsi e tornare seria. La solita irreprensibile Beckett. Sapeva che invece lui l'aveva notato. Notava tutto di lei.
Lo vide venire nella sua direzione, dopo aver salutato gli altri.
"Ehi, Beckett, qualche caso bizzarro dei tuoi?", le chiese con tono indifferente a beneficio di chi li stava ascoltando, ma rivolgendole uno sguardo così intenso da farle battere il cuore più forte.
"Buongiorno a te, Castle. Non dovevi tornare domani?", si informò fingendosi molto occupata a controllare dei documenti e dandogli solo una breve occhiata.
"Mi sono liberato prima e sono riuscito a prendere un volo questa mattina presto, ed eccomi qua, a portavi aiuto con il brillante acume...".
"Sì, certo, lo sappiamo, come faremmo senza di te... dì la verità che ti mancavamo", lo prese in giro.
Lui non rispose e questo la fece fermare con un foglio in mano per alzare gli occhi a guardarlo.
"Beh... tecnicamente, sì, è perchè mi mancavi", le sussurrò a bassa voce, per non farsi sentire da nessuno.
Lei gli lanciò uno sguardo di muto rimprovero, e tornò ostentatamente a fare il suo lavoro, ma sapeva che lui stava sorridendo e, da qualche parte, non riusciva a smettere di sorridere neanche lei.
"Allora, detective, cosa abbiamo? Dammi qualcosa di interessante, mi sono già annoiato abbastanza negli ultimi giorni...", la pregò, facendole l'occhiolino.
Lei gli illustrò il caso alla lavagna, concentrata a dargli tutti i dettagli possibili e amando quel momento in cui le loro menti, così diverse e all'apparenza incompatibili, si connettevano e, d'improvviso, tutti gli elementi che sembravano slegati e insensati, si univano a formare un quadro.
"Sicuri che non c'entri la CIA?", chiese Castle dopo qualche minuto di silenzio concentrato, in cui aveva analizzato attentamente tutti i dati.
Forse non proprio la connessione che aveva in mente lei...
"Dimentico sempre, Castle, quanto ci è di aiuto il tuo brillante acume...", replicò con sarcasmo.
"Ehi, sono appena arrivato. E poi prima o poi la CIA farà un passo falso e io sarò lì pronto a... cosa c'è Beckett? Stai bene?", si informò preoccupato, vedendola impallidire.
"Niente. Ho... lo stomaco sottosopra e sono un po' stanca. Deve essere qualcosa che ho mangiato. O forse è influenza", lo mise al corrente senza dar troppo peso alla cosa.
"Cosa hai mangiato?".
"Oh, non so esattamente, ieri sera abbiamo lavorato fino a tardi e qualcuno ha ordinato qualcosa e io sono arrivata tardi e ho mangiato quello che era rimasto".
"E quando sei stata male?".
"Castle, mi stai facendo il terzo grado? Adesso sto bene. E' passato tutto. Quando finalmente dormirò un numero di ore decente, mi riprenderò completamente. Contento Dottor Stranamore?", concluse abbassando la voce di un tono e lanciandogli un'occhiata provocante.
"Mmmh, che belle immagini mi stanno venendo in mente", accavallò una gamba accomodandosi meglio sulla sua sedia (scomoda, ma sua), con fare sognante.
"E io che per stasera avevo in mente folli festeggiamenti, e, invece, mi toccherà metterti a letto alle nove", riprese, per nulla dispiaciuto dall'idea.
"Mi piacerebbe, Castle, sentirti cantare la ninnananna, ma temo che anche stasera farò tardi".
"Questo significa che non ci vediamo?", la guardò allarmato. "Io ho un appuntamento, ma contavo di venire a prenderti, più tardi, fingere di non accompagnarti a casa, fingere di non baciarti e fingere che non stiamo insieme e non dormiamo insieme ".
"Hai ragione, anche io avrei molta voglia di fingere di non fare queste cose, ma...sei tu che sei tornato un giorno prima".
Stava rifiutando a malincuore, ma non poteva fare diversamente.
"Ok. Faremo così. Passerò di qui quando avrò finito, starò con te ad aiutarti, e poi se avrai voglia della compagnia di un uomo molto, molto affascinante, per la notte...", le sussurrò guardandosi in giro per accertarsi che nessuno stesse origliando.
"Hai voglia invece di accompagnarmi per un pezzo, mentre vado a parlare con una persona? E' di strada per il tuo appuntamento", gli propose lei, invece di rispondere e lui accettò subito la possibilità di stare finalmente da solo con lei.
"Ai suoi ordini, detective", e, nemmeno il tempo di dirlo che si era già alzato in piedi ed era corso a chiamare l'ascensore.
Non si erano ancora chiuse del tutto le porte, che le aveva messo una mano tra i capelli, dandole un bacio leggero. "Mi sei mancata davvero", le disse a fior di labbra.
Anche tu, Castle", rispose infilandogli una mano sotto la camicia, con il bisogno urgente di sentire la sua pelle nuda.
"Non avete messo le telecamere in ascensore durante la mia assenza, vero?", si preoccupò, mentre le faceva scorrere la lingua sul labbro inferiore, prima di mordicchiarlo.
"No", rispose lei con un mugolio. "Ma dura sempre troppo poco".
Lui si staccò da lei: "Stiamo sempre parlando di ascensore, giusto? Perché finora non ti sei mai lamentata...".
"Castle!", lo rimproverò senza essere credibile, perchè le veniva da ridere.
"Sì, stavo parlando dei quattro piani di ascensore, non era certo una critica alle tue infinite e durevoli capacità amatorie. Non mi permetterei mai", rispose, rassegnata e insieme divertita, di fronte alla sua vanità.
"Ottimo. E' sempre meglio chiarire, prima di avere qualche problema comunicativo", le rispose, rubandole un ultimo bacio, prima che le porte si aprissero.

Era una giornata infernale di fine luglio, il caldo aveva già smesso da diverse ore di essere sopportabile e la luce era così accecante da costringerli a socchiudere gli occhi, mentre l'asfalto sembrava liquefarsi sotto ai loro piedi. Faceva venir voglia di mare, di sabbia che scotta, panorami, ombra. Castle aveva in mente di convincerla a prendersi una pausa e di farla tornare negli Hamptons, che si sarebbero, secondo i suoi programmi, finalmente goduti pienamente. Non riusciva a pensare a niente di meglio che averla tutta per sé, fuori dall'ufficio.
"Beckett, come mai sei così lenta, oggi? Di solito non riesco a starti dietro", notò Castle, sconcertato, girandosi ad aspettarla.
"E' la nuova versione del 'Manuale del playboy secondo Richard Castle"? Perché ti informo il risultato che non è proprio gradevole".
Lui non riprese a camminare, obbligandola a fermarsi.
"No. E' che non mi sembra che tu stia bene". Cominciava a sentire un principio di ansia. Gli sembrò perfino che avesse il respiro un po' corto.
"Sto bene, Castle, te l'ho detto, ho mal di stomaco e sono stanca morta. E odio questo caldo. Dio, mi sembra di essere in una fornace, senza mai un attimo di tregua. Quest'anno è peggio del solito", si lamentò lei.
Questo non era da lei. Lamentarsi e non tollerare il caldo. Anzi, di solito volteggiava per la città fresca come una rosa, mentre il resto della città boccheggiava per l'afa. E amava il sole caldo sulla pelle.
"Adesso che sono qui ci penso io a rimetterti in sesto, ok?", le promise. Erano arrivati al punto in cui le loro strade si dovevano separare, e lui avrebbe invece voluto stare con lei, incapace di farsi bastare la sua presenza.
"Ok", accettò sollevata. "Mi sei mancato anche tu", aggiunse piano.
Lui si chinò per baciarla, ma lei fu veloce a ritrarsi. "Cosa stai facendo? Potrebbero vederci!", si guardò in giro con apprensione.
"Ci sono milioni di persone, turisti compresi, chi vuoi che ci veda?", cercò di tranquillizzarla Castle. Questa storia di tenere segreta la loro storia era per lo più divertente, ma qualche volta lei tendeva a diventare paranoica. Ma rispettò i suoi desideri, e si limitò a metterle una mano sulla guancia, che sentì umida sotto alle sue dita.
Forse era lui che stava diventando paranoico.

Diverse ore dopo, che a entrambi erano sembrate eterne, Castle ritrovò finalmente la via del distretto. Nonostante fosse calata la sera, il caldo era ancora feroce e lui si trovò a desiderare il refrigerio dell'aria condizionata del suo loft, in cui non era ancora riuscito a tornare.
Beckett era ancora seduta alla scrivania, così come l'aveva trovata quel mattino. Avrebbe dato qualsiasi cosa per sollevarla di peso e portarla via di lì. Era stanco di non poterla avere tutta per sé, era tornato prima apposta per passare un po' di tempo con lei, ma doveva dividerla con documenti e scartoffie varie.
"Sicura di non poter mollare tutto e venire via con me? Ti preparo la cena e poi... la notte è giovane...", le propose, sapendo già in partenza che non avrebbe accettato. Il senso del dovere di Kate Beckett era qualcosa contro cui sapeva di essere sconfitto in partenza.
"Mi piacerebbe tanto, Castle", rispose, approfittando del suo arrivo per staccarsi dai fogli che aveva davanti e per stiracchiarsi, dando un po' di sollievo ai muscoli della schiena. "Ma credo di averne ancora per un po'. Perché non vai a casa, inizi a preparare quella cena che mi hai promesso e io ti raggiungo dopo?", gli propose.
"Sei esausta. Dovresti davvero spegnere tutto e andare a casa", obiettò lui.
"Castle", lo ammonì. "Non ricominciare".
"Ok, come vuoi. Ti porto una tazza di caffè?".
"Sì, grazie. Oggi sono stata così impegnata che non ho avuto nemmeno il tempo berlo. E in questi giorni non c'era nessuno che me lo preparava", accettò, grata. Come aveva fatto a stare senza di lui per giorni? E per anni prima di incontrarlo?
Lui arrivò dopo qualche minuto con due tazze di caffè, e aspettò che lei smettesse di scrivere qualcosa, prima di allungargliene una.
Quanto le erano mancati quei momenti tutti per loro, in cui erano da soli al distretto e la sua scrivania definiva i limiti del loro universo.
Kate chiuse gli occhi pregustando il sapore forte del caffè, come lo sapeva fare lui, e gli effetti della caffeina sul suo sistema nervoso.
Ma, non appena bevve un sorso, fece una smorfia disgustata e si trattenne dallo sputare nella tazza, che appoggiò schifata sulla scrivania, cercando un fazzoletto.
"Castle. Che caffè mi hai portato? Hai perso il tocco?".
Lui guardò prima lei, poi la propria tazza, prese un altro sorso e le disse, cauto: "A me sembra il solito caffè".
Lei respirò a fondo per reprimere la nausea che stava aumentando, cercando di calmare il suo stomaco, che aveva ricominciato a farsi sentire.
"Devi aver bevuto dei caffè orribili, se questo ti sembra buono. E' cambiata la miscela? C'è un altro fornitore?", replicò lei, ancora schifata.
Castle non disse niente. Finì il suo caffè, prese la tazza di Kate, andò nello stanzino, versò tutto il contenuto dentro al lavandino, la sciacquò e tornò a sedersi lentamente davanti a lei.
"Kate". Sembrava così serio che Kate lo fissò incuriosita.
"Devi fare un test", le disse con un tono che non ammetteva repliche, anche se aveva cercato di essere calmo e di non far trasparire l'urgenza.
Lei sbuffò. "Ancora con questa storia? Sto bene. Te l'ho già detto milioni di volte, oggi. Ti sei fissato con questa cosa e non mi stai dando tregua. E poi ho appena fatto la mia visita annuale della polizia. Sono sana come un pesce".
"Un test di gravidanza", specificò asciutto Castle, sporgendosi verso di lei, per diminuire la distanza tra di loro.
Lei lo guardò, dapprima senza capire. La gravidanza di chi? Poi, quando il significato esatto delle parole sembrò penetrare nella nebbia che le ovattava il cervello, si ritrasse da lui, scuotendo la testa, come a voler scacciare il più lontano possibile un pensiero troppo orribile per poter solo essere preso in considerazione.
"E'... uno scherzo?! Lo trovi divertente?", furono le prime, taglienti, parole che le uscirono dalla bocca.
Era impazzito? Lei non era incinta. Assolutamente.
"Kate...", cercò di intervenire lui per non far degenerare la situazione.
"No". Suonò più come un'ultima difesa disperata, che come una risposta. "No. No. No. No", ripeté come un mantra, più a se stessa che a lui. Come se fosse convinta che bastasse questo per poter imporre al suo corpo i suoi desideri, solo con la pura forza di volontà.
"Castle...", riprese con voce tremante di rabbia. "Devi andare a casa. E' tardi. Devo finire ancora un sacco di cose. E sono stanca. E tu vieni qui e mi... distrai".
Lui sapeva riconoscere un atteggiamento di negazione, quando lo vedeva. E la conoscenza abbastanza da sapere di doverle lasciare i suoi spazi e che non lo stava mandando via, desiderando invece che lui insistesse per restare.
Voleva proprio rimanere da sola.
Le prese una mano tra le sue, appoggiò le labbra delicatamente sull'interno del polso, e si alzò.
"Chiamami, quando... sempre. Quando vuoi".
Prese la giacca e se ne andò.