I do not own Teenage Mutant Ninja Turtles. Nickelodeon does. Questa opera non è a scopo di lucro; i diritti delle Teenage Mutant Ninja Turtles appartengono alla Nickelodeon.


A/N Ciao a tutti! Sono tornata con una storia che è molto diversa da quelle che ho pubblicato fino ad ora. Questa è una storia per adulti. Contiene turpiloquio, sesso, morte, autolesionismo. E' buia, dolorosa, cattiva.
In verità sono due brevi storie, complete, divise rispettivamente in tre e quattro capitoli.
Spero che vi piaccia! Buona lettura! ^_^


L'aria era insolitamente fredda, per quella stagione, un vento gelido soffiava dall'ovest. Le foglie degli alberi frusciavano impazzite, lottando per restare attaccate ai rami.

Lui ha stretto le braccia intorno al corpo. Sarebbe stato più saggio rientrare. Alzarsi da quel dondolo maledetto, in quel portico maledetto, e portare il suo culo dentro, al caldo.

Ormai, il sole stava per tramontare. Si intravvedeva appena, nascosto dagli alberi che abbracciavano la vecchia casa colonica. La luce rosa filtrava tra le fronde e si appoggiava mollemente sul legno secco della facciata.

Sì, aveva freddo. Un altro attacco di tosse gli ha grattato la gola. Si stava forse ammalando? Un'irritazione alle vie respiratorie? Magari il principio di una malattia polmonare? Sì, una malattia. Quello che ci voleva. Una bella, lunga malattia, poi più niente.

Vigliacco.

Ed idiota. Lei non avrebbe voluto. Lei l'avrebbe disprezzato per questo. La vita non si getta al vento. La vita si sopporta, anche quando fa male. Anche quando non la vorresti più.

Inoltre la pace, la fine di tutto, lui non se la meritava.

Ha allungato la mano accanto a sé, sul divano imbottito del dondolo in legno. Era seduto come sempre dal suo lato, lasciando vuoto l'altro posto.

Il posto dove sedeva lei.

"Sai cosa mi piacerebbe fare, questa sera?" La voce di lei era bassa, sensuale. La voce che lo faceva sciogliere, che lo faceva impazzire, che gli provocava brividi di anticipazione, che gli schiudeva promesse di tesori e delizie.

Le aveva sorriso, stringendola a sé. Era calda, profumava degli odori della cena.

"Non ne ho la più pallida idea. Allenarci con le armi?" L'aveva presa in giro, socchiudendo gli occhi.

"Stupido." Lei aveva lasciato il suo posto sul dondolo e gli era salita di sopra, a cavalcioni. Il dondolo aveva ballato lentamente. "Davvero non capisci cosa mi piacerebbe fare? E pensare che credevo fossi un genio." Adesso nello scherzo la sua voce era anche un po' infantile.

Gli aveva poggiato le labbra sul collo, dandogli un bacio. Poi un piccolo morso. "Dai, prova ad immaginare…"

Lui aveva sentito i battiti del cuore crescere piano piano d'intensità. Come sempre. Dopo tanti anni.

L'aveva stretta ancor più a sé, le sue cosce a premere contro l'inguine, il suo seno a strofinare contro il piastrone. Aveva bevuto il suo fiato, caldo, e se ne era inebriato. Aveva sentito i suoi sensi farsi più acuti, la sua parte più intima iniziare a pulsare.

La bocca gli si era fatta secca, ancora una volta aveva perso tutte le sue inutili parole davanti a lei. Quindici anni erano trascorsi, ma lei aveva sempre le chiavi del suo cuore ed il possesso esclusivo di ogni sua capacità oratoria.

"A…April… cosa…"

"Mhm, vedo che inizi a capire…"

Un suono in lontananza l'ha riportato da solo, al freddo, sullo stesso vecchio dondolo. Era il rombo di un motore? Sarebbe dovuto tornare dentro, a nascondersi?

Non gli importava, neanche di questo più gli importava.

Comunque, adesso aveva riconosciuto bene il suono del motore, ancor prima che la moto nera sbucasse dal vialetto terroso.

La moto di Raph.

