" Go away" ( T. Lisbon)

Ci sono cascata. Di nuovo. Come un'idiota. Altro che scaltra agente dell'FBI tutta d'un pezzo. Quando si tratta di lui, mi trasformo in un burattino. E' sempre stato così. Come in quel giorno lontanissimo, quando mi aveva portato davanti a un tramonto mozzafiato e mi aveva detto tutte quelle cose carine, solo per rubarmi il cellulare e liberarsi di me. Sembrava sincero, dopotutto sapevo che, a suo modo, teneva a me. E invece mi aveva abbandonato lì, per la strada, come una cosa vecchia. Aveva detto di avere una sorpresa per me. E io chissà cosa mi ero immaginata. Mi aveva ingannato, si era preso gioco dei miei sentimenti. Quali sentimenti, non avrei saputo dirlo neanche io. Quella volta lo avevo perdonato. Voleva andare a smascherare John il Rosso e sapeva che io, nonostante gli avessi dichiarato il contrario per essere coinvolta, non glielo avrei lasciato uccidere. Perché, a punirlo, ci avrebbe pensato la legge. Perché non avrei mai permesso a Patrick Jane di rovinarsi la vita. Sono sempre stata un libro aperto per lui, me l'aveva detto un milione di volte. Era in gioco la sua missione, non lo potevo certo biasimare. E sapevo che, in cuor suo, voleva anche proteggermi. Ma non mi ero mai sentita così stupida.
L'ha fatto di nuovo. Ma questa volta la situazione è molto diversa. Aveva scritto una lettera anonima per riaprire un vecchio caso solo per impedirmi di partire. Aveva riportato in superficie il dolore altrui solo perché temeva gli mancasse la terra sotto i piedi. Io sono il suo punto fermo, lo so. Per andare avanti, lui ha bisogno di stabilità e routine. Lavorare con me è la sua routine. Nient'altro. Immaginavo che avrebbe preso male la mia partenza. Per questo era stato l'ultimo a saperlo. In realtà avevo provato a diglielo: un giorno mi ero seduta sul divano vicino a lui, ma, in quel momento, mi sentivo così confusa che, forse, avrei potuto rivelargli cose di cui mi sarei subito pentita; cose a cui non ero, e non sono, capace di dare un nome; cose che non saprò mai, perché, per fortuna, lo squillo del telefono ci aveva interrotti. Avevo cercato di avvisarlo della mia decisione anche la sera in cui Pike mi aveva chiesto di sposarlo: ero tornata in ufficio apposta, ma non ci ero riuscita. Alla fine, l'aveva saputo da altri. Mi ero perfino sentita in colpa. Ma in colpa per cosa? Perché mi stavo costruendo una vita? Mi aveva detto di essersi un po' offeso perché era stato l'ultimo a saperlo. Io gli avevo risposto che era difficile per me dirgli una cosa del genere, dopo tutti questi anni in cui abbiamo lavorato insieme. Volevo convincere lui e me stessa che era solo quello il motivo. Allora lui mi aveva chiesto di restare, di non rompere la squadra. E, per squadra, intendeva me e lui. E la nostra amicizia. Ero rimasta interdetta. Forse non mi aspettavo una frase così diretta. Ma lui, da buon mentalista, se l'era subito rimangiata, scherzandoci su. Per un attimo, non so perché, ero rimasta delusa. Poi avevo tirato un sospiro di sollievo. Tutto a posto, in fin dei conti. Lo immaginavo che la mia assenza lo avrebbe destabilizzato. Era come un bambino a cui stavano sottraendo il suo giocattolo preferito. Ma, come tutti i bambini, dopo qualche minuto avrebbe trovato un giocattolo nuovo ancora più divertente. Questa eventualità non mi faceva piacere, ma gliel'auguravo con tutto il cuore. Avevo previsto che si sarebbe dato da fare per convincermi a rimanere, a suon di battutine su matrimonio e trasferimenti. Avevo previsto che sarebbe stato più gentile del solito. Manipolare la mente è la sua specialità. Quello che non avevo previsto era che il suo egoismo si spingesse così in là. Non gli importava di sfruttare una tragedia altrui. Non gli importava di lasciar riposare in pace una povera donna. Non gli importava nemmeno la mia felicità. Nonostante avesse ripetuto in lungo e in largo il contrario. Come quella sera, quando aveva suonato alla mia porta e mi aveva assicurato che lui sarebbe stato felice per me, qualunque decisione avessi preso. Aveva la voce rotta e gli occhi rossi. Mi aveva fatto male vederlo così. Ero stupita, non mi aspettavo una reazione simile da lui. Quando se n'era andato, non ero riuscita a trattenere le lacrime. Non mi aspettavo nemmeno una reazione simile da me. Le avevo asciugate in fretta ed ero tornata in casa. Dal mio fidanzato. Dall'uomo