Kate si svegliò – o così le sembrò – solo un istante prima di avvertire un rumore imprecisato in lontananza, seguito da un cigolio sinistro e un indistinto borbottio che qualcuno tentava, senza riuscire, di mettere a tacere. O forse era stato l'insieme di tutte queste cose ad averla strappata bruscamente al sonno.
Calò un silenzio sospetto, ma pochi istanti dopo, uno spostamento d'aria all'interno della stanza nella quale era distesa, prodotto dall'apertura della porta, fece volteggiare il tessuto impalpabile delle tende candide appese alla finestra di fronte a lei. La brezza avvolse delicatamente il suo corpo accaldato.

Allungò le gambe stiracchiandosi tra le lenzuola fresche, con gli occhi ancora chiusi. Il piacevole torpore in cui era immersa non la invogliava ad abbandonare prematuramente il perfetto rilassamento di cui non beneficiava tanto spesso.
"Buongiorno", la solleticò una voce carezzevole.
Sollevò le palpebre, irresistibilmente attratta dal suono familiare.
Scorse Castle chino su di lei, vestito di tutto punto, impegnato a sorreggere con una mano un vassoio pesante e riccamente imbandito.
Con l'altro braccio teneva in equilibrio Alex, appollaiato nella sua posizione preferita sul petto di suo padre.
"Mamma!", sbraitò la vocetta squillante di suo figlio, felice di vederla, costringendola a riemergere senza nessuna pietà dal mondo ovattato in cui si era trastullata.
Si rassegnò a sollevarsi, appoggiandosi contro lo schienale del letto debitamente intarsiato dell'ampia camera in cui lei e Castle soggiornavano, lì negli Hamptons.

Non era stato facile come avevano immaginato, ritagliarsi qualche giorno di vacanza da trascorrere tutti insieme. C'erano stati prima i suoi obblighi da capitano, che nell'ultimo periodo sembravano moltiplicarsi davanti al suo sguardo impotente. E c'erano stati gli impegni di Castle che, dopo un periodo relativamente lungo di blocco creativo – non aveva mai saputo l'esatta durata – si era buttato anima e corpo nella stesura di un nuovo romanzo, sorprendendo tutti, in primo luogo se stesso.
Gli Hamptons erano sempre rimasti sullo sfondo come un'idea vaga, una sorta di terra promessa e un pensiero consolatorio in cui rifugiarsi quando necessario, ma che aveva faticato a tradursi in realtà.
Una sera, a cena, dopo l'ennesima giornata trascorsa al distretto da cui era tornata molto tardi, sfinita, e dopo l'ultimo capriccio di Alex, che aveva voluto aspettarla alzato diventando via via sempre più nervoso per la stanchezza e per l'impossibilità di trascorrere insieme a sua madre tutto il tempo che avrebbe voluto - di cui avrebbe avuto bisogno - Castle aveva messo fine a ulteriori indugi e aveva deciso per tutti. Sarebbero partiti quel week end. Magari si sarebbe potuto trasformare in un week end lungo, se lei fosse riuscita a lasciare il lavoro per qualche giorno in più. Dovevano partire, dovevano cambiare aria, dovevano stare insieme.
Insieme era una parola magica che aveva sempre il potere di farla cedere e accettare qualsiasi proposta, soprattutto se tanto allettante e necessaria per la sua salute mentale.
Si era dichiarata immediatamente d'accordo, cogliendo Castle di sorpresa. Con ogni probabilità, doveva aver previsto di dovercela portare di peso.

In qualche modo era riuscita a preparare un'enorme valigia contenente tutto quello che pensava potesse servire ad Alex, che a ben guardare non era mai andato in vacanza. Questa consapevolezza le faceva un po' rimordere la sua coscienza di madre. Ma era inutile rimanere prigionieri del passato.
Non che lei avesse materialmente infilato vestiti, giochi e tutto il necessario dentro alle borse che si erano moltiplicate sul pavimento del loft. Aveva compilato liste su liste al lavoro, che aveva spedito ansiosamente a Castle, aspettandosi che esaudisse le sue richieste senza fiatare.
Non avevano avuto molto tempo per prepararsi, perché Castle aveva messo talmente fretta a tutti, che aveva temuto che li depositasse fuori dall'uscio di casa con i soli vestiti che avevano addosso.
Era stato poco oppositivo, aveva realizzato una volta salita in auto convinta di aver dimenticato qualcosa di importante, ma senza sapere che cosa. Era stato fin troppo collaborativo, anzi. Doveva aver fatto di testa sua, aveva capito con una morsa nello stomaco. Di chissà quante cose inutili aveva riempito la valigia?

