Durante quel volo non gli si era allontanata nemmeno di un passo. Non aveva proferito parola. Si era limitata a stargli accanto il più possibile, conscia del fatto che, di lì a poco, avrebbe dovuto dirgli addio per sempre.

Si presentò così davanti alla squadra, una volta giunta alla base.

Il portellone del Quinjet si abbassò mostrando una May esausta da tutte le emozioni corrosive che stava provando.

A ogni componente della famiglia erano evidenti i numerosi cocci, ormai divenuti nient'altro che polvere, in cui era ridotta; tuttavia, al contrario di come avrebbe sempre fatto, non si preoccupò minimamente di nasconderli o di riassemblarli momentaneamente in modo da poter infondere un qualche tipo di speranza. Lei non era in grado di vedere altro che non fosse il dolore, per cui… come sarebbe anche solo riuscita a pensare di fingere?

Nello scendere dal veicolo, venne preceduta dal feretro, trasportato dai quattro agenti.

Rimase immobile, ancorata al punto in cui era rimasta per tutto il viaggio, sul fondo del Quinjet, a poco più di un metro dal portellone.

Era consapevole che, una volta posati i piedi a terra, sarebbe stata piano piano richiamata alle proprie responsabilità, con l'intrinseca pretesa (voluta dalle norme sociali forse, o magari dalla mente stessa che si rifiuta di pensare ad altro che non sia la sofferenza, ma, al tempo stesso, prova a guarire, forzando il processo) che riuscisse ad andare avanti, superando dunque quel trauma orrendo.

E tutto si sarebbe svolto come se l'autonomia di tale processo fosse stata calcolata in precedenza, similmente a come si comporta una tecnologia qualsiasi.

Certo, ormai, dopo anni e anni in cui svolgeva un simile lavoro, si considerava, per così dire, abituata a riprendersi in fretta dalle perdite subite (il Bahrein, Andrew, Lincoln, Fitz, per andare in ordine) per quanto comunque non si trattasse di un'operazione semplice. Tuttavia, ciò non vigeva in quel caso.

Lei non voleva andare avanti. Ma semmai tornare indietro, con lui, con il suo Phil.

Si conoscevano da più tempo di qualunque altro, e, nonostante questo, era stata in grado di dichiararsi solamente alla fine della sua vita, quando ormai erano entrambi consapevoli che non avrebbero potuto condividere più molto tempo. E forse proprio tale prospettiva l'aveva portata ad agire, scatenando in lei un'infinita gamma di sensazioni che, agitandole un tumulto nell'animo, non le avrebbe causato alcun rimpianto in futuro.

Era sicura che, se avesse deciso di fare diversamente, se ne sarebbe pentita per tutta la vita, non avendo reso partecipe Coulson del proprio amore.

Certo, forse farlo prima sarebbe stato meglio, ma, almeno, non era stata in silenzio.

In tutti quegli anni l'argomento non era mai stato affrontato apertamente. Lei, Melinda May, donna coraggiosa e diretta, non si era mai fatta avanti.

Lui, d'altro canto, non aveva certo agito diversamente; forse perché scoraggiato dalla presenza di Andrew, non si era mai azzardato a discutere riguardo al tema.

Solamente vaghi accenni da parte di entrambi, che non avevano portato a nulla di concreto.

Proprio per questo ora, nella mente di May, un quesito presenziava in testa ai suoi pensieri. Ebbene, se lei non si fosse fatta avanti, effettuando il primo passo, come si sarebbe comportato Coulson?

Certo, successivamente al Framework si erano riproposti di vedere cosa sarebbe accaduto tra loro; purtroppo, però gli avvenimenti non avevo giocato a loro favore e la consapevolezza dell'uomo di una dipartita sempre più incombente, l'aveva portato a rallentare, fino a fermarsi.

Dunque, era possibile che lui si sarebbe limitato ad amare da lontano, di nascosto.

In effetti, nemmeno in quelle poche ultime settimane Phil le aveva espresso a parole i propri sentimenti verso di lei.

Fin da subito, infatti, era stato evidente che l'identificazione alfabetica di quella sensazione che la sua presenza scaturiva in lui lo spaventava. Melinda glielo aveva detto, ma l'uomo non era stato in grado di accantonarne il timore.

Chissà se si era mai pentito. Se il rimpianto per non aver pronunciato quella precisa parola l'aveva assalito. Se magari era accaduto e, nonostante il desiderio di rimediare, l'ultimo granello di sabbia era ormai caduto lungo la strettoia della clessidra che determinava la fine del suo tempo.

