1298 DR: la comparsa dello Spirito Agrifoglio, ovvero Quando pensavo di aver perso un amico, ma gli amici restano sempre con noi

La cerimonia era stata molto toccante. I volti degli elfi intorno a me erano solenni e austeri nel dare l'ultimo commiato ai loro cari.
Queste persone non erano il mio clan, ma eravamo accomunati da legami di parentela, dal naturale affetto che si forma grazie al tempo passato insieme, e ora anche dal sentimento cameratesco che nasce dall'aver combattuto fianco a fianco un'epica battaglia.
Alcune di queste persone avevano rischiato la vita per me ed io per loro, e sapevo poco più che i loro nomi. Tutti i clan della Penisola del Collo del Drago si erano uniti per combattere le orde degli orchi, in un luogo che pensavamo essere difendibile. Centinaia di elfi dei boschi erano presenti in quel giorno di lutto in cui seppellimmo i nostri morti.
I cadaveri degli orchi giacevano abbandonati nella foresta, sui sentieri, sulle strette mulattiere che si abbarbicavano fra le colline coperte di boschi della Penisola, incastrati fra le rocce, alcuni dimenticati nelle caverne sotterranee.
Le caverne sotterranee.
Il nostro popolo ama la luce del sole e il fruscio delle fronde, non eravamo a conoscenza delle caverne sotterranee che avrebbero permesso agli orchi e ai loro malefici alleati ogre e goblinoidi di sorprenderci alle spalle, sbucando dietro le fila del nostro frazionato esercito. Per fortuna avevamo con noi qualcuno in grado di pensare anche a quell'eventualità. Era andato da solo ad esplorare le caverne, trovando il punto debole dell'esercito nemico: una strettoia, dove solo pochi orchi affiancati sarebbero riusciti a passare, e di certo un solo ogre. C'erano altre caverne, ma troppo pericolanti o troppo strette, o che giravano indietro troppe volte rallentando eccessivamente la marcia dei nemici, quindi quella via era stata scelta, e quella via avrebbe condotto gli invasori alle nostre spalle.
Tutto molto bello, ma quella scoperta era arrivata troppo tardi. Troppo tardi perché il mio amico potesse tornare da noi a dare l'allarme. Se avesse abbandonato la posizione, gli orchi avrebbero superato quella preziosa strettoia difendibile dilagando nelle larghe caverne e nei tunnel labirintici che si estendevano sotto la Penisola come capillari. E così, mentre noi combattevamo in superficie, difendendo le valli, i passi, le strade, un singolo elfo difendeva le gallerie contro quasi un quarto dell'esercito nemico.
Non sapevo dove fosse andato. Ero impegnato a combattere vicino al letto di un torrente quando lui aveva avuto l'idea di cercare una via sotterranea, e già allora ci eravamo separati ore prima. La battaglia durò quasi mezza giornata. Quando finalmente quel carnaio ebbe termine, non sapevo da dove iniziare a cercare e le tracce erano confuse dal passaggio di migliaia di piedi, ovunque nei boschi. Come distinguere le sue leggere tracce da quelle di qualsiasi altro elfo?
Per quanto la cosa mi addolorasse, non avevo dubbi che fosse morto. Sarebbe tornato, altrimenti. Delle semplici ferite non l'avrebbero fermato, lui era sempre stato categorico e privo di mezze misure: se era vivo, si sarebbe fatto vivo. In caso contrario...

