Era preoccupata. Erano trascorsi molti giorni da quando Melinda si era fatta sentire l'ultima volta. Gli accordi, infatti, prevedevano il mantenere informata la squadra sulle condizioni di salute di Coulson. A sua insaputa, ovviamente, in quanto lui non voleva essere fonte di ulteriore preoccupazione per nessuno.
I suoi passi si susseguivano veloci. Il rumore che provocavano gli stivaletti a contatto con il pavimento riecheggiava per l'ampio corridoio del Faro. Si trovava a poca distanza dal suo alloggio quando il suo cellulare emise un breve e acuto suono. Lo sbloccò e guardò il display: Melinda May, il messaggio era il suo.
Chiamami recitava solamente il testo.
Una strana sensazione le inondò il petto. C'era qualcosa di strano e Daisy iniziò a temere il peggio.
Rapidamente raggiunse la propria camera, chiudendovicisi dentro. Era ancora in apnea. Nemmeno un flebile respiro era fuoriuscito dalle sue labbra.
Solo uno squillo prima che, all'altro capo del telefono, venisse accettata la chiamata.
«Daisy…»
No. No. Non le avrebbe permesso di dirglielo.
La voce di Melinda aveva la pretesa di sembrare ferma, calma, normale.
Eppure la ragazza vi scorse chiaramente paura e smarrimento, evidentemente malcelati; nonché un profondo dolore.
Lasciò intercorrere del silenzio tra loro. Tentando il più possibile di rimandare il momento.
«May… no» avvertì le lacrime annegarle gli occhi.
«Daisy…» ripetè, lentamente.
«No, non dirlo. Non voglio sentirlo» scosse la testa nel frattempo.
«Coulson» iniziò, e la voce le tremò.
«No» lentamente si sedette sul bordo del letto.
«Lui è…» non riusciva nemmeno a darle la notizia.
«Ti prego» si limitò ad un sussurro.
«Lui è morto» provò a mantenere l'autocontrollo, nonostante il cuore le si stesse spezzando al solo pronunciare quella parola e il respiro le venisse meno. Non era infatti riuscita a trovare un modo meno doloroso per dirlo.
Dirlo ad alta voce la spaventava. Rendeva tutto ancora più reale; nonostante Coulson giacesse immobile, ella poteva ancora illudersi che stesse riposando, e in un certo senso, era così.
Le emozioni sovrastarono la Johnson come una violenta ondata.
Lunghi, interminabili istanti di silenzio vennero interrotti dai singhiozzi dell'Inumana.
Le lacrime rigavano silenziose anche le guance di Melinda.
«Avvisa tu la squadra, io… - sospirò - ce la fai?» le chiese evidentemente distrutta, ma ugualmente premurosa nei confronti della ragazza. Era chiaro che non volesse caricarla di troppo peso. Comprendeva infatti la portata di ciò che le stava chiedendo di fare.
«Sì, non preoccuparti. Me ne occupo io. Stai tranquilla, pensa solamente a tornare il prima possibile» rispose a seguito di un primo tentativo di tranquillizzarsi. La voce grave.
Sapeva quanto sarebbe stato doloroso informare gli altri; ciononostante, era consapevole di quello che avrebbe comportato per May. Non poteva relegare il peso di tale compito sulle sue sole spalle. Sicuramente effettuare quella chiamata l'aveva provata abbastanza.
La comunicazione venne interrotta. La stanza ripiombò nel silenzio.
Tuttavia questa volta era diverso. Più pesante, opprimente, devastante. Le premeva sul petto come un macigno, impedendole quasi di respirare.
Settimane erano trascorse da quando lo Zephyr era atterrato sulla spiaggia bianca di Tahiti, lasciando la coppia composta da Coulson e Melinda ad osservare l'acqua cristallina fino al punto in cui lo sguardo arrivava a perdersi e il mare poteva fondersi con l'azzurro limpido del cielo.
Da quel momento un pensiero costante le aveva impegnato la mente, la preoccupazione di poter sentire la voce della specialista che la informava che l'uomo grazie al quale aveva ottenuto una vera famiglia li aveva lasciati l'aveva perseguitata.
A nulla le era servito il lavoro, tantomeno l'allenamento, per placare quel timore.
Ma ecco che il momento atteso con tanto orrore era arrivato, e il dolore che le stava causando era più intenso di quanto avesse mai potuto immaginare.