Come sarebbe stato stavolta? Urla e spintoni o paziente tentativo di convincimento? Un guardati fai schifo, come cazzo ti sei ridotto, o un fratello, ti prego, non posso continuare a vederti così?

Aveva sperato che avesse finalmente capito di lasciarlo in pace; d'altronde erano ormai una decina di giorni che non si faceva vedere. Ed infatti aveva finito la scorta di cibo due giorni fa. Non che gli importasse.

Ed invece eccolo lì, a sollevare un polverone sul vialetto, con la sua tuta di pelle nera, col suo casco nero, nella sua tenuta da pantomina di un giustiziere della notte da film anni '80.

Almeno era solo, questa volta non aveva portato Mikey. Non avrebbe sopportato quella rottura di palle, non quella sera. Non più.

La moto si è fermata proprio davanti al portico. Il fratello è balzato giù dalla sella con movimenti da ninja.

Loro sì, erano ancora ninja, eh. Loro sì, avevano ancora corpi ben allenati, tonici ed atletici. Non come lui.

Gli si è avvicinato.

Non era Raph. Riconosceva ancora i suoi fratelli dalle loro movenze.

Mikey si è tolto il casco.

Non era una visita di cortesia. Aveva fretta. "Donnie, vieni con me."

Lui si è alzato dal divanetto del dondolo in automatico, è balzato su senza pensarci. Se sia stato un riflesso condizionato o se forse questa fosse l'unica cosa che ancora gli importasse, si vergognava ad ammetterlo, ma non lo sapeva.

"Che succede?"

"Raph. Sta male. Ha bisogno di te."

Sì, una fitta alla bocca dello stomaco l'ha effettivamente sentita, a quelle parole. Ma il suo stomaco era chiuso in un pugno da mesi, ormai.

E' rientrato in casa per prendere la sua borsa. Era ancora lì, accanto alle medicine. Ha buttato dentro altri medicinali, e l'ha infilata a tracolla. D'altronde era già vestito. Era sempre vestito ormai.

Ed anche vestito si sentiva nudo.

Ha dovuto solo calzare quei maledetti e scomodissimi vecchi scarponcini; è uscito, ha preso il casco che Mikey aveva portato nel sottosella della moto e l'ha indossato.

"Andiamo." Sono partiti sgommando sul vialetto. Il sole era ormai tramontato.

"Sei la persona più testarda che conosca, April!"

"Donnie, è solo un mal di testa. Anche mio padre ne soffre spesso."

"Ce l'hai praticamente da un paio di settimane. Al vecchio covo ho ancora l'apparecchiatura per la tac. Se anche domani stai male ti lego e ti porto lì a forza."

"Va bene, amore. Ma sono sicura che domani starò meglio." L'aveva abbracciato, e baciato piano, e poi aveva mormorato: "E comunque non è così facile legare una kunoichi."

Dio com'era bella, quando sorrideva.

Mikey lo stava istruendo sui fatti nel breve tragitto dal garage alla camera di Raffaello, nel loro vecchio rifugio in cui erano tornati a vivere dopo la morte di Shredder, e che adesso era la casa dei due mutanti mascherati in rosso e arancione.

"…due notti fa. Era da solo. Quando è tornato alla tana l'ho medicato, ma adesso ha la febbre alta. La ferita si è infettata."

"Dov'è ferito?"

"Sul volto. Eh, Donnie…"

Sono entrati nella stanza, Raph era disteso sul letto, coperto. Ansimava.

Al suo fianco, su una sedia di ferro, Casey Jones.

Certo, avrebbe dovuto immaginare di trovarlo al capezzale del suo migliore amico. Non avrebbe potuto fare a meno di vederlo. Doveva salutarlo o ignorarlo? Casey l'ha tolto dall'impiccio salutandolo prima lui.

"Ciao, Donatello." Voce gentile, ma il solito sguardo. L'alto e magro uomo dai capelli neri, muscoli scolpiti e corpo coperto di cicatrici, lo odiava ancora.

"Casey." L'ha guardato appena e si è avvicinato al fratello sul letto. Aveva una larga benda a coprire la metà sinistra del viso.

"Donnie, lui…" Mikey stava tentando di dire qualcos'altro, fermo dietro le sue spalle, a disagio. Donatello era quasi infastidito. Trent'anni suonati, grande e grosso, ed a volte suo fratello minore si comportava ancora come un ragazzino.