con cui stavo per iniziare una nuova vita. Non ne capivo il motivo, ma, per tutta la sera non ero riuscita a smettere di pensare agli occhi tristi del mio partner. Avrei desiderato che mi dicesse qualcos'altro, ma neanch'io avrei saputo dire cosa. Parlava di felicità. Ma io ero davvero felice con Marcus? Sarei stata felice a Washington con lui? Probabilmente era proprio questo che Jane voleva: instillare il dubbio nella mia mente. Eppure sembrava sincero e disperato. Non l'avevo mai visto in quelle condizioni. Nemmeno nei momenti peggiori, che erano proprio quelli in cui indossava la sua maschera preferita. Di indifferenza. Di sarcasmo. Di leggerezza. Ma io avevo imparato da molti anni a intravedere la profondità di quello che cercava di nascondere, anche a se stesso. Ormai conosco la sua anima tormentata e i suoi tentativi di camuffarla con un sorriso. Mi rendo conto perfettamente quando un suo sorriso è falso. Mi chiedo come facciano gli altri a non accorgersene. Riesce sempre a ingannare tutti. Ma io capisco quando finge di sorridere solo perché non vuole piangere. Riconosco anche i suoi sorrisi veri, così belli e così rari. Gli partono dagli occhi, più blu del solito e circondati da piccole rughette. Come quando ci siamo ritrovati dopo i suoi due anni di esilio. Era felice. Anch'io lo ero. Anche se, probabilmente, sarebbe stato meglio che fosse rimasto sulla sua isoletta paradisiaca. O come oggi, quando avevo creduto di aver decifrato il codice della lettera. Illusa. Anche quello era stato un inganno. Ma il suo sorriso sembrava sincero. Probabilmente lo era: chissà come si era divertito a organizzare tutta questa messinscena. L'ultimo suo sorriso che ricordo è quello di pochi minuti fa, quando sono scesa indossando quel fantastico vestito rosa. Mi sentivo allegra, sexy e sicura di me. E' in quel momento che, sulla faccia di Jane che mi aspettava seduto al tavolo, ho intravisto quell'espressione. Era uno dei suoi sorrisi sinceri, ne ero sicura. Ma era strano, diverso da tutti quelli che gli avevo visto. Gli illuminava il viso, sembrava sorpreso e felice, ma i suoi occhi sembravano dire qualcos'altro che non ero riuscita a decifrare. Basta, non voglio pensare ai sorrisi di Jane. Probabilmente non rivedrò più né lui né i suoi sorrisi. E non me ne importa nulla.
Ora sono nella mia camera, ho appena raccolto le mie cose. Voglio andarmene al più presto da questo posto e prendere quell'aereo che avrei già dovuto prendere. Ovviamente lascio qui i tre vestiti che mi sono trovata in camera. Non li voglio con me, non sarebbe giusto e mi ricorderebbero una menzogna. Eppure sono così belli. Uno di pizzo verde, il più adatto a me. Uno corto e bianchissimo. Uno rosa acceso, lungo fino ai piedi. Avevo scelto proprio l'ultimo, il meno adatto alla Teresa Lisbon che tutti conoscono. Per un attimo mi ero sentita una persona diversa. Avevo sognato l'impossibile. Prima la passeggiata sulla spiaggia, io che mi dimostro più intelligente della persona più intelligente che conosco, poi quell'albergo lussuoso, i regali e la sua voce che per telefono sembrava così dolce. Un uomo affascinante che mi viziava e mi faceva sentire bella e desiderabile. Sembrava una favola. Tutto qui. Ma era davvero tutto qui? Non lo so e non lo voglio sapere. Non importa più, ormai. La favola è durata poco. Ma, d'altronde, Jane non è il principe azzurro, e io non sono una principessa ingenua e delicata. Al massimo, una principessa arrabbiata, come mi aveva detto proprio lui secoli fa. D'altronde, non ho mai creduto alle favole.
Per fortuna la signorina alla reception dell'albergo mi ha aperto gli occhi. Le avevo chiesto un accappatoio per Jane, definendolo il mio fidanzato, non so nemmeno io perché: forse per semplificare la spiegazione, forse perché, nella favola in cui ero stata catapultata mio malgrado, io non ero più io e lui non era più lui. Ma quella ragazza mi aveva rivelato che "il mio fidanzato" aveva prenotato le stanze una settimana fa. Ben due giorni prima che arrivasse la lettera; molto prima che potessimo prevedere di trovarci in questo posto. Incredibile. L'aveva fatta davvero grossa, stavolta. Che stupida a non averlo capito prima. Era proprio uno dei suoi tipici giochetti. E io non me ne ero accorta, ubriacata da doni e gentilezze che non avevo mai ricevuto. Proprio io che mi davo arie di neo-mentalista.
