ANDY
Il buio e il silenzio che mi avvolgono mi costringono in un limbo: sono qui, seduto da solo nella mia macchina eppure è come se non fossi io, ma vedessi me stesso da una prospettiva esterna.
Oggi ho fatto una cazzata, nell'impeto del momento non me ne sono reso conto, solo ora che ci ho riflettuto mi accorgo di quanto sia stato superficiale. Avrei potuto farmi ammazzare.
Avrei dovuto chiamare Sean, il mio sponsor, subito dopo aver consegnato pistola e distintivo agli Affari Interni, invece ho girato in macchina per Los Angeles aspettando la riunione degli AA. Adesso sono nel parcheggio a osservare le persone salutarsi e entrare insieme, mi potrei identificare con ognuno di loro, le nostre storie sono tutte uguali, solo alcuni particolari neanche troppo rilevanti le distinguono.
Ecco Joe, un giovane di 28 anni che mi ricorda me stesso tempo fa. Quando ha raccontato la sua storia mi sembrava di rivivere il mio passato: quella irrefrenabile voglia di bere, la sensazione che la tua famiglia si stia allontanando sempre di più e poi il maledetto vuoto che percepisci quando ti rendi conto che non ti rimane più nulla da perdere. Ti sembra che gli altri non possano comprendere il tuo disagio, insomma sei convinto di essere l'unico in quello stato e nessuno ha le capacità per aiutarti. Mi ricordo il periodo in cui mia moglie e i miei figli mi avevano cacciato e io mi ero buttato a capofitto nel lavoro e nell'alcool: ero a un passo dal perdere il distintivo. Se fosse successo avrei detto addio a questo fottuto mondo. Garantito.
Sean è arrivato al momento giusto.
Una sera mi sorprese mezzo sbronzo fuori dalla centrale, mentre vagavo alla cieca nel tentativo di ricordarmi dove avevo parcheggiato la macchina. Avevamo ritrovato la bambina che avevamo cercato senza sosta, lui ci aveva affiancato perché lavorava alla sezione Persone Scomparse. La bambina non era rincasata da scuola un pomeriggio e dopo 32 ore di ricerche l'avevamo trovata cadavere giù a Willowbrook. Che razza di faccenda. Io ci avevo creduto, insomma avevo dato tutto me stesso nelle indagini e quando intravidi una scarpetta rosa nella spazzatura mi lasciai andare. Sapevo che solo l'alcool mi avrebbe aiutato a dimenticare. Ingurgitai qualsiasi cosa quella sera e poi mi ritrovai fuori dall'ufficio. Se non fosse arrivato Sean credo che avrei dormito sul marciapiede davanti alla centrale quella notte.
Mi ha salvato, dico davvero.
Mi prese di peso strattonandomi fino a casa sua. Dopo avermi infilato sotto una doccia gelata mi costrinse a bere un caffè nero fortissimo e caldissimo. Mi addormentai sul suo divano e il mattino seguente mi alzai con un terribile mal di testa e una nausea persistente. Presi le mie cose e dopo averlo ringraziato mi avviai verso la porta. Lui mi si parò davanti e a furia di spintoni mi ributtò sul divano. Io ero confuso, cosa diavolo voleva da me? Gli avevo già assicurato che non sarebbe più successo. Lui iniziò a urlarmi contro, come un padre con il figlio adolescente ribelle, e io, come un adolescente ribelle, ero un muro impenetrabile. Mi raccontò la sua storia di alcolista, che in quel momento a me fregava meno di niente, ma poi disse una frase che fece breccia nella mia indifferenza, disse "Non sei l'unico". Quelle tre parole mi arrivarono nitide alle orecchie come lo scoppio di una bomba e risvegliarono dal torpore il mio cervello. Si accorse immediatamente di aver trovato la chiave giusta, così si offrì di accompagnarmi a un incontro degli Alcolisti Anonimi.
Mi ha cambiato la vita.
Eccolo, vedo che attraversa il piazzale guardandosi intorno sorridente, sono con la mano sulla maniglia pronto a scendere, ma non apro la portiera.
Mi accorgo di non aver voglia di parlare, nemmeno con lui.
Ritraggo la mano e appoggio la testa al sedile chiudendo gli occhi. Mi scorrono davanti le immagini della maledettissima giornata appena trascorsa. Cosa diavolo mi è saltato in testa?
La mia mente mi riporta a questo pomeriggio: stavamo cercando il sospettato di un omicidio, Provenza e io a casa sua, gli altri al suo posto di lavoro, dove avrebbe dovuto essere. Siamo davanti alla sua porta di casa quando lo vediamo arrivare, lui ci riconosce e scappa. Lo inseguo fino al parco dove tira fuori una pistola e inizia a minacciare chiunque gli passa a tiro. Io gli sono di fronte con la mia pistola, Provenza sopraggiunge e gli punta la sua.
Il ragazzo è spaventato, si vede, non vuole far del male a nessuno, ma in quelle condizioni potrebbe succedere qualsiasi cosa. Ha un ostaggio. Gli intimo di buttare la pistola ma lui risponde in modo confuso. Mi assicuro che Provenza lo abbia sotto tiro, poi alzo le mani e ripongo la mia arma. Provenza inizia ad agitarsi, ma io proseguo con il mio piano: parlo al ragazzo avvicinandomi con cautela. Lo convinco a lasciare andare l'ostaggio, ora la sua pistola è puntata su di me. Provenza continua a urlarmi di togliermi da lì, lo vuole freddare e sarebbe la cosa più logica da fare, ma non la più giusta a mio parere. Continuo ad andare verso di lui e quando sono abbastanza vicino gli salto addosso cercando di strappargli la pistola dalle mani. Nella zuffa parte un colpo, tutto è confuso, lui si blocca per una frazione di secondo, credo non si aspettasse che il grilletto fosse così sensibile. Non faccio in tempo a rendermi conto che ha lasciato la pistola che il suo pugno mi colpisce dritto sullo zigomo sinistro, facendomi barcollare. Riesco comunque ad avere la meglio, lo giro e gli metto le manette.
Nel frattempo sono sopraggiunte altre pattuglie di rinforzo che hanno assistito alla scena e un agente prende il ragazzo in custodia.
Io mi lascio cadere di schiena sul prato, non ho più l'età per fare certe cose. Provenza mi dà dell'idiota elencandomi tutti i punti in cui ho sbagliato e indicandomi il proiettile conficcato nel tronco di un albero alla mia destra. Avrebbe potuto ammazzare qualcuno invece di terminare la sua corsa su un albero qualunque. Credo ci sarà una verifica degli Affari Interni.
Provenza mi aiuta ad alzarmi e, considerando la scazzottata, mi consiglia di fare un giro all'ospedale e di non parlare con gli Affari Interni finché non ci sarà il mio rappresentante sindacale con me. Annuisco. Mi sembra una buona idea.
Torno al presente richiamato dalla vibrazione del cellulare sul sedile del passeggero, apro gli occhi e leggo Sharon sul display. Ci penso un attimo e poi scelgo di lasciarlo squillare, sono ancora troppo arrabbiato per parlare con lei o per ascoltare le sue inutili scuse. Lo schermo si spegne e d'improvviso mi sento determinato come non mai. Le mie mani si contraggono sul volante, metto in moto la macchina e parto sgommando.
Mi fermo davanti a un supermercato ancora aperto ed entro. Decido che una cassa di birre è sufficiente per quel che intendo fare, pago senza aspettare il resto e risalgo in fretta in macchina. Se lo voglio fare davvero non ci devo pensare troppo.
Entro in casa senza accendere la luce, in fondo mi vergogno per quello che sto per fare e il buio rende tutto meno reale.
Sistemo le birre vicino al divano e mi siedo con i gomiti appoggiati alle gambe. Rimango così per qualche minuto, con il cuore che batte a mille e un caldo soffocante che mi attanaglia. Mi allento la cravatta nella speranza di riuscire a respirare senza affanno.
"Non devi, non sei obbligato. Ci sono mille altre strade per risolvere questo casino e lo sai perfettamente" mi dico. Ma ricordare la faccia del Capitano James mentre mi ritira il distintivo mi fa infuriare di nuovo. E i volti dei miei colleghi: Provenza non aveva neanche il coraggio di guardarmi negli occhi; l'immobilismo di Sharon poi, non una parola di sostegno nei miei confronti; se ne stava lì, muta, alle spalle del suo ex collega appoggiata alla mia scrivania.
Sono stato tradito da tutti.
Vedo il mio braccio che si allunga verso le birre e la mia mano ne sceglie una. La stappo e la poso sul tavolino davanti a me.
La fisso come ipnotizzato, la luce del lampione che filtra dalla finestra illumina il vetro arancione della bottiglia e l'azzurro metallico dell'etichetta, l'odore amarognolo che ne esce mi entra nelle narici. Inspiro profondamente chiudendo gli occhi e lasciandomi cadere sullo schienale del divano. Il dolore al fianco e allo zigomo mi riportano ancora una volta a quel pomeriggio.
Sono stato uno stupido, sarebbe potuta finire davvero male. Io non avevo il giubbotto antiproiettile, di certo nessuno di noi pensava a una sparatoria, e tutt'intorno c'erano civili indifesi. Il manuale dice di convincere la persona armata a gettare la pistola e, se questi non obbedisce e sembra pericoloso, l'agente ha diritto di sparare per salvare sé o altri dal pericolo imminente di un danno grave. Non dice certo di iniziare una rissa col soggetto al fine di strappargli la pistola dalle mani. Solo un idiota lo farebbe. Appunto.
Ma quegli occhi…il ragazzo aveva lo sguardo di un animale in fuga, braccato dai cacciatori. Non riuscirò mai a cancellarlo dalla mia memoria. Lo avessi ucciso me lo ritroverei davanti tutte le notti.
Ho salvato una vita eppure ora cosa mi rimane? Non il mio lavoro, non il sostegno dei miei colleghi, non l'appoggio della persona a cui tengo di più al mondo.
Apro gli occhi di colpo e con un gesto rapido afferro la bottiglia per il collo e la scaravento sul mobile davanti a me. Il rumore di vetri infranti e dei cocci che raggiungono il pavimento mi fa scattare una molla interna. Mi alzo come una furia e tiro un calcio al tavolino che si rovescia sbattendo rumorosamente per terra. Mi accorgo di desiderare qualcosa da prendere a pugni finché non sono esausto. Mi guardo intorno alla ricerca di una preda, ma non trovo niente che mi soddisfi.
Per oggi ho fatto abbastanza cazzate.
Lentamente prendo la cassa di birre e la porto sul tavolo in cucina, pensando a cosa farne, poi mi giro di scatto e assesto un violento pugno alla credenza. Il legno sfondato mi taglia la mano ma io non sento alcun dolore, non me ne sarei accorto se non fosse per delle goccioline rosse che sporcano il tavolo bianco mentre sono piegato in avanti a riprendere fiato.
Sto rovesciando il contenuto dell'ultima bottiglia di birra nel lavandino quando sento bussare. Resto in ascolto, non voglio vedere nessuno stasera.
La voce di Sharon supera la barriera della porta, mi dice che è venuta a casa per assicurarsi che io stia bene. Forse le interessa ancora qualcosa di me.
Apro lentamente la porta e lei fa un passo indietro, nei suoi occhi riesco a leggere lo sgomento. Non parla e non capisco perché abbia quella faccia spaventata.
La lascio lì sulla soglia mentre torno a sedermi sul divano, prendendomi la testa tra le mani.
Sento il rumore dei suoi tacchi che si avvicinano, poi si fermano. Suppongo si stia guardando intorno e quando la sento tirare un profondo sospiro capisco che ha notato la bottiglia rotta sotto il mobile della televisione. Spero si sia convinta che non ho bevuto, ho tenuto duro.
Si siede accanto a me sul divano, in silenzio.
Lo so che devo essere io il primo a parlare, ma non so cosa dire. Sento la mia voce che sussurra un "Ci sono andato vicino". La mia lingua è sempre stata più veloce del mio cervello, ma questa volta devo dire che ha scelto le parole giuste.