Forse le campane avevano suonato e lui se n'era andato consapevole che non avrebbe mai più potuto dirlo.

E lei? Lei veramente si stava concentrando su tale insignificante particolare? Insignificante… lo era davvero? Sicuramente qualcuno avrebbe potuto pensarlo, qualcuno come sua madre probabilmente, o lei direttamente se avesse saputo; eppure Melinda ne sentiva il bisogno. Provava la necessità imperiosa di avvertire la sua voce pronunciare, una dopo l'altra, di seguito, le lettere di quella parola tanto corta quanto importante. Tanto rapida nella pronuncia quanto grande.

Amore.

Ti amo. E le sue labbra si sarebbero dischiuse per poi rincontrati nuovamente a distanza di poco centesimi di secondo.

Ti amo. La voce impacciata, ma sicura del sentimento che stava esprimendo.

Ti amo. Gli occhi l'avrebbero scrutata con dolcezza.

Infine un bacio. Un bacio lento. Un bacio fragile, tremante, ma potente e grato.

Poi uno sguardo luminoso, raggiante, innamorato.

Sembrò destarsi, aprendo quegli occhi che, pochi istanti prima, si erano chiusi in un sospiro. L'aria aveva lasciato lentamente i suoi polmoni.

Non sarebbe mai più potuto accadere. Non sarebbe mai successo. Solamente fantasie e null'altro. Dolorose scene come unico prodotto di un'immaginazione malinconica.

Esitò ancora per un istante. Un breve, brevissimo istante, prima di affrontare anche il dolore degli altri che, in lacrime anch'essi e immobili, la osservavano, nel vano tentativo di comprendere le sue azioni, il tentennamento caratteristico di quei passi che, di lì a poco, l'avrebbero riunita a loro.

Rifletté. Sicuramente, davanti ai loro occhi stava apprendo fragile, rotta, piccola. Reazione del tutto comprensibile considerata l'incommensurabile perdita che, per lei, significava la dipartita di Coulson.

Ebbene, tutti l'avevano lasciato in modo diverso; era divenuto un direttore amato, un padre per ognuno e l'uomo della sua vita, l'amore della sua vita. Aveva addirittura ricevuto il grande dono di poter sperimentare, anche se troppo brevemente, la sua esistenza con lui.

Chissà cos'avrebbero dato gli altri per avere tale opportunità. Eppure lo avevano salutato per l'ultima volta con le lacrime agli occhi, nell'unica dolorosa attesa di ricevere quella stessa telefonata indirizzata a Daisy, che portava l'arrivo di una notizia funesta.

Si asciugò le ultime lacrime, cadutele dagli occhi, come unico segno di contegno, dopodiché, un passo per volta, lentamente, i suoi piedi arrivarono a toccare il pavimento grigio del Faro.

Si fermò a poca distanza dai suoi compagni. Non fece nulla, limitandosi ad osservarli mentre si trovava lì, esposta, succube dei loro sguardi penetranti, del loro dolore, della compassione che le stavano rivolgendo tramite l'espressione dei volti.

Un momento di stallo per ognuno di loro. Fin da subito erano stati ben consapevoli che rivederla avrebbe significato solamente la conclusione di un movimentato capitolo durato cinque anni e l'inizio di uno nuovo, senza di lui.

La guardavano annacquati, tutti gli occhi. Nessuno osava muoversi. Qualcuno aveva perso il respiro, altri lo avevano affannoso, mentre cercavano in sé la forza per non far cadere le lacrime.

May li guardò tutti, uno ad uno.

Iniziò da Yo-yo. Il braccio di Mack le cingeva la vita, la sosteneva impedendole di crollare. Un'espressione seria le delineava il volto.

Passò poi al direttore. Dovette alzare leggermente la testa per poterlo osservare. Il suo sguardo puntava vero il basso, verso il suo. Entrambi sapevano che, ben presto, avrebbero dovuto definitivamente prendere in mano le redini della squadra. Il nuovo direttore aveva ancora molto da imparare, e per questo, avrebbe sempre potuto contare sull'aiuto della specialista.

Un sorriso malinconico era invece disegnato sul viso di Jemma. Se solo avesse cercato di sviluppare una cura per salvarlo, era questo il suo chiodo fisso, Melinda lo sapeva. Una scienziata come la ragazza non poteva evitare di provare sentimenti simili.

Almeno a Fitz era stato risparmiato il dolore di una simile perdita. Tuttavia, se l'avessero trovato, come avrebbero fatto a raccontargli tutto ciò che era accaduto? Del matrimonio, della dipartita di Coulson e di tutto il resto.