Per cinque anni, l'uomo era stato con lei come un padre. L'aveva protetta, si era assicurato che fosse al sicuro, sempre. Nonostante tutto. Nonostante i risvolti, tragici e a tratti inquietanti, che aveva preso la sua vita. Inoltre, non aveva esitato a riportarla indietro nel tempo, lontano dall'impero di Kasius. Aveva ignorato quindi il suo desiderio, scelta di cui gli sarebbe sempre stata grata.
E ora era morto. Si sentiva persa, smarrita, vuota. La prima persona a cui era riuscita ad associare il concetto di famiglia l'aveva abbandonata. Che cosa avrebbe fatto quindi? Sarebbe riuscita a reagire, ad andare avanti?
Si disse che sarebbe stata obbligata a farlo, il dovere le imponeva di non utilizzare energie utili per il combattimento, le impediva di avere il tempo di arrendersi e crollare.
Lacrime salate scesero copiose lungo il suo volto. Le bagnarono le guance, le labbra, arrivarono sino al mento, per poi cadere direttamente sulle sue ginocchia, macchiando di scuro la stoffa dei pantaloni.
Si lasciò andare ai singhiozzi stringendo il cellulare tra le mani. Il corpo sussultava ad intervalli irregolari, mentre tremava in preda alle forti emozioni, impedendole di respirare regolarmente.
Inspirava l'aria poco per volta, ma velocemente così come la buttava fuori.
Versò a lungo in questo stato. Non riusciva a trovare la forza di calmarsi. Aveva bisogno di dare sfogo a tutte le sue emozioni, in modo da non essere sopraffatta dal dolore nel momento in cui avrebbe parlato a tutti.
Abbassò il braccio. In mano il cellulare. La chiamata era terminata da ormai molti secondi, eppure, fino a quel momento, era rimasta immobile, come paralizzata.
Lo sguardo puntava in avanti, senza tuttavia mettere a fuoco qualcosa. Era perso, come lei.
Non voleva voltarsi, sapeva che lo avrebbe trovato disteso, esanime.
Chiuse gli occhi. Le palpebre strette. Una coppia di lacrime uscì simultaneamente bagnandole entrambe le guance colorite dal Sole.
E se…
Magari non era vero, e girandosi l'avrebbe visto riposare addormentato. Il petto che si alzava e abbassava lentamente al ritmo cadenzato di ogni respiro. Il colorito roseo. La consapevolezza di avere ancora del tempo da condividere.
Eppure quella telefonata l'aveva fatta. Era riuscita a dirlo ad alta voce nonostante il dolore fisico che quella parola le provocava. Come poteva ancora illudersi di sperare? Come poteva comportarsi in quel modo che non le apparteneva? Riporre speranza anche quando ormai tutto è perduto? Cosa le stava accadendo?
Il dolore acceca - si disse - può rendere ingenui.
Il dolore ti fa credere di poter sperare e, subito dopo, sminuzza ancora più finemente i cocci in cui ti eri spezzata, portando in frantumi anche le ultime briciole di fede.
Il dolore cerca in ogni modo di fare di te un mucchio di polvere talmente impalpabile, invisibile, da rendere vano il tentativo di rimettere insieme i pezzi.
Prese fiato. Si fece forza.
Si voltò.
Era pallido in volto. Lo sguardo sereno, sì, ma rigido, immobile, statuario.
Il petto era fermo, non riusciva a gonfiarsi, non poteva. L'aria, infatti, non vi entrava più. Era come se un grosso macigno, posizionato sul suo petto, gli stesse impedendo ogni movimento con il suo ingente peso.
Si limitò ad osservarlo qualche breve istante da lontano, prima di avvicinarglisi.
Pochi passi, lenti, e già gli era accanto, alla sua destra. Nel mentre aveva posato il telefono sul tavolino.
Lo osservò con gli occhi annegati dalle lacrime.
Esitò a lungo prima di prendergli la mano non protesica, fredda, racchiudendola fra le sue, calde.
Era sempre stato il contrario, pensò, e pianse ancora.
Non sarebbe riuscita a scaldarlo, ad infondergli calore come lui aveva fatto con lei in passato.
Non c'era nulla che potesse tentare. Si sentiva impotente e, in effetti, lo era. Sensazione terribile che già aveva avuto la tragica occasione di sperimentare altre volte, ognuna in modo differente.