Finimmo di sotterrare i corpi tre giorni dopo. Avevamo avuto relativamente poche perdite, per la battaglia che era stata. Nel frattempo avevo esplorato le gallerie nella zona sbagliata. Stavo per rinunciare (per quel giorno) e tornare in superficie, quando da una fenditura nella roccia mi arrivò una zaffata di odore vomitevole. Sangue, putrefazione: l'odore della morte. Quella fenditura era troppo stretta perché potessi passarci e le gallerie che riuscii a trovare non mi condussero a nulla. Tornai in superficie e cercai di orientarmi, per capire dove poteva essere la caverna di cui sospettavo l'esistenza.
Ci misi quasi un'altra giornata intera, ma alla fine la trovai.
Era il luogo di un massacro. Una pila di corpi di orchi e goblin ostruiva quasi del tutto la galleria, alcuni di essi sembravano essere stati calpestati, forse dai loro stessi compagni che cercavano di scavalcare la montagna di cadaveri e proseguire nella loro folle battaglia. Era chiaro che per quanti nemici fossero entrati in questa caverna, non tutti dovevano essere morti qui: quando il mucchio di cadaveri era diventato un ostacolo insormontabile, il resto della truppa doveva aver voltato le spalle per tornare all'aperto, rinunciando a questa strategia.

Lo trovai sotto il cadavere di un orco particolarmente grosso, forse un ogrillon.
Forse avete già sentito il modo di dire "è un lavoro sporco, ma qualcuno deve farlo", ma non credo che lo possiate comprendere se non avete spostato a mani nude una mezza dozzina di cadaveri vecchi di quattro giorni per recuperare il corpo, ugualmente fraido, di un caro amico. Era a stento riconoscibile e aveva diverse ferite, molte delle quali mortali, nonostante sapessi bene che il suo stile di combattimento lo rendeva un maestro nell'evitare i colpi. Solo la sete di battaglia poteva averlo spinto ad attaccare con abbandono, senza pensare alla propria protezione. Quella, oppure la rassegnazione. Tutto questo però non spiegava come avesse potuto continuare a combattere con ferite del genere e con quella che sembrava una gamba rotta. Pensai a questo e ad altre cose, mentre avvolgevo il suo corpo nel suo mantello e mi davo da fare per riportarlo fuori. Avevo bisogno di tenere la mente occupata per non cedere all'orrore e alla tristezza per quello che stavo facendo.

La prima volta che lo avevo visto, risvegliandomi confuso ai margini di una strada sterrata dopo una battaglia quasi mezzo secolo prima, stava seppellendo i miei compagni di viaggio. Non li conosceva, ma li stava seppellendo perché perfino qualcuno del tutto digiuno dei nostri usi e costumi aveva capito che era poco rispettoso lasciare dei corpi agli animali divoratori di carogne. Stava seppellendo i miei compagni, e anche i briganti che ci avevano attaccati, perché non vedeva differenza fra due schieramenti che non conosceva e i cui componenti erano quasi tutti morti. All'epoca non sapeva nulla, non era in grado di dire chi fosse nella ragione e chi nel torto, e forse era troppo disgustato da concetti come "ragione" e "torto" per curarsene davvero.
Io, al contrario, sono cresciuto sapendo bene chi sono i buoni e chi sono i malvagi, cosa meritano i difensori e cosa gli invasori, e fui lieto di lasciarmi alle spalle i cadaveri maleodoranti degli orchi; che i vermi se li prendessero pure.
Lui era un altro discorso. Volevo dargli una degna sepoltura, come prevedeva la comune decenza e come prevedevano le nostre tradizioni funebri, soprattutto per quanto riguarda i Ruathar.
Qualcuno ebbe il coraggio di opporsi. Elfi delle propaggini occidentali della Penisola, esponenti di clan isolati e isolazionisti, guardarono con sospetto quello che stavo facendo e qualcuno osò perfino aprire bocca. Glie l'avrei chiusa con un pugno se non li avessero zittiti subito i miei parenti, il clan con cui avevamo passato molte liete settimane negli ultimi anni. Altri elfi di clan vicini al nostro difesero il mio diritto di seppellire il mio amico insieme ai nostri morti. Alcuni di loro mi aiutarono nel mio compito.
Prima di ricoprire la fossa, appoggiai una ghianda sul corpo del mio amico, come voleva la tradizione, e quando la fossa fu ricoperta infissi la sua grande spada nel terreno.
Fu questione di attimi: un virgulto di quercia spuntò timidamente dal terreno e si eresse nei suoi pochi pollici di altezza accanto alla spada, bevendo la luce del sole. Quel piccolo miracolo mi dava ragione, e rendeva giustizia al cuore del mio amico: solo la tomba di un vero Ruathar avrebbe fatto crescere una quercia protettrice. Dopo questo, nessuno mosse più alcuna obiezione.