Infine, gli occhi dell'asiatica di posarono sull'ultima figura rimasta. Daisy, con lo sguardo sperduto e gli occhi rossi la guardava sconvolta. Non aveva smesso di piangere per un solo momento da quando aveva ricevuto quella chiamata.

Il suo punto di riferimento primario se n'era andato. Si sentiva persa, sola, terrorizzata da ciò che sarebbe venuto.

Le mani giunte al petto, le spalle ricurve; tutto ciò che prima le infondeva sicurezza era ora svanito.

Improvvisamente la ragazza si mosse in avanti, verso May. La poca distanza percorsa a passi veloci la portò subito a raggiungere l'esile figura della specialista stringendola in un abbraccio inaspettato.

La donna rimase spiazzata da tale gesto. Alzò le braccia avanti a sé, rigida, sorpresa. Gli occhi confusi per tale richiesta di conforto.

Fu solo quando avvertì le lacrime dell'inumana bagnarle la spalla attraverso i vestiti che si azzardò a stringerla al proprio corpo.

Una mano ad accarezzarle la schiena, l'altra a fare lo stesso con i capelli.

Sospirò lievemente.

Poco a poco, le lacrime che ricadevano regolari sulle sue spalle si mischiarono a dei singhiozzi sempre più forti, singhiozzi che, stranamente, Melinda non era in grado di controllare. Dover affrontare anche il dolore della ragazza era troppo in quel momento, anche se ormai, per lei, era come una figlia. Stava tentando di calmarla, di darle il tempo per sfogarsi mentre gli altri sei occhi le scrutavano.

Le iridi di Simmons trasmettevano un grande senso di compassione, mentre Yo-yo abbassò ben presto lo sguardo, accentuando il movimento con la testa.

Mack, invece, rimase immobile spettatore della scena, concedendosi una volta soltanto un profondo sospiro di frustrazione.

Singhiozzo dopo singhiozzo, quel pianto disperato si tramutò in silenzioso sussulto, per poi acquietarsi. L'abbraccio, tuttavia, non si sciolse.

«Daisy, May sarà stanca, vorrà riposarsi…» esordì insicura la biochimica.

Subito la ragazza cercò di darsi un contegno, tornando innanzitutto in posizione eretta, ma non allontanandosi di un solo passo.

«Ha-hai ragione» rispose all'amica.

«Scusa» proseguì con gli occhi rossi e contornati da un grosso alone lucido lasciato dalle ultime lacrime.

«Non serve» recevette in risposta dalla specialista.

I loro occhi si scontrarono per alcuni istanti.

La donna non sapeva come comportarsi di fronte a tanto dolore.

Avvertì l'impulso di accarezzarle il viso con una mano, ma si trattenne. Quella non era lei.

Le prese piuttosto la mano nelle sue, senza staccare nemmeno un secondo lo sguardo da lei. Per Daisy fece appello a qualsiasi cosa pur di infonderle un briciolo di forza, la stessa che, ormai, l'aveva abbandonata. Tuttavia, in quel momento, la ragazza era la più fragile tra le due. Avrebbe quindi dovuto aiutarla, nonostante - stranamente - sentisse di non esserne capace, di non esserne all'altezza.

«Voglio solo sapere sapere dove l'hanno portato…»

«Vado a chiedere a uno degli agenti che sono scesi con te» Jemma accennò un movimento.

«Non preoccuparti» esordì subito Helena.

«Controllo io»

Il gruppo quasi non si accorse della sua assenza in quanto fu subito di ritorno.

«È in infermeria»

May la ringraziò con lo sguardo.

«Vengo con te» disse Daisy.

«Vi seguo anche io… devo controllare il decorso della malattia» aggiunse la biochimica.

Le tre si diressero in silenzio verso il luogo prestabilito.

La prima della fila era Simmons, seguita dall'asiatica e, ancora, dal'Inumana che, afflitta, osservava attentamente la donna che la precedeva.

Guardava a terra, lo si poteva notare dalla posizione della testa, reclinata leggermente in avanti. Le spalle ricurve ne accentuavano ancora di più la posizione.

Le braccia abbandonate lungo il corpo; i passi stanchi, pesanti, che mutarono non appena entrarono nella stanza medica. Era come se Melinda temesse di svegliarlo.

Gli si avvicinò con cautela - dando le spalle alla porta - gli appoggiò una mano sulla fronte fredda e con l'altra prese la sua.

La Johnson, da parte sua, era rimasta ancorata all'ingresso, impossibilitata a proseguire osservava la scena, mentre Jemma indossava il camice da scienziata.