Nonostante i cattivi presagi, i preparativi frenetici, e un Castle particolarmente vivace, erano riusciti nel loro intento.
Loro tre, da soli, in vacanza. Un tempo avrebbe faticato a credere che un enunciato potesse contenere quelle istanze tutte in una volta.
Si erano adeguati in fretta ai nuovi ritmi pigri e rilassati. Avevano passeggiato a piedi nudi, invaso la casa di sabbia, giochi e risate, si erano tenuti per mano, avevano trascorso le serate nel patio in completa e invidiabile solitudine e avevano dormito molto di più di quanto fossero abituati a fare. Anche Alex aveva deciso che meritassero un po' più di riposo. Forse era per via dell'intensa attività fisica a cui Castle lo sottoponeva, soprattutto le lunghe nuotate. Come aveva promesso, aveva davverofatto costruire una piscina bassa per bambini, anche se Alex si era innamorato dell'oceano al primo sguardo.

Si stropicciò gli occhi, abbandonando i piacevoli ricordi nei quali amava divagare. Soffocò uno sbadiglio. Era ancora molto stanca. Doveva essere tutto il sonno arretrato degli ultimi diecimila anni.
Castle le appoggiò il vassoio sulle gambe, facendo attenzione a non versare il liquido scuro ancora caldo. Gli rivolse un sorriso riconoscente. Nel frattempo, Alex si era arrampicato sul letto accanto a lei, le aveva stretto le braccia intorno al collo nella solita morsa soffocante, che le dava l'idea di poter morire da un momento all'altro e aveva deciso di assaltare il cibo invitante che Castle aveva preparato per lei.
A proposito di cibo. Quando il profumo dei croissant le stuzzicò le narici, rammentò gli eventi della notte appena trascorsa e il motivo per cui avrebbe voluto dormire per altre quindici ore filate. Represse una smorfia.
"Stai bene?", le chiese Castle premuroso.
"Sì. Ho solo lo stomaco un po' sottosopra. Ho faticato ad addormentarmi, stanotte". D'improvviso ricordò di essersi mossa a lungo tra le lenzuola, nervosa e appesantita, temendo di svegliarlo. Era per quella ragione che non si era alzata per cercare qualcosa che le desse sollievo.
"Mi dispiace. Perché non me l'hai detto? Ti avrei fatto compagnia".
"Non volevo disturbarti. Eri troppo carino sprofondato nel sonno".
"Io sono semprecarino", borbottò. Kate alzò gli occhi al cielo, ma senza protestare. Del resto era proprio così. E lei si sentiva troppo sdolcinata in quella mattina di fine estate, per rimbeccarlo con il solito sarcasmo.
"È passato ora il malessere?", si interessò, tornando serio. Non c'era niente che lo mandasse più in allarme e lo trasformasse all'istante in un grosso orso protettivo come l'idea che lei stesse male.
"Sì". Non era proprio così. La sola vista di generi alimentari le chiudeva la gola. "Devono essere state quelle ostriche". Erano usciti a cena e dovevano aver esagerato con il pesce e qualche bicchiere di vino bianco di troppo. Avevano bevuto? Non ne era certa.
"Anche io le ho mangiate. A me non hanno dato fastidio".
"Tu hai uno stomaco di ferro, Castle, e in più me le hai lasciate tutte a me".
"Perché ne vai pazza".
Beh, forse d'ora in avanti non più così tanto.