«Tremors? Stai bene?» la voce di Mack giunse fino all'interno della stanza. Si era infatti fermato fuori dalla porta dopo aver sentito quella che era stata la sua partner, cedere alle emozioni.
Non poteva essersi sbagliato, sicuramente stava piangendo.
L'ipotesi venne ulteriormente confermata una volta che la ragazza gli rispose.
«Mack?» chiese con voce rotta, nonostante il tentativo di nascondere il reale stato d'animo.
«Devi riunire la squadra nella sala comune»
Il tono grave fece intuire al direttore che qualcosa non andava e subito temette che si fosse avverato il timore di tutti.
«Certo… Ma sicura di stare bene?»
Nemmeno questa volta la domanda ottenne risposta. Infatti no, non era tutto a posto. Per niente.
Prima Fitz, poi Coulson. Due lutti verificatisi troppo vicini l'uno all'altro. Due persone troppo importanti perse a distanza di poche settimane. Un'unica famiglia distrutta.
A breve lo Zephyr sarebbe stato pronto. Daisy e Jemma, accompagnate da Davis e Piper, sarebbero partite per cercare il marito (anche se per lui ancora così non sarebbe stato) della biochimica, disperso da qualche parte nello spazio.
Almeno una vita sarebbe stata salvata. Si disse l'Inumana.
Provò a tornare a respirare normalmente, concentrandosi sul ritmo lento che doveva tornare ad ottenere.
Sembrò riuscirci un paio di volte, per poi essere nuovamente sovrastata dai singhiozzi.
Fece dunque un terzo, un quarto tentativo, fino a raggiungere il proprio scopo; nonostante alcune lacrime le scorressero ugualmente lungo il viso.
A quel punto si alzò lentamente, lasciando lo smartphone sopra al materasso coperto da lenzuola di colore chiaro, e fece il giro del letto.
La lettera di Coulson era ancora contenuta all'interno del comodino dal lato opposto della porta. L'involucro era intonso. Il nome della ragazza campeggiava sulla carta che il tempo iniziava ad ingiallire.
La prese tra le mani. La rigirò. La osservò con gli occhi carichi di dolore ed incredulità. Inspirò. Espirò lentamente. Dopodiché la ripose, allontanandosi e dirigendosi verso il corridoio. Non l'avrebbe aperta fino all'anno successivo.
Accanto alla propria vi erano le camere di May e una che sarebbe rimasta vuota, quella dell'ormai ex direttore.
Daisy esitò un momento prima di oltrepassarla.
Camminò stancamente, a piccoli passi. Pregando di non incontrare nessuno prima di giungere nella sala comune.
Inspirò profondamente, poi svolto a sinistra, trovando un gremito gruppo di persone ad attenderla.
Stavano parlando tra loro, alcuni le davano le davano le spalle, tuttavia, non appena la notarono, tutti si voltarono verso di lei.
Il brusio andrò scemando, fino ad acquietarsi; dopodiché calò improvvisamente il silenzio.
Qualche secondo più tardi Yo-Yo si fece avanti. Preoccupata. Le condizioni dell'amica le fecero temere il peggio.
«Daisy?» la chiamò con voce tremate, timorosa delle parole che sarebbero arrivate in risposta.
Il volto della ragazza ancora rigato, le tracce saline non si erano ancora asciugate completamente.
«Poco fa ha chiamato May»
Iniziarono tutti a capire.
«Coulson» altra breve pausa per prendere fiato e coraggio.
«Ci ha lasciati» affermò poi, tremante.
«Vuoi dire che è morto?» chiese in conferma una voce proveniente da qualcuno di indefinito, posizionato nel mezzo del gruppo.
«Sì» confermò con voce flebile ed insicura.
Jemma si mise una mano davanti alla bocca, mentre gli occhi iniziarono a riempirsi di lacrime, paio per paio.
L'umore generale subì un violento abbattimento. Erano in lutto nuovamente, ancora prima di superare il precedente.
Il direttore si avvicinò a Daisy.
«Melinda come sta? Dev'essere distrutta»
«Non mi ha detto nulla»
«E quando tornerà?»
«Nel giro di poche ore credo. Dovrebbe essere già decollato un Quinjet»
Mack annuì con sguardo basso.
La ragazza sospirò profondamente. Le braccia incrociate al petto.
Il velivolo era appena atterrato sulla piccola spiaggia privata, era deserta. Alle sue spalle era stata edificata, da poco più di due anni, la piccola casetta nella quale la coppia aveva deciso di trascorrere le ultime settimane.
I pochi agenti, che percorsero il breve tratto che li separava dall'abitazione, vennero subito colpiti dalla staticità dell'atmosfera. Il Sole era ancora alto, sebbene si apprestasse a cominciare il percorso che l'avrebbe presto ricongiunto all'oceano. Nemmeno il vento stava soffiando, e questo aveva placato le onde portando l'acqua ad un'insolita calma.
Si diressero verso la porta in legno, per poi accorgersi del diretto accesso garantito dalla piccola terrazza fornita di tre gradini, il primo dei quali a contatto con i granelli bianchi.
Li salirono uno alla volta, con calma, e subito la figura di lei, voltata di spalle, gli apparì dinnanzi.
Il legno scricchiolò sotto i loro passi. Melinda si voltò, li vide, dopodiché si girò nuovamente verso l'uomo di cui teneva stretta la mano - senza alcuna intenzione di lasciarla - asciugandosi le lacrime con quella libera. Infine tornò a rivolgersi ai colleghi.
«Agente May» avanzarono con fare esitante e voce insicura.
«Siamo venuti per-»
Lo interruppe notando l'oggetto che due dei ragazzi reggevano.
«Lo so, vi ho chiamati io» affermò con tono più brusco di quanto desiderasse.
I cinque la osservarono.
Lei stette in silenzio sotto i loro sguardi.
Dopodiché abbassò il volto e chiuse gli occhi scuotendo lentamente la testa. Le labbra strette.
«Scusate» disse soltanto, in un sospiro.
«Non si preoccupi» tentò di rassicurarla il più giovane.
Era scossa, molto, e questo giustificava il suo atteggiamento. Anzi, nessuno si sarebbe mai aspettato il contrario.
Melinda tornò a dar loro le spalle.
Gli agenti si scambiarono dunque qualche fugace occhiata per poi avvicinarsi alla specialista.
Uno di loro, in testa al gruppo, le appoggiò una mano sulla spalla.
Lei voltò leggermente il capo verso sinistra.
«Non vorrei farlo, ma devo chiederle di spostarsi»
Silenzio.
Annuì.
Ancora silenzio.
Rimase immobile.
Trascorsero interminabili momenti, in cui la donna sembrò riflettere, che culminarono nella decisione sofferta di lasciare quella mano che, nonostante tutto il tempo passato, era rimasta fredda, come se lei non l'avesse mai nemmeno sfiorata.
Così, non appena May iniziò ad indietreggiare, tre agenti avanzarono lentamente, prestando finalmente attenzione al corpo inerte dell'ex direttore. Le emozioni da trattenere furono molte anche per loro.
Notarono subito il vestito che l'uomo indossava, era elegante.
Una giaccia nera, così come i pantaloni e le scarpe, mostrava una camicia bianca a contrasto, mentre una cravatta bordeaux con inserti blu risaltava incorniciando il tutto.
Era da più di un anno che nessuno lo vedeva vestito in quel modo. Dopo tutto ciò che era accaduto… Il Framework, Aida, il viaggio nel futuro e tutto il resto.
Eppure lui aveva insistito con la donna nel portarseli dietro, i più belli che aveva.
Melinda pensava di averlo dissuaso prima di partire, tuttavia lui non aveva voluto sentire ragioni. Lo aveva scoperto solamente una settimana prima e, sul momento, ne era rimasta turbata.
«Così tutti mi ricorderanno per com'ero prima, quando stavo bene» aveva detto.
E alla vista dello sguardo di lei si era subito affrettato nel rassicurarla.
«Non sto chiedendo a te di farlo… ma a qualcuno di meno coinvolto, di esterno alla squadra»
Infine l'aveva abbracciata.
Erano però state necessarie alcune ore perché lei smettesse di pensarci.
Le era stato chiaro fin da subito che lui non volesse pesarle, causandole più dolore di quanto già non avrebbe provato - tuttavia, giunto il momento, vestirlo le era sembrata la cosa più naturale che potesse fare.
Gli agenti portarono in fretta a termine il loro compito. Si guardarono intorno.
Nessuna traccia della collega.
Il Sole iniziava pian piano a tingere il cielo di sfumature rosee e aranciate. Qualche nuvola si era formata, bassa all'orizzonte, i colori erano gli stessi.
Melinda, con piedi nell'acqua e la sabbia fina tra le dita, osservava con sguardo perso il panorama che le appariva dinnanzi.
La mano destra appoggiata sull'incavo del gomito opposto, il braccio sinistro piegato, le dita, strette in un pugno, a contatto con le labbra.
Una brezza leggera si era alzata, scompigliandole leggermente i capelli.
Rifletté.
Tutto sembrava deriderla. La bellezza del paesaggio, il cielo limpido, il Sole ridente, il canto melodioso degli uccelli.
Ogni cosa la scherniva. La vita esterna procedeva normalmente mentre lei stava lottando contro il senso di solitudine che la recente perdita le provocava e non riusciva a sopportarlo.
Non riusciva a sopportarne l'idea.
Avrebbe preferito un giorno di pioggia. Con il preludio di una tempesta magari. Forse avrebbe provato un po' di conforto. Forse, vedere il mare agitarsi in un tumultuoso e violento impeto le avrebbe tolto parte di quel dolore, di quell'afflizione che la stava corrodendo. Forse si sarebbe sentita meno sola vedendo le sue stesse emozioni espresse dalla natura, la stessa che fino al giorno precedente li aveva deliziati, cullandoli con il fruscio delle fronde.
«Agente May» un agente la chiamò con tono delicato, per non spaventarla.
Gli altri quattro, in lontananza, alle spalle dell'uomo, stavano trasportando il feretro all'interno del Quinjet. La specialista se ne rese conto solamente quando si fu girata.
Ella notò inoltre una sorta di concordanza tra i suoi precedenti pensieri e l'immagine che ora aveva davanti agli occhi. I vestiti scuri di coloro che li avrebbero potati a casa, il colore del Quinjet, risultavano fortemente contrastanti con le tinte chiare e tenui che l'isola offriva, quasi fuori luogo.
Un po' come lei, se rapportata alla natura.
«Siamo pronti per decollare»
Melinda lo guardò assente, vuota.
«Ha bisogno di prendersi ancora un momento?»
«No» sussurrò mantenendo la medesima posizione di poco prima.
«Allora mi può seguire?» proseguì gentilmente il collega.
Questa volta tutto il suo corpo si voltò e un primo passo la portò più vicino all'agente che, con tatto, accompagnò il movimento della donna appoggiandole una mano sulla schiena, in un gesto pieno di delicatezza.
Le braccia le ricaddero lungo i fianchi, pesanti.
Lentamente, come tutto ciò che era accaduto fino ad allora in quella giornata, i due si diressero verso il velivolo, fino a che il suono attutito della sabbia sotto ai piedi non venne sostituito da quello metallico del portellone ancora abbassato. Erano saliti a bordo.
Quando la squadra aveva lasciato lei e Coulson su quella spiaggia, la consapevolezza che la volta successiva in cui sarebbe salita su un Quinjet sarebbe stata con Phil inerte, l'aveva assalita.
Ebbene, quel momento era giunto con una rapidità tale, che ebbe la sensazione di esservi scesa solamente il giorno prima.
I motori rombarono, il velivolo tremò per qualche istante e infine si sollevò in volo verticale seguendo poi la rotta prestabilita.
«L'agente McMillan è appena decollato, ancora poco e saranno qui»
Mack si avvicinò al gruppo ancora sconvolto per la notizia ricevuta nelle ore precedenti. I volti di ognuno contriti per la sofferenza.
Jemma, tuttavia, sembrava essere la meno sorpresa per il tempismo con il quale era giunta l'informazione. Non che non stesse male, anzi. Le lacrime non riuscivano a trovare freno uscendo dai suoi occhi.
Era stata lei, infatti, ad informare Coulson riguardo i suoi ultimi giorni di vita. Certo, non avrebbe mai potuto sapere la data e il momento esatti, tuttavia i regolari aggiornamenti di May le erano stati utili per prepararsi. Ormai i sintomi erano sempre più gravi ed evidenti, non c'era motivo di sperare. Sperare di avere altro tempo.