Dopo aver ricevuto la lieta novella, mi ero catapultata al tavolo dove era seduto Jane, pronta ad azzannarlo alla gola. Immagino che non ci volesse un sensitivo per intuire dalla mia espressione che era successo qualcosa. Capendo che il suo piano era fallito, il farabutto aveva confessato subito. Con leggerezza e un po' di sfacciato imbarazzo. Come un bambino che dichiara di aver rubato la marmellata. Ma lui non è un bambino e io sono stufa di doverlo considerare tale. Non sono mai stata così arrabbiata. Avrei voluto ucciderlo con le mie mani ma, essendo arrivati anche Cho e Abbot, mi sono limitata a insultarlo e a lanciargli addosso dell'acqua. E' stata una reazione istintiva, non sono riuscita a controllarmi. Poi sono fuggita, con gli occhi che mi bruciavano di rabbia e, forse, di delusione; mi sono rintanata nella mia stanza, così bella e finta. Ho chiamato immediatamente un taxi. Devo scappare da qui il più presto possibile.
Qualcuno bussa alla porta. E' lui. Lo so ancora prima di sentire la sua voce rotta che mi chiede scusa. Ma non bastano le scuse. Non stavolta. Dice che l'ha fatto perché non voleva che me ne andassi. Forse, un tempo ci avrei riso su e mi avrebbe fatto quasi piacere che avesse fatto tutto questo per me. Ma non ora; sono fuori di me, gli sbrodolo addosso tutta la mia rabbia e la mia frustrazione. Gli intimo di andarsene. Lo accuso di aver disseppellito una donna per i suoi comodi. Gli rinfaccio che io per lui rappresento solo una comodità. Lui non nega. Lo so che è così. Dopo i suoi due anni trascorsi su un'isola lontana dalla civiltà, gli era venuta voglia di tornare alla sua vecchia vita. E la sua vecchia vita presupponeva la mia presenza. Mi aveva voluta per lavorare al suo fianco. Mi aveva posto come condizione assoluta per la sua collaborazione con l'FBI. Insieme al suo divano. E pensare che, per un attimo, mi ero sentita lusingata. Anch'io ero felice di rivederlo e di tornare a lavorare con lui, anche se non l'avrei ammesso neanche sotto tortura. E invece, per lui, non ero che un'abitudine. Come il suo divano. Passato il primo momento di euforia, lo avevo accusato di non aver mai pensato ai miei desideri. Era sparito per due anni, poi ritornava e pretendeva che tornasse tutto come prima. Anzi, pretendeva che non fosse cambiato niente. E, in effetti, non era cambiato proprio niente. E' vero, io avevo cambiato lavoro e lui aveva compiuto la sua vendetta, ma dovevo ammettere che la nostra complicità era sempre la stessa. Sui casi funzionavamo al meglio, continuavamo a essere due partner affiatati. Come se non avessimo mai smesso di esserlo. Ma anche lui, quella volta, aveva ammesso di non aver mai pensato a quello che volevo io. Mi aveva semplicemente dato per scontata. Non mi aveva fatto piacere sentirglielo dire. Ma era stato sincero, così non ci pensai più. Una sera, a cena insieme per un recente caso, mi aveva detto di essere prevedibile. Bel complimento, avevo pensato. Proprio quello che una donna vuole sentirsi dire, gli avevo detto. E lui, con un'espressione indecifrabile sul viso, mi aveva chiesto cosa vuole sentirsi dire una donna. Io non avevo saputo rispondere. C'era un'atmosfera strana tra noi, quella sera: per un attimo avevo pensato che intendesse davvero farmi un complimento. Probabilmente, invece, era stata l'ennesima conferma: per lui non sono altro che una specie di coperta di Linus. Buona, rassicurante e monotona. Ma io non voglio essere così.