Alex intervenne per ottenere l'attenzione che i suoi genitori, troppo spesso per i suoi gusti, distoglievano da lui per perdersi in discorsi e sguardi che lo relegavano un po' più ai margini rispetto all'assoluta centralità di cui veniva solitamente onorato.
"Mamma!", la richiamò di nuovo, strepitando, indignato per la distrazione di cui si era macchiata. Le mise con forza un braccio intorno al volto e strinse forte. Le sue solite – manesche – dimostrazioni di affetto.
Quando fu sicuro che lo stesse ascoltando, indicò con enfasi qualcosa sul vassoio, che Kate non aveva ancora notato. Era un vasetto di ceramica di cui ignorava la provenienza – non conosceva ancora troppo bene quella casa – riempito di margheritine morenti che sembravano aver visto giornate migliori.
Lanciò a Castle un'occhiata interrogativa, che non ottenne risposta.
"Sono molto belle, Alex, grazie", commentò felice e cauta, sentendosi un po' a disagio e un po' commossa, perché era la prima volta che il suo bambino le regalava dei fiori. Sì, si era lasciata andare a fantasie bucoliche, mentre era incinta, su loro due sdraiati in mezzo a un prato a guardare le nuvole, circondati da corolle di fiori, ma le maniere poco delicate, che si erano delineate in fretta in lui crescendo, le avevano fatto cancellare presto tutte le belle immagini pastorali. Più che regalarle mazzetti di fiori, temeva che sarebbe stato più adatto a radere l'intero prato al suolo. Chissà se sarebbe stato diverso, se fosse stato una bambina. Pensieri oziosi che non avevano nessuna utilità. Li cancellò senza nessuna remora.
Alex fu lieto ed entusiasta di averla compiaciuta e lei si sentì, come sempre, invadere di profonda e inarrestabile tenerezza.
Toccò piano la corolla mezza appassita di una delle margherite più coraggiose, come segno di apprezzamento.
Castle aveva osservato il loro scambio e solo alla fine si chinò verso di lei, per parlarle all'orecchio.
"L'idea è stata sua, ma, per paura che si rovinassero, ha deciso di metterle in tasca. Al sicuro". Si guardò intorno, per accertarsi che Alex non ascoltasse il seguito. "Ho buttato quelle che non ce l'avevano fatta", confessò senza muovere le labbra. Kate scoppiò a ridere, ma represse subito la successiva ilarità, per non offendere i sentimenti del suo primogenito. "E ho cercato di sostituirle con altre più sane", finì di bisbigliarle all'orecchio.
Gli sorrise. Le sorrise.
Kate soffocò l'istintivo gemito a metà tra l'annegamento sensoriale che le procurava ogni gesto facesse Castle in quei giorni - ormai i giorni cominciavano a essere numerosi – e la solita incredulità all'idea di avere accanto un uomo del genere.
Da quando era tornata al loft, da quando la famiglia si era riunita, aveva vissuto costantemente immersa in una atmosfera sognante che cercava di dissimulare quando, come era prevedibile, avevano iniziato a ripetersi con insistenza i commenti su quanto "apparisse in forma". Tagliava corto e cambiava discorso. Non lo avrebbe confessato ad anima viva, ma si sentiva per lo più illanguidita e con la grave tendenza a esprimersi per sospiri, al solo comparire di Castle al distretto, o in camera da letto, o ovunque le fosse precedentemente pesata la sua assenza come un ciottolo conficcato proprio sopra al diaframma. E innamorata. E incapace della minima resistenza di fronte a lui.
Si sarebbe preoccupata, forse, un tempo. Quando ancora era convinta che solo attraverso il costante scrutinio delle proprie emozioni – e il rifiuto di abbandonarsi a esse – avrebbe potuto gestire la sua vita con un pugno di ferro. Tanto tempo fa.

Gli accarezzò una guancia. Castle si protese a darle un bacio sul collo, che divenne un abbraccio, che sarebbe diventato in fretta altro se Alex non li avesse scrutati torvo dal centro del letto. Si staccarono con un po' di imbarazzo. Si erano ripromessi tante volte di smettere di toccarsi, smettere di baciarsi, smettere di guardarsi se fosse stato necessario, di fronte ad Alex – per non escluderlo, per dargli tutta la loro attenzione indivisa -, ma, molto semplicemente, non erano in grado di farlo. Non nel ritrovato idillio dopo mesi di buio. Non potevano. Non era giusto.

Kate bevve un sorso di caffè, buono come tutti quelli che le preparava Castle. Per via dell'ingrediente segreto.
Appoggiò la tazza sul vassoio. Soffocò un nuovo sbadiglio, ma Castle si accorse della sua insolita stanchezza.
"Forse dovresti continuare a dormire", le consigliò.
"No. È tardi. Che ore sono?".
Da quando erano arrivati aveva infilato in un cassetto il suo orologio e il cellulare, sperimentando una libertà che non si permetteva da anni. Era convinta che la sua natura impaziente non avrebbe retto alla necessità di controllare ossessivamente l'andamento temporale della giornata, ma non era andata così.
"Quasi mezzogiorno".
La rivelazione la lasciò sbigottita. Non pensava di aver poltrito così a lungo. Perché diamine era ancora tanto stanca, allora?
"Non posso continuare a dormire, Castle. Alex deve pranzare e voglio stare con voi. Non a letto", protestò.
"Ti si chiudono gli occhi", le fece notare lui, paziente.
"Berrò un'altra tazza di caffè e mi farò una doccia. Così mi sveglierò del tutto".
Castle le accarezzò con gesti circolari delle dita l'interno del polso.
"Oppure... ".
Qualsiasi cosa fosse, aveva già accettato. Le bastava il profumo di quell'oppure.
"Oppure rimani a letto, fai un altro sonnellino, ti riprendi dal malessere e quando sarà l'ora del pisolino di Alex...". Le dita risalirono sul sul braccio seguendo una linea immaginaria.
"Magari verrà sonno anche a te?", concluse socchiudendo gli occhi e abbandonandosi sui cuscini dietro di sé.
"Non ti prometto niente", le rispose con solennità.
Lo fece abbassare su di lei e avvicinò le labbra al suo orecchio, proprio come aveva fatto lui poco prima, per metterlo al corrente di quello che lei, invece, poteva promettergli, in quel pomeriggio caldo, immersi nel silenzio e la quiete della casa.
Alla fine dovettero strapparsi l'uno dall'altra e mettere una porta tra loro. Come sempre.