Non prestandogli attenzione, ha tolto la benda dal volto di Raph.

Donatello ha fatto un balzo all'indietro. "Gesù Cristo."

Ha guardato Michelangelo, scioccato, poi nuovamente il fratello sul letto, che si lamentava nel sonno, sofferente, la fronte imperlata di minuscole goccioline di sudore.

"Il… il suo occhio…" E' tornato a rivolgersi a Michelangelo. "Cosa cazzo è successo al suo occhio?"

Donatello adesso iniziava sentir ribollire dentro di sé una rabbia aspra e pungente, che teneva compagnia alla preoccupazione, ed al lieve ribrezzo.

Un profondo taglio segnava il volto pallido del fratello, dallo zigomo alla fronte, diventando più marcato sull'arcata. Dove avrebbe dovuto esserci l'occhio con l'iride verde, sotto la palpebra semichiusa e tagliata in due, si intravvedeva solo una scura e sanguinolenta orbita vuota.

Donatello ha sentito alla gola l'amaro della bile.

La ferita era rossa e gonfia. Era infetta.

"Perché, – ha fatto un passo verso Michelangelo, e l'ha afferrato dal borgo superiore del piastrone – perché non mi avete chiamato prima!"

Michelangelo ha guardato la mano che lo teneva, poi ha lanciato diritto negli occhi di suo fratello uno sguardo acuminato, azzurro e gelido. Ha tolto la mano con un colpo, come se scacciasse una mosca. Adesso era molto più forte di Donatello.

"Ti ho chiamato, ma hai il telefono spento." Lo sguardo accusatorio di Michelangelo ha afflosciato Donatello. Era senso di colpa quello che adesso sentiva? Il pensiero di non essere stato presente nel momento in cui i suoi fratelli avevano bisogno di lui?

No, al diavolo. Non era giusto. Lui aveva il diritto, aveva ogni fottutissimo diritto di soffrire in santa pace. Lui aveva il diritto di restare da solo, in compagnia del suo dolore, di tormentare la sua anima nel ricordo, di punirsi per non essere stato capace di aiutarla.

Lui aveva tutto il diritto di non essere più il fratello, il medico, il mutante con il cervello da genio, ed essere solo Donatello, l'essere che soffre. Aveva sempre vissuto per aiutare i suoi fratelli, aveva dedicato loro ogni momento ed ogni pensiero della sua giovinezza. Ed anche quando ormai era andato a vivere con April, ogni volta che i fratelli avevano avuto bisogno di lui aveva mollato tutto ed era corso da loro; aveva lasciato freddarsi la cena, aveva lasciato la sua donna nel letto da sola, la notte, a preoccuparsi per i suoi salti tra i tetti, per i suoi combattimenti che lo portavano poi a farsi medicare da lei, medico che diventa paziente, a farsi rimproverare da lei, che si chiedeva quando mai quella storia sarebbe finita, ormai che Shredder era morto, che i Kraang erano stati sconfitti, che dei Dragoni Purpurei restava solo qualche graffito sui muri.

Lei che lo baciava sulle ferite, e gli chiedeva quando avrebbero potuto avere una vita più tranquilla, una vita normale.

Una vita normale, come se fosse possibile, per lui, per un mostro, per uno scherzo della natura, avere una vita "normale"; come se bastasse nascondersi in una grande casa colonica in campagna, gestire la loro fiorente impresa informatica nascosto dietro allo schermo del computer, guardare la televisione abbracciati sul divano, la sera, come una qualsiasi coppia, come uomo e donna, marito e moglie.

Una vita normale.

"Cosa vuol dire che non possiamo più?"

"Vuol dire che abbiamo sbagliato, April, è stato tutto uno sbaglio. Noi non dovevamo, io non dovevo…"

"Uno sbaglio? Tre mesi con me tu li consideri uno sbaglio?" Il suo viso lentigginoso da adolescente era diventato rosso, i suoi occhi azzurri si erano ridotti a fessure; aveva fatto un passo indietro da lui ed aveva tenuto le braccia davanti a sé, come a difendersi da quelle parole che non voleva ascoltare.

Lui aveva sentito la bocca farsi di carta vetrata, aveva improvvisamente dimenticato ogni parola del discorso provato quella notte, nella sua mente, stringendo il suo cuscino in lacrime, quando aveva deciso che avrebbe dovuto finirla lì, che avrebbe dovuto lasciarla andare.

Era da fare subito, in quel momento, prima che diventasse troppo tardi. Prima che i suoi fratelli lo scoprissero, prima che gli sguardi del suo Sensei, di suo padre, che sembrava leggerlo sempre all'interno dell'anima, diventassero aperti rimproveri. Prima che passasse troppo tempo, e non ne avesse avuto più la forza.

"N… noi, April, noi, non possiamo. Io non posso. Non posso farti questo. – Gli occhi nocciola l'avevano guardata, lucidi, addolorati, determinati. – Non posso permettere che tu sprechi la tua vita con me…"

"Che io sprechi la mia vita…" lei si era buttata sulla sedia, improvvisamente svuotata, aveva distolto lo sguardo, il dolore aveva iniziato ad avvolgerla alla gola "In che senso, sprecare la mia vita? Donnie io ti a-"

"NO! NO! Tu non puoi! Non devi!" Lui aveva improvvisamente cominciato a piangere, aveva fatto un passo verso di lei e le aveva afferrato le spalle, con la disperazione che iniziava a lavare la sua voce; ormai doveva andare avanti, ormai era quasi fatta, faceva male ma doveva andare avanti.

"NON DEVI! Io non te lo posso permettere! Ma mi hai visto? Mi vedi? Sono un mostro April! UN MOSTRO! Che vita vorresti fare con me, nascosta nelle fogne? Vattene, dimenticati di tutto, è stato un errore, mi dispiace, oddio mi dispiace…" Le lacrime gli avevano bagnato i bordi della maschera viola, adesso sembrava giovane ed indifeso, non era più il ninja, il guerriero, il forte mutante, era solo un ragazzino anzi no, un bambino; si era nuovamente staccato da lei, di colpo, come se avesse preso la scossa, e da quel momento non avesse più potuto toccarla.

"Mi dispiace, April, ma la nostra storia finisce qui."

Erano rimasti così, in silenzio, per quasi un minuto.

Lui in piedi, le mani serrate in pugni tremanti, il corpo scosso da piccoli singhiozzi, in attesa che lei si alzasse, se ne andasse sbattendo la porta del laboratorio, che tutto finisse presto, in modo da poter iniziare a raccogliere i cocci del suo cuore, per pianificare la sua sofferenza in modo che questa non l'avesse annientato.

Lei seduta, lo sguardo perso a fissare un punto sul pavimento, il viso inespressivo, due linee d'acqua a rigare le guance, cercando di capire cosa fare, cosa dire.

Si sarebbe dovuta alzare, se ne sarebbe dovuta andare, ferita, umiliata. Avrebbe dovuto fare come lui le aveva detto, dimenticarsi di tutto, anzi avrebbe dovuto lasciare per sempre quella gabbia di matti, tornare a fare la sua vita da comune ragazza di diciotto anni, accettare gli inviti di Casey, lui che era un essere umano, non un mutante, non un maledetto ninja che passava le notti saltando tra i tetti, lui che avrebbe potuto darle una vita normale, una famiglia normale.

Oppure si sarebbe dovuta opporre, avrebbe dovuto cercare di farlo ragionare; oh sì, avrebbe fatto così, l'avrebbe pregato, al diavolo il suo orgoglio, lui non poteva allontanarla, lei era niente senza di lui, la sua vita non aveva alcun senso senza le sue mani verdi sulla pelle, senza i suoi baci caldi ad accarezzargli l'anima. Si sarebbe buttata ai suoi piedi, l'avrebbe implorato di non cacciarla via, gli avrebbe promesso che sarebbero stati attenti, che nessuno si sarebbe mai accorto di nulla, che lei era disposta ad accontentarsi per tutta la vita anche delle briciole, di pezzi d'amore rubati dietro le pareti e le porte chiuse, dietro bugie e sotterfugi.