May si voltò improvvisamente. Notò subito il suo sguardo terrorizzato, il viso teso, incredulo, rigato delle stesse lacrime che soltanto cinque minuti prima avevano smesso di cadere.

Jemma alzò la testa allo stesso modo, e dedicò alla ragazza un'occhiata fugace.

Non poteva, non ci riusciva. I suoi passi iniziarono a susseguirsi in fretta, uno dopo l'altro; stava scappando.

Scappando dalla realtà, da sé stessa, dal dolore che si rifiutava inutilmente di provare.

La specialista si rivolse ancora una volta al viso di Phil.

«Ti lascio lavorare, torno più tardi»


Un sorriso malinconico in risposta.

La trovò seduta sul suo letto a fissare il vuoto. Quella camera lo aveva sempre rispecchiato al meglio.

Un modellino di Captain America era rimasto appoggiato al comodino e non sarebbe più stato spostato.

Si sedette accanto a lei. Un sospiro le fuoriuscì dalle narici. Il suo profumo era ancora ovunque nella stanza.

«Cosa ti è successo?» chiese dolcemente, conoscendo già la risposta che Daisy le avrebbe dato.

«Non posso accettarlo, non ci riesco»

Iniziò, esitante, ad accarezzarle la schiena con una mano, mentre l'altra continuava a rimanere appoggiata in grembo.

«E vederlo così non farebbe che rendere tutto più reale»

Eppure lo era, lo era fino al midollo. Nessuna finzione era concessa. Nessuna ulteriore possibilità per poter ritornare a riaverlo.

Lo avevano pianto così tante volte ormai, come avrebbero fatto, a quel punto, a sapere che, in realtà, Coulson non muore mai veramente? Eppure quel dolore, così come il ricordo stesso di quel sentimento sarebbe rimasto, in eterno.

«Pensavo che ci sarei riuscita, ma mi sbagliavo; non posso entrare in quella stanza»

«Io invece non riesco a lasciarlo andare» le confessò l'evidenza.

Atto che, soltanto cinque anni prima, non avrebbe mai compiuto. Sarebbe anzi rimasta in silenzio, chiusa nelle sue sensazioni, nei suoi sentimenti; limitandosi, piuttosto, ad ascoltare quelli degli altri, per poi confortarli con qualche frase semplice ma saggia, ad effetto.

Daisy si voltò e, alla propria sinistra, vide il profilo della donna nel momento esatto in cui una lacrima le stava rigando la guancia. Goccia che subito May si affrettò ad asciugare con la mano che, nel giro di un solo secondo, ritornò in fretta in grembo.

«Sono contenta che abbiate potuto passare del tempo insieme» inconsapevolmente, pronunciò le stesse parole che sarebbero uscite dalla bocca di Mack proprio un anno dopo.

Melinda si rivolse a lei voltandosi un poco. Le dedicò un sorriso leggero, appena accennato perché soffocato da tutto il dolore che la stava investendo, ma sincero.

Quella ragazza, in un modo o nell'altro, continuava a dimostrarsi speciale, indispensabile per tutti, ma sopra ogni cosa, per lei.

Le sarebbe stata infatti di grandissimo aiuto nei giorni a venire, fino dunque alla sua partenza alla ricerca di Fitz.

Aveva visto morire anche lui. Coperto dalle macere di quel palazzo che gli era crollato addosso. Non si era nemmeno reso conto che quella sarebbe stata la sua fine. Nessun dolore. Il suo cervello aveva attuato un meccanismo di difesa secondo cui smette di provare sofferenza se questa è troppa.

E di questo, tutti erano grati.

Chissà cos'aveva pensato prima di esalare l'ultimo respiro; se, nel momento finale, aveva notato le espressioni distrutte di quei pochi membri della sua famiglia, May e Mack, che lo guardavano, consapevoli del suo imminente destino.

Era stato per loro un privilegio o una disgrazia riuscire a vederlo per l'ultima volta? Non era in grado di giungere a una risposta.

Certo, l'avevano accompagnato verso la fine, impedendo che fosse la solitudine a farlo; tuttavia, di contro, avevano assistito al terribile spettacolo che è il veder fluire via una vita, presenziando al dolore che, irrimediabilmente, ne sarebbe derivato, fin dal principio.

Gli erano stati strappati via momenti in cui avrebbero potuto convivere con una minor sofferenza - fardello già pesante a causa della notizia della malattia del direttore.

Chissà se Fitz aveva notato le loro lacrime cadere a terra dopo aver rigato il volto ad entrambi; i loro occhi lucidi, annacquati; i singhiozzi trattenuti a stento.