«Cosa faremo quando arriveranno?» chiese Elena dopo essersi rifugiata accanto al corpo del direttore, in cerca di affetto e calore. Tra i due, tutto sembrava normale. Ancora nessun segno che lasciasse presagire una rottura all'interno del loro rapporto.
«Dovremmo occuparci di quanto più ci è possibile» iniziò Daisy.
«Non possiamo lasciare tutto sulle spalle di May» continuò.
C'erano infatti talmente tante cose da fare che forse sarebbe stato meglio organizzarsi per dividersi i compiti. E, per l'appunto, fecero proprio così.
La biochimica avrebbe controllato di persona le condizioni di Coulson.
L'ex hacker l'avrebbe successivamente vestito - nessuno sapeva che questo compito era già stato assolto dalla specialista asiatica; né che gli abiti eleganti fossero arrivati a Tahiti; e tanto meno che Phil avrebbe desiderato affidare tale responsabilità a qualcuno di esterno, in modo da arrecare meno sofferenza possibile all'ormai famiglia, desiderio di cui solamente Melinda era a conoscenza.
Yo-yo si sarebbe inizialmente occupata di May, dandosi poi il cambio con il resto della squadra, in modo da starle accanto e, infine, avrebbe aiutato Mack con l'organizzazione del funerale.
«E ora?» chiese qualcuno, forse Piper, la quale era appena tornata nella stanza, dopo essere uscita per prendere un po' d'aria; si era presa un momento per riprendersi.
«E ora aspettiamo che arrivi il Quinjet. Non possiamo fare nient'altro» concluse Jemma.
«Aspettare… aspettare e basta» era così frustrante.
Dunque si divisero. Provando ad occupare il tempo ognuno in un modo differente.
Mack continuò a lavorare sullo Zephyr, in modo da rendere possibile il viaggio nello spazio che avrebbero intrapreso Simmons e Johnson alla ricerca di Fitz.
La Rodriguez si recò invece in palestra insieme a Piper per scaricare la tensione e cercare una distrazione efficace, svuotando la mente.
Un suono lento, incerto, dal ritmo irregolare le annunciò una nuova presenza giunta alle sue spalle. Sicuramente un uomo, data la pesantezza di quei passi che, nel giro di pochi, brevi istanti, avevano subìto una battuta d'arresto. Si era fermato a distanza.
Attese qualche istante, aspettandosi che, da un momento all'altro, avrebbe udito la sua voce; ma lui se ne stava lì, immobile spettatore al suo dolore.
Si alzò dunque anche lei, asciugandosi l'ultima lacrima fuoriuscita dagli occhi scuri ormai arrossati e, senza apparente esitazione, si voltò verso quello che riconobbe immediatamente essere l'agente che l'aveva avvicinata sulla spiaggia.
«Qualche problema?» chiese con voce calma ma evidentemente affranta.
«No, no…» la osservò.
Gli occhi erano pesantemente gonfi e arrossati, lo si poteva notare anche a metri di distanza.
«Volevo soltanto sapere se aveva bisogno di qualcosa, agente May»
«No, solo di rimanere sola»
«Come vuole» rispose distogliendo lo sguardo da quello di lei solamente quando si fu voltato con passo incerto.
Melinda tornò dunque alla posizione iniziale: inginocchiata accanto al feretro, con le spalle rivolte verso i piloti e gli altri due agenti e il pungo destro appoggiato sul legno.
Il silenzio tornò a fare da padrone all'interno del velivolo.
Una situazione di stallo si era quindi egoisticamente avvinghiata all'atmosfera già pesante e densa del Quinjet. Nessun indizio del momento in cui questa si sarebbe finalmente sollevata.
Il tempo si era cristallizzato in un'aura di oscurità dalla quale nemmeno un debole bagliore poteva trovare uno spiraglio.
Reagire, dunque, non solo le sembrava impossibile, ma oggettivamente lo era.
Ancora molti giorni sarebbero dovuti trascorrere prima che iniziasse un nuovo periodo anche solo vagamente legato a una ripresa.
L'aveva lasciata sola. E, nonostante si fosse ripromesso di non farlo mai, l'aveva non soltanto ferita, ma annichilita profondamente, radicalmente.
Gliene aveva parlato una sera, mentre, separati da un tavolo, si gustavano la cena preparata da lui.
…
«Sai» esordì.