Sì sì, lei doveva fare qualcosa, doveva mettere ordine in quell'accozzaglia di sentimenti che turbinavano nella sua mente, che le stavano facendo scoppiare il cuore. Tra questi, una rabbia sorda e pulsante iniziava a prevaricare sugli altri, aveva appena messo da parte il turbamento, e la paura, e si stava facendo largo con le unghie, fino ad arrivare alla sua gola, per rendere un ringhio il suo respiro.

Era balzata in piedi, gli si era avvicinata, l'aveva guardato diritto negli occhi, quei due mari nocciola e ramati, stupendi, troppo grandi per essere umani, troppo belli per essere quelli di un rettile, un regalo della natura nei suoi giochi bizzarri e crudeli.

"Finiscila!" La sua voce era stata un sibilo. "FINISCILA IDIOTA!" Adesso un urlo rabbioso. "FINISCILA! Ma chi ti credi di essere? Non è una decisione che spetta solo a te! La vita è mia, MIA!"

L'aveva colpito, con uno schiaffo.

Lui l'aveva incassato, immobile, continuando a guardarla.

"Se mi vuoi cacciare, cacciami, ma perché TU non mi vuoi! Non osare prendere tu le decisioni per la mia vita! Sono una donna, non una bambina, decido io per me stessa! Non me ne frega un cazzo se sei un mutante, un ninja, una fottuta tartaruga con il guscio! Io ti amo, Donnie! TI AMO!"

Era scoppiata in singhiozzi, aveva iniziato a colpirlo sulle spalle, prima forte, gli aveva fatto male, poi via via più piano, i pugni erano diventati carezze, l'aveva abbracciato, voleva che lui restasse lì, improvvisamente terrorizzata al pensiero che lui scappasse, che la lasciasse sola.

Lui era rimasto immobile per un po', stava combattendo nel suo cuore la battaglia più dura di tutte, una di quelle che faceva sembrare una sciocchezza gli scontri con le lame dei ninja del Piede. Una battaglia che stava perdendo, e la sconfitta era dolce come il miele, la debolezza era un assaggio di paradiso.

Mentre già malediceva sé stesso, e si disprezzava per essere così vigliacco, così pusillanime, per essersi fatto battere così facilmente, le sua braccia avevano iniziato a stringerla stretta, la sua bocca era scesa sulla sua fronte, poi a cercare i suoi occhi, per bere le sue lacrime, salate, squisite; poi aveva trovato la sua bocca, tante volte scoperta in quei mesi, sempre con lo stesso timore reverenziale, sempre con la stessa sete insaziabile.

E si era stupito ancora una volta di quante fossero morbide e calde le sue labbra, del buon sapore della sua bocca, della deliziosa scossa della sua lingua. Aveva iniziato ad accarezzarla, sulle braccia, sulla schiena, voleva che fosse sua, solo sua, per sempre, voleva non averla mai fatta piangere, voleva che lei fosse al sicuro, con sé, tutta per sé, che al mondo ci fossero solo loro due, che l'universo non avesse nessun altro significato che il gusto della sua pelle.

Adesso la stava spingendo piano contro la scrivania, baciandole il collo; i singhiozzi di lei mutati in dolci gemiti, quando le assaporava con la lingua la pelle di latte, nell'ineffabile fossetta tra le clavicole, mentre le sue mani grandi e ruvide si insinuavano sotto la maglietta di lei diventando delicate e leggere, a sfiorare la pelle di seta del suo ventre, ad indagare sotto l'effimera barriera di stoffa del suo reggiseno, a cercare quei suoi seni sodi, perfetti, mentre un brivido già gli portava un calore lungo tutto il corpo, fin giù, a fare tremare le gambe, a far fremere la pelle delicata nella parte bassa del suo piastrone, dove la parte nascosta di sé già rivendicava la sua eccitazione.

Ancora una volta i due corpi erano divenuti uno, persi nel turbine di una passione pura e giovane, sempre con la stessa frenesia di cogliere un frutto proibito, con la lieve ansia delle cose nascoste, con il delizioso timore che i fratelli potessero tornare, che la porta potesse aprirsi da un momento all'altro, che li potessero scoprire.

Ma in quei momenti, tutto era di secondaria importanza. In quel frangente, per lui esisteva solo lei, il suo amore. La sua vita.