Fortunatamente, in quel momento, lo stesso Fitz si trovava nello spazio, pronto per andare a salvare la squadra. I piani, tuttavia erano cambiati. Il mondo era stato salvato ponendo fine a un loop che proseguiva ormai da tempo immemore.

Ci sarebbero stati "loro" in quel faro? Il ragazzo sarebbe riuscito a raggiungerli?

Un'ulteriore domanda. Andandolo a recuperare, il ciclo di eventi non sarebbe stato devastato irrimediabilmente?

Innumerevoli quesiti che rimasero solamente nelle sue riflessioni più intime. In fondo, si disse, se ci fosse stata anche una sola, vaga, opportunità di rivedere Coulson vivo, lei l'avrebbe colta immediatamente, senza porsi domande, senza rifletterci nemmeno un istante. Non si sarebbe nemmeno chiesta se quella, in relazione al futuro, si sarebbe trattata della scelta giusta. L'avrebbe fatto solo per poterlo abbracciare di nuovo, per poter sentire il calore della sua pelle, la sua presenza accanto al posto di un letto freddo, vuoto, com'era lei.

Si sarebbe sicuramente trattato della decisione migliore per la squadra, ma soprattutto per lei. Il Mondo sarebbe venuto dopo. Infondo, lui era il suo.

Quell'uomo era riuscito ad ammorbidirla, a farle notare nuovamente il bello di ciò che li circondava, a discapito del lavoro, spesso pensante, che svolgevano. Phil le aveva restituito quella voglia di vivere che, irrimediabilmente, il Bahrein le aveva strappato. Ancora non era riuscita a fare totalmente pace con quella parte del suo passato. Nonostante fossero trascorsi, in realtà, molti anni. Quello era stato un evento che l'aveva ferita nel profondo, lacerandole l'animo.

Senza rendersene conto erano rimaste in silenzio per innumerevoli minuti; ognuna immersa nei propri pensieri, nelle proprie debolezze.

Coulson, infatti, era il punto debole di tutti. Ferire lui era come toccare carne viva, doloroso, troppo.

Daisy lo aveva ormai personalmente riconosciuto come proprio padre. Non glielo aveva mai detto.

Il suo nemmeno si ricordava di averla una figlia. Troppe cose si erano susseguite, ma Phil, lui le era sempre rimasto accanto. Non le aveva mai voltato le spalle, anzi, le aveva offerto le sue come una roccia salda su cui fare affidamento nei momenti di debolezza, su cui appoggiarsi per versare le lacrime quando non si è più in grado di trattenerle.

La ragazza rivolse uno sguardo alla donna alla sua sinistra. I suoi occhi erano puntati nel vuoto, persi. Un po' una metafora di come si sentiva in quel momento senza l'uomo che, fin dai tempi dell'Accademia l'aveva affiancata in quasi ogni aspetto della sua vita. Colui che le era stato accanto per più tempo rispetto a chiunque altro.

Daisy stessa si sentiva spaesata, ma forse la sensazione era diversa.

Lei continuava pur sempre ad avere May come punto di riferimento. La madre dura, ma affettuosa, che in quei cinque anni era stata in grado di scavare nel suo animo rendendola forte e di formarla fisicamente in modo che sapesse affrontare al meglio chiunque l'avesse costretta al combattimento.

L'aveva "allevata", in un certo senso; dimostrandosi severa ma trasmettendole, se pur celatamente, tutto l'affetto e l'amore di cui una ragazza come lei, cresciuta praticamente sola, aveva bisogno.

Eppure, ora che l'uomo della loro vita era scomparso, a Melinda non rimaneva nessun altro. Certo, la sua famiglia le sarebbe stata vicina proporzionalmente a quanto lei stessa le avrebbe permesso, ma il suo nord se n'era andato per sempre e ora non era sicura che sarebbe riuscita nuovamente a trovare l'orientamento in quel labirinto che viene chiamato vita.

Un lieve trillo a spezzare il silenzio.

La specialista sembrò tornare in sé. Prese rapidamente il telefono tra le mani.

«Simmons ha finito. Dice che se vogliamo possiamo andare»

Non ottenne risposta.

«Daisy?» la chiamò alzando gli occhi dal display ancora acceso del cellulare.

«Mh-mh»

«Vuoi venire con me?»

Solo incertezza come riscontro.

Davvero pensava che non ci sarebbe riuscita. Sarebbe stato un duro schiaffo ricevuto in pieno volto dalla realtà che ancora doveva accettare, metabolizzare.

Di contro, sapeva che si sarebbe pentita in futuro, e amaramente, se non l'avesse visto ancora una volta prima del funerale.

«Non sei costretta. Ma voglio solo che tu sