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Non sapeva dare un nome preciso a quello che faceva per guadagnarsi da vivere.
A lui piaceva definirsi, semplicemente, un rompecorazones.
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*Parigi, 27 aprile
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"Pierre, où allez-vous?"
Alzò lo sguardo dal suo orologio da polso e sorrise. Dietro di lui, Michelle lo guardava con curiosità, arricciando le labbra rosa in un broncio che le stava d'incanto. Era bella, Michelle: anche con i capelli in disordine, anche con gli occhi gonfi di sonno e la vestaglia messa al contrario. I piedi nudi puntellavano il pavimento di marmo, e le gambe scoperte fino alle ginocchia tremavano per il freddo.
In altre circostanze, di certo non sarebbe rimasto indifferente a una Michelle così infreddolita e teneramente imbronciata.
L'aveva incontrata così, Michelle: mentre tremava sotto la pioggia gelida di fine settembre, combattendo contro un ombrello che proprio non voleva saperne di aprirsi. Lui l'aveva aiutata, le aveva sorriso, e lei era arrossita all'istante. Quel giorno, guardandola arrossire, mille pensieri si erano subito annidati nella sua testa, immaginando altre, e più gradevoli situazioni, in cui lei avrebbe rabbrividito senza ritegno e le sue guance si sarebbero accese di un rosso così incandescente da togliergli il fiato. Ma in quel momento non provò nulla. Nulla, se non la snervante consapevolezza che se si fosse trattenuto ancora avrebbe finito col far tardi.
Era il segnale della fine dei giochi.
"Mon amour" sussurrò contro le sue labbra, catturandola in un bacio leggero. Uno di quel tipo di baci che scioglievano Michelle rendendola creta nelle sue mani. Infilò le dita tra i suoi capelli, imprigionando qualche ricciolo biondo e portandoselo al naso per assaporarne il profumo. Le disse che doveva incontrare un amico per un favore. Che sarebbe tornato subito. Che gli sarebbe mancata da morire, e che avrebbe contato ogni secondo senza di lei.
Le disse tante di quelle sciocchezze che dovette mordersi le guance per non scoppiare a ridere.
Quando uscì dall'appartamento, Michelle si fermò sula soglia della porta per guardarlo andar via, e lui le lanciò un bacio con la mano prima di voltarsi e raggiungere le scale. Trottò sui gradini di marmo canticchiando una canzone a bocca chiusa. Un recente successo canadese che da tempo aveva preso possesso di molti canali radiofonici francesi:
I'm running and I'll catch you
My love, My kite
Don't fly so high
And don't say goodbye,
Goodbye, bye bye.
"Goodbye, bye bye" ripeté distrattamente non appena varcò il portone del palazzo. Canticchiò quel ritornello anche quando raggiunse il tassista che, per la seconda volta quella mattina, lo stava aspettando con impazienza sul marciapiede opposto –la prima volta era stata quando aveva dovuto portare giù i bagagli prima che Michelle si svegliasse. Continuò a canticchiare anche quando, dal finestrino dell'auto appena partita, osservò con allegria quelle strade parigine che forse non avrebbe visto mai più.
La ville de l'amour era davvero splendida, baciata dalle prime luci di quella tiepida mattina primaverile.
Parigi lo aveva conquistato come era successo con poche altre città al mondo: come con Michelle, fin dall'inizio aveva avuto cura di osservarla, toccarla, viverla con tutto sé stesso fino a dichiararsene follemente innamorato. Ma a differenza delle donne, lui si innamorava sempre e sinceramente dei luoghi del mondo che visitava. E Parigi, sicuramente, gli sarebbe mancata. Senza pensarci alzò appena la mano, immaginando di sorreggere un bicchiere di champagne per proporre un ultimo brindisi. L'intera Parigi sembrò addirittura rispondergli, quando scorse la punta lontana della Torre Eiffel: gli era sempre piaciuto guardare la città da lassù, e ora, chissà, forse qualcun altro si trovava lì, al posto suo, e riusciva a vederlo mentre stava andando via.
Quel pensiero lo fece quasi sorridere: "Goodbye, bye bye."
E assaggiò un sorso del suo champagne immaginario.
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Il taxi ci mise più tempo del previsto per raggiungere la sua destinazione, e la cosa lo fece innervosire. Aspettò che il tassista tirasse fuori le valigie dal bagagliaio e gli dette un paio di banconote in più di quanto gli sarebbe spettato, sperando di toglierselo dai piedi il prima possibile. Quando entrò nell'aeroporto la prima cosa che vide fu un frenetico via vai di persone che quasi lo disorientò. Sospirando, si infilò i Ray Ban e cercò di farsi largo tra quella folla quasi caotica.
In quelle situazioni non era conveniente prendere l'aereo: il passaporto lasciava tracce, spesso i voli ritardavano esageratamente e i controlli erano forse troppo ristretti per i suoi gusti. Ma quel giorno era di un umore abbastanza buono per correre qualche rischio. Un buon umore che però crollò a picco non appena si accorse, per l'appunto, che il suo aereo era in ritardo.
"Mierda!" sputò tra i denti. Ma quella parola fu l'unica cosa che lasciò trapelare la sua irritazione: con passo lento trovò un posto dove sedersi e alzò le braccia per stiracchiarsele un po', ostentando tutta la tranquillità del mondo. Addirittura sorrise quando il bambino accanto a lui iniziò una serie di agitati e snervanti "Quando voliamo? Quando arriviamo? Quando ce ne andiamo?" rivolti ai suoi genitori. Pigramente tirò fuori l'iPod dalla tasca della valigia e frugò tra i brani musicali. Scorse un po' tutti i titoli, ma sapeva già cosa stava cercando: Bye Bye, dei The Drama Brothers. Si portò la cuffia in un solo orecchio, lasciando l'altro libero, ed emise un sospiro rilassato.
Little kite
am I not light enough for you?
In the sky kisses are much bluer
goodbyes are much milder
And if I fall
you take the flight
Little love
Goodbye, bye bye.
Tamburellò le dita sul ginocchio a ritmo di musica, guardando da dietro gli occhiali la folla attorno a lui. Lo colpì la vista di un ragazzino, forse appena sedicenne: aveva l'aria da bambino smarrito, e con uno zaino in spalla e uno snack nella mano opposta cercava di chiedere qualcosa ai passanti, in un olandese che però nessuno sembrava conoscere. A un certo punto il ragazzino scivolò su qualcosa e si ritrovò a terra, col cioccolato della merendina spiaccicato sulla mano e le orecchie fumanti di un rossore imbarazzato. Non seppe bene il perché, ma quella scena ricordò il suo primo volo in aereo. All'epoca aveva diciotto anni, era solo, e anche lui a un certo punto era stato così preso dal panico da non avere idea di cosa fare.
Se fosse stato un tipo nostalgico o gentile probabilmente lo avrebbe raggiunto per aiutarlo. Invece si alzò solo quando si accorse che il suo volo era in partenza, e superò il ragazzino ancora a terra senza degnarlo di un altro sguardo.
La fila in cui si ritrovò coinvolto era meno lunga di quanto si aspettasse. "Mi dovrebbe far vedere il passaporto e il suo biglietto, signor…"
"Burromuerto." Abbassò gli occhiali da sole e sorrise. "Ma solo per lei posso farmi chiamare Alejandro.". Una strizzatina d'occhio e la donna davanti a lui arrossì prima di tornare nervosamente al suo lavoro. Alejandro mantenne sulle labbra un sorriso angelico fino a quando non gli fu restituito il biglietto e chiesto di aspettare per l'imbarco.
Una ventina di minuti più tardi era al suo posto sull'aereo, terza fila a destra vicino al finestrino. Accanto a lui una vecchia coppietta iniziò ad agitarsi per un pacchetto di fazzoletti sparito da qualche parte, e tutt'attorno si levò il comune ronzio dei passeggeri che avevano fretta di far volare l'aereo.
Ad Alejandro sfuggì una smorfia. Non gli piaceva la seconda classe, ma si impose di accontentarsi, non gli andava di spendere subito i suoi soldi: quello lo avrebbe fatto solo una volta arrivato, e già poteva pregustare i modi più viziosi e piacevoli con cui avrebbe potuto festeggiare la riuscita del suo ultimo colpo.
Un pensiero corse a Michelle, e meccanicamente controllò l'orologio.
Se aveva imparato a conoscere le abitudini della petite, a quell'ora era immischiata in una delle solite litigate coi dipendenti del suo negozio di profumi; poi a mezzogiorno sarebbe tornata a casa per pranzare e prima di uscire di nuovo avrebbe preso la sua quotidiana tazza di cappuccino col cioccolato. Stavolta, però, sullo scaffale del caffè avrebbe trovato anche un suo biglietto. Un biglietto che, più o meno, ripeteva le stesse cose di molti altri biglietti lasciate ad altrettante donne diverse:
'Il mio cuore è a pezzi
La persona di cui mi fidavo ha perso il nostro denaro
Non posso più guardarti negli occhi
Colpa mia
Un tuo perdono
Appena riavrò i soldi
Aspettami se puoi
Ti amo,
Pierre.'
"Mercì, Michelle" sussurrò Alejandro al nulla, mentre la sua voce veniva accompagnata dal ruggito dei motori. Come nel taxi, alzò la mano davanti a lui come se stesse reggendo un bicchiere: stavolta, però, il brindisi che propose fu crudelmente canzonatorio. "Grazie per la tua ospitalità. Grazie per le notti sul tuo letto."
'Ma soprattutto, grazie per i tuoi soldi!', avrebbe voluto aggiungere. Invece si limitò a rivolgere un ghigno cattivo al suo riflesso nel finestrino.
"Au revoir, mon amur!" salutò con scherno rilassandosi sul suo sedile.
L'aereo volò, e con quello se ne andarono anche ogni preoccupazione o malumore di Alejandro, lasciandolo gonfio di una sensazione di trionfo che neanche l'improvviso attacco d vomito del suo vicino riuscì ad intaccare. Ma quando salirono più in alto e si accorse che la Francia si stava allontanando, il suo sguardo si addolcì. Chiese all'hostess un bicchiere d'acqua frizzante, e stavolta poté farlo sul serio, un brindisi d'addio alla sua bellissima Parigi.
"Goodbye, bye bye."
