Capitolo 1
Vorrei che la mia vita avesse un senso.
Guardo Chicago, le luci appannate da una pioggia sommessa, cadenzata, quasi triste.
Il mio lavoro qui è finito.
"Il mio lavoro qui è finito" gli ho spiegato, stringendo le spalle.
Adam mi ha osservata per qualche secondo, tamburellando nervosamente le dita sulla scrivani.
Poi si è spinto gli occhiali ultraleggeri più su, sul setto nasale deviato, e si è schiarito la gola.
"Come posso aiutarti? Potrei cambiarti di reparto, temporaneamente. Magari ti aiuterebbe un po' di lavoro d'ufficio. Isolarti…"
"Sono già isolata" ho commentato, sorridendo mio malgrado per il nervosismo.
Mi sono guardata le unghie, tagliate cortissime, le dita arrossate dal freddo pungente, poi le ho passate a pettine tra i capelli.
"Non ho altro che questo lavoro e gli ultimi mesi sono stati faticosi" ho provato a spiegare. Non sapevo quanto sarebbe riuscito a capire.
"Credevo ti piacesse lavorare qui" ha borbottato lui, impilando nervosamente i suoi post it sull'ebano della scrivania.
"Credevo di essere una persona diversa" sono riuscita a mormorare.
Il groppo in gola era tornato a piazzarsi nel suo angolino preferito.
È così da mesi.
Mi sono tornate a pizzicare le palpebre.
Fingo di tossire.
Non guardarmi, Adam.
Non voglio pensare.
La valigia è sul letto, aperta.
Un invito stancante, in una giornata tanto tetra e noiosa.
L'ho convinto a lasciarmi andare.
Dovrei essere euforica, ma non lo sono.
Il mio riflesso nello specchio circolare del bagno mi ricorda che sono stanca, che sono state "settimane faticose".
Potrei sdraiarmi e dormire per giorni, invece ingollo una pillola. Una sola, perché io sono diversa.
La mando giù e ripenso a quello squillo di telefono, miliardi di sere fa.
"Pronto?"
Sorridevo, me lo ricordo. Sorseggiavo una birra con Julie. Ero di buonumore.
"Dottoressa Cameron?"
La formalità di quell'esordio mi smorzò il sorriso. Qualcosa non andava…
"Sì, sono io. Con chi parlo?"
"Sono Philip Knot, lavoro alle Risorse Umane del Princeton Plainsboro."
Sbuffai, silenziosamente. Julie, di fronte a me, aveva inarcato le sopracciglia, curiosa.
"Come posso esserle utile?" chiesi, sforzandomi di suonare cortese.
Mi disturbava quella telefonata, che sprigionava il tanfo del vecchio, in una serata piacevole come quella.
"Sono spiacente di informarla…" esordì con un tono a metà tra l'indeciso e il rigoroso " …che oggi è accaduta una disgrazia."
Avrebbero potuto affollarsi migliaia di immagini, nella mia mente.
Stanze inondate di melma, pazienti agonizzanti a terra, ex colleghi uccisi a colpi d'ascia da uno schizofrenico, un virus letale che decimasse l'ospedale…
Invece vidi solo lui, steso a terra, composto, il bastone poco distante, gli occhi azzurri spalancati, vitrei, la bocca semiaperta.
" …il dottor Gregory House è morto. Il suo cadavere è stato rinvenuto poche ore fa. Il dottor Foreman ci ha riferito che lei ha lavorato con lui per diversi anni."
"Ho lavorato per lui" lo corressi, meccanicamente.
Mi accorsi di quanto la mia voce suonasse vacua, sterile.
Me ne accorsi perché non provai nulla. Un vuoto nello stomaco, poi niente più.
Anche Knot se ne accorse: percepii l'incertezza, nei suoi secondi di silenzio.
"Beh, tra due giorni verrà allestita la camera ardente" mi annunciò, tagliando corto.
Annuii, poi mi ricordai che non poteva vedermi.
"Certo" dissi, stupidamente.
"Allora a presto" mi congedò.
Era evidente che da me si sarebbe aspettato una reazione diversa. Chissà come lo aveva preparato Foreman… forse gli aveva preannunciato una scenata isterica.
Povero Eric. Nemmeno lui mi conosceva più.
Fu solo di ritorno al PPTH che il dolore mi colpì.
L'aria frizzante che mi aveva accolta odorava di neve.
Ricordai un giro in moto, anni prima; una sorta di abbraccio fugace e imbranato.
Ci aveva fatti ridere. Lo aveva fatto di proposito.
La hall era la stessa, ma non riconobbi lo stesso personale, tranne che per qualche volto familiare qui e là.
Salutai, assente.
Una volta mi aveva chiesto se mi sarei messa a frequentare un collega, per quei corridoi.
Avevo cercato di essere brusca come meritava, ma quella curiosità mi soddisfaceva al punto da farmi sorridere, mio malgrado.
Sentii un ago nel petto, una scheggia di vetro.
Ero congelata, così cercai con lo sguardo il distributore di bevande calde. Fui rasserenata dal trovarlo sempre nello stesso punto. Anche le etichette, vagamente stinte, erano le stesse.
Le lacrime oramai mi appannavano la vista.
Quante volte mi ero rifugiata lì… per una tregua, per sfuggire al suo sguardo indagatore, alla sua vicinanza che mi agitava.
Cosa avrei dato per avere ancora, nel mondo, quel qualcuno da cui sfuggire.