"Ho comprato le birre e ne ho stappata una. Sono rimasto lì a fissarla ed ero decisissimo a berla. Ero sicuro che l'avrei fatto, giuro. Ma poi l'ho lanciata sul mobile" continuo.
Lei rimane in silenzio, ha capito che non ho finito e mi appoggia una mano sulla schiena per incoraggiarmi a sfogare la mia frustrazione.
"Prima sono andato agli alcolisti anonimi, ma non sono neanche riuscito a scendere dalla macchina. Volevo dimenticare tutto e mi sono reso conto che parlare non mi avrebbe aiutato. Avevo voglia di bere, pensavo solo ad ubriacarmi talmente tanto da non essere costretto ad affrontare i miei fantasmi. Perdonami."
Sharon, da donna meravigliosa qual è, mi risponde con la cosa più dolce che potessi sperare: "Sei inciampato, Andy, senza cadere. Sono contenta che tu non ti sia fatto vincere dalla voglia di bere e mi abbia aperto la porta. Ora sono qui, per aiutarti. Insieme possiamo affrontare qualsiasi cosa, anche questo."
Senza avere il coraggio di guardarla negli occhi le chiedo a bassa voce "Sono un alcolista a un bicchiere dall'essere un alcolizzato, Sharon. Come fai a voler stare con uno come me?"
Lei mi mette una mano sotto il mento costringendomi a voltarmi verso di lei. Mi dice che ama tutto quello che sono, ama le mie qualità e le mie mancanze e che ci sarà sempre per me come io, spera, ci sarò sempre per lei.
Sento le lacrime spingere per uscire e provo a ricacciarle indietro abbassando lo sguardo.
Con voce tremante le confesso che con le birre rimaste dovevo ancora decidere cosa fare, ma poi pensando a lei tutto si è fatto più chiaro e le ho rovesciate nel lavandino.
"Mi hai salvato, Sharon, dico davvero" le confido passandomi le mani sulla faccia.
Lei mi ferma la mano destra prendendola nella sua e mi aiuta ad alzarmi.
"Vai a fare una doccia mentre io sistemo qui" ordina.
Mi viene spontaneo abbracciarla e sussurrarle all'orecchio che non passerà la vita a sistemare i miei casini. Lei ricambia la stretta e poi mi sospinge verso il bagno.
L'acqua calda che mi scorre sul corpo rilassa i miei muscoli tesi e piano piano il nervosismo accumulato durante la giornata scompare. Penso che sia stata Sharon a compiere questo miracolo, non la birra o l'incontro di boxe disputato contro i miei mobili.
Mi vesto e torno in sala trovando Sharon sul divano con disinfettante, cerotti e ghiaccio. La guardo un po' stupito "Sto bene" le assicuro.
Lei mi costringe a sedermi per farmi medicare: inizia dalle nocche che mi sono tagliato contro il mobile in cucina, e di cui sinceramente mi ero dimenticato, e poi mi passa il ghiaccio per lo zigomo gonfio. Non mi sono neanche guardato allo specchio, ma il mio occhio deve avere un aspetto orribile perché appena ci appoggio il ghiaccio una fitta mi fa serrare la mascella con un lamento.
"Sei sicuro che non ci sia niente di rotto?" mi chiede preoccupata.
Io torno a mettermi il ghiaccio sulla faccia "No non è niente, solo che quel ragazzino ha un bel destro. Mi ha quasi steso."
Lei mi sorride.
Mi rilasso sul divano allungando le gambe fino ad appoggiarle sul tavolino, che è tornato al suo posto, e metto un braccio attorno alle spalle di Sharon. Lei posa la sua testa sul mio petto e io annuso il profumo dei suoi capelli.
Mi sembra di stare in paradiso adesso. Qualche ora fa ero all'inferno e avrei potuto rimanerci se non fosse arrivato il mio personale angelo a tirarmi fuori.
Voglio che Sharon sappia quanto le sia grato e quanto abbia bisogno di lei. Con la mano destra la stringo a me più che posso e le sussurro "Sei il mio faro nella tempesta, Sharon".