«Se c'è una cosa che, nell'ultimo anno, ho capito di non voler fare è farti soffrire»
Lei, per un istante, si limitò a posare la forchetta sul piatto e lo sguardo fisso di lui, in silenzio.
«Non fare promesse che non puoi mantenere» rispose poi.
«Melinda, è una cosa che ho giurato a me stesso di non fare mai»
«Come puoi dire così? L'hai già fatto» il volto, prima serio e rassegnato, si era ben presto contrito in una smorfia di disappunto.
Coulson era confuso, la fronte, leggermente aggrottata, si era piegata al centro, tra le sopracciglia.
«Quando eravamo al Faro, i Kree-» non la lasciò finire.
«Stai riportando le parole di Daisy» affermò con serietà, distogliendo lo sguardo e volgendosi al mare che proseguiva il suo moto alle spalle della donna.
«No. Sto cercando di farti capire quanto questa tua scelta abbia condizionato le cose!»
Occhi negli occhi. Nuovamente.
«Non voglio rivivere quell'esperienza. Ho già avuto un prolungamento innaturale della vita e non ne voglio un altro»
«Phil…» non era riuscita a pronunciare altro che non fosse il suo nome prima di essere costretta ad interrompersi, reprimendo parole che sarebbero solamente giunte alle orecchie di lui come spezzate dall'emozione.
L'ormai ex direttore continuò a tenere gli occhi fissi sulla donna che, in breve, sembrò aver riacquistato quella poca lucidità di cui necessitava per proseguire.
I tratti del viso mutarono in un'espressione di rabbia e delusione.
«In quel momento non hai scelto solo per te stesso, ma anche per me, per noi, per la squadra. Perché non hai pensato a questo?»
Quell'ultima domanda gli venne rivolta con una voce talmente rotta e soffocata da renderla quasi irriconoscibile.
Dopodiché si alzò con uno scatto improvviso, sparendo alle spalle dell'uomo che, toccato nel profondo da tali parole, non era riuscito a reagire nell'immediato, restando piuttosto immobile, con sguardo ormai fisso nel vuoto di quel buio che ormai aveva abbracciato il cielo notturno.
Si era seduta sul letto Melinda, asciugando con le dita quelle lacrime che, a tradimento, avevano deciso di uscire, bagnandole delicatamente le guance.
«Ehi…» le si avvicinò con cautela, sedendosi accanto a lei sul materasso matrimoniale e iniziando ad accarezzarle la schiena dolcemente.
May, da parte sua, non riusciva ad alzare il volto, preferendo nasconderlo tra i capelli che le ricadevano in avanti, oltre le spalle.
«Tesoro» era la prima volta che la chiamava in quel modo.
La voce era bassa, ridotta quasi a un sussurro.
«Non è stato facile nemmeno per me. Non è una decisione che ho preso con leggerezza»
Appoggiò la fronte poco sopra al suo orecchio destro e chiuse gli occhi, lasciando che il profumo dei suoi capelli scuri gli invadesse le narici.
Si voltò verso di lui improvvisamente. Lo sguardo annacquato.
«Io… Io non voglio perderti, non posso» esordì lei dopo lunghi istanti di silenzio. Le lacrime a connotare i tremori della voce.
«Non lasciarmi, ti prego. Non lasciarmi»
Coulson la osservava spezzato, colpevole, mentre lei lo supplicava.
«Non sono pronta» concluse disperata, dando sfogo, per la prima volta a ognuna delle ansie che la accompagnavano ogni giorno da quando la verità era stata svelata.
Un bacio. Inaspettato, che non era riuscito a trattenersi dal darle. Un bacio che sapeva un po' di tutto, ma anche di nulla. Un bacio salato dalle lacrime che, mischiandosi, rigavano i volti di entrambi, ma dolce e delicato nei modi.
«Mi dispiace, mi dispiace tanto. Ma era la scelta più giusta da fare» sussurrò a fior di labbra una volta separati.
«No! No, non è vero!»
«Melinda ti prego, cerca di comprendere il mio punto di vista» questa volta era lui a supplicarla.
«Non posso» rispose lei dopo alcuni istanti; per poi pronunciare le tre parole che, in quell'occasione, avrebbero posto fine alla discussione.
«Fa troppo male»
…
E faceva male anche in quel momento, mentre era consapevole che non l'avrebbe più rivisto.