Ora è qui, appoggiato sulla mia porta. Non ho intenzione di aprirgli. Ha la voce rotta. Sembra un bambino che non capisce la gravità della sua ultima marachella; un bambino abituato a essere sempre perdonato. Ma adesso basta. Gli urlo ancora di andarsene. Lui non lo fa. Non parla più, ma so che è ancora dietro la porta. Sento il suo respiro pesante. So che è triste sul serio. Anch'io lo sono. Ma, più che altro, sono arrabbiata. Per fortuna, però, non lo posso vedere in faccia, perché, probabilmente, non avrei il coraggio di mandarlo via un'ultima volta. Quando sfodera lo sguardo da cucciolo, è dura negargli qualcosa. Questa volta, però, ubbidisce. Forse ha capito di averla combinata grossa. Sento i suoi passi. Lenti. Sempre più lontani. Sento la porta della sua stanza sbattere. Un suono sordo e irrevocabile. Poi non sento più nulla. Finalmente, era ora. E allora perché le mie lacrime stanno scendendo copiose sul viso? E' sicuramente la rabbia. Ma perché sono così arrabbiata? Jane ne ha fatte di peggio nella decina d'anni in cui abbiamo lavorato fianco a fianco. Molto peggio. Ricordo di aver provato una rabbia simile quando, tanto tempo fa, era sparito senza lasciare una traccia, rispondere alle telefonate o mandare un messaggio per dire che era vivo. Era tutta una messinscena per agganciare John il Rosso, ma io non lo sapevo. Mi aveva tenuto all'oscuro del suo piano. Come sempre. E io mi ero preoccupata per lui come un'idiota. Poi era tornato e l'avevo perdonato. Mi aveva ripetuto fino allo sfinimento che mi dovevo fidare di lui. E io lo facevo. Ciecamente. Gli ero andata dietro in tutte le sue follie, che, fin troppo spesso, si rivelavano giuste intuizioni. Una volta mi aveva detto che mi diceva solo il 30 % delle cose. Mi aveva fatto male, ma l'avevo perdonato ancora. Spesso lo faceva perché tenermi fuori dai suoi piani al limite dell'illecito era più comodo, a volte lo faceva per il mio bene. Aveva combinato molti guai, ma ne eravamo sempre usciti più uniti di prima. Caso dopo caso, eravamo diventati buoni amici e buoni partner. Milioni di volte ci siamo coperti a vicenda. Io ho sempre cercato di capire la sua sete di vendetta e, pur non potendo approvarla, l'accettavo e aiutavo il mio consulente a incanalarla in qualcosa di costruttivo; nel rispetto del mio ruolo di poliziotto, ma non sempre. Ho mentito per lui e, probabilmente, se non avessi deciso di trasferirmi, l'avrei fatto ancora. Spesso ho buttato all'aria i miei principi morali e quell' onestà di cui ero così orgogliosa, mettendo in pericolo la mia carriera. Come quando ero arrivata a ricattare il buon vecchio Bosco per far liberare Jane, finito in prigione per averne combinato una delle sue. Mi ero giustificata dicendo che Jane chiudeva i casi e che era importante per noi averlo in squadra. So che Bosco non mi aveva creduto; ma io non mi ero posta altre scomode domande. Devo ammettere che Jane, dal canto suo, non si è mai tirato indietro quando si trattava di aiutarmi. Non aveva esitato a sparare a un uomo che voleva uccidermi, pur essendo, quest'ultimo, l'unica persona in grado di dargli qualche indizio utile su John il Rosso. Era al mio fianco nella mia personale battaglia contro Volker; per una volta, ci eravamo scambiati i ruoli, e io ero avevo capito come ci si sente nella parte della vendicatrice. O come quella volta in cui si era rintanato nel bullpen a meditare, ma era accorso immediatamente al mio fianco quando gli avevo detto che avevo bisogno di lui. Era quello il bello di Jane. Ha quasi sempre governato i fili che mi muovevano e il più delle volte mi innervosiva, ma, sotto sotto, mi andava bene così. Avevo trovato un equilibrio. In attesa di qualcosa di indefinito che non sarebbe mai venuto. Cosa c'era stavolta di diverso? C'era che avevo incontrato un uomo che sa quello che vuole e che non inganna il prossimo per ottenerlo. C'era che avevo capito di dover voltare pagina: ne andava della mia dignità. C'era che non volevo più essere condizionata da Jane; da uno che ha dimenticato come si comporta un normale essere umano. Gli ho detto una cosa simile, poco fa. Forse sono stata dura. Ma se lo meritava.
Dalla stanza adiacente alla mia rimbombava il silenzio. Origliai per un attimo. Una piccola parte di me voleva bussare alla sua porta e dirgli che tutto andava bene. Come avevo sempre fatto. Ci saremmo guardati negli occhi e non saremmo riusciti a fare a meno di sorridere. Ma non stavolta. Il telefono della mia camera squilla, per un attimo temo, o spero, che sia lui. Invece è la reception che mi avvisa che il taxi è arrivato.