Il giorno successivo ci dedicammo a liberare i boschi e le strade dalla sgradevole presenza dei cadaveri di orchi. Era ormai calata la sera, ero andato al ruscello a lavarmi di dosso la polvere e lo schifo, e decisi di portare un po' d'acqua alla quercia per innaffiarla. Forse non ce n'era bisogno, si dice che questi alberi siano magici, ma volevo fare qualcosa, un gesto di gentilezza o di cura verso quello che mi restava del mio amico. Trovai la spada piantata nel terreno, ma il giovane virgulto che il giorno prima era alto meno di una spanna, oggi era già alto quasi quanto me. Il tronco era sottile e giovane, ma forte e rigoglioso. Stavo per commuovermi e volevo dire qualcosa di significativo, lo volevo davvero, qualcosa che fosse poetico e solenne, ma una voce alle mie spalle mi batté sul tempo:

"Ecco cosa resta di un'intera vita: un albero. Una cosa su cui i cani potranno pisciare."

Dette da chiunque altro, quelle parole mi avrebbero fatto indignare, ma conoscevo quella voce. Al diavolo, solo lui avrebbe potuto dire una cosa del genere.
Tremante per l'emozione, timoroso di quello che avrei potuto trovare, mi voltai.
Lui era lì.
Ed era un fantasma.
E io ero un ranger educato a rispettare la natura e a combattere le cose innaturali, ma all'improvviso non me ne importava niente.

Lasciammo il clan quella notte stessa, diretti a sud, verso i confini meridionali della foresta.
"Come hai fatto?" gli chiesi ad un certo punto, rompendo il silenzio. "Ho visto in che stato era il tuo corpo, quindi... come hai fatto?"
"Cosa, a riapparire in perfetta forma? Ho imparato a controllare il mio aspetto prima di mostrarmi a te."
"No, intendo, a combattere. Da una breve analisi mi sembrava che fossi troppo malmesso, forse morente, ma non ti sei fermato fino a quando non si sono fermati loro."
Si passò una mano dietro alla testa, a disagio. "Non l'ho fatto io."
Lo guardai senza capire. Poi, lentamente, ci arrivai. "Lei ti ha posseduto?"
"Io glie l'ho chiesto."
"Ma mi hai sempre detto che è molto pericoloso, che se non metti fine alla cosa entro breve tempo tutta la tua energia vitale viene consumata e..."
"E cosa? Cosa poteva farmi una possessione che un'orda di orchi non potesse fare? Sarei morto comunque, ne ho portati nella tomba qualche decina e poi ho visto che non avevo altra scelta se non chiedere a lei di usare il mio corpo come un burattino e finire il lavoro."
Sospirai. Non mi piaceva, ma non potevo confutare quella logica. Poi lasciai che un sorriso si allargasse sul mio volto. Avevo di nuovo il mio insopportabile amico, non c'era motivo per covare rimpianti.
"E quindi, quanti ne hai uccisi?"
"Ma di cosa parli?"
"Andiamo, non ci credo che tu non li abbia contati. Quanti?"
"Oh, per favore! E' una cosa così infantile!"
"Quindi li hai contati."
"Falla finita!"

In lontananza cominciava a intravedersi il riflesso della luna sul mare. Mancavano ancora alcuni giorni di marcia ai confini della foresta e solo la nostra posizione sopraelevata ci permetteva di vedere già la nostra meta, ma entrambi sapevamo di avere ancora molta strada davanti a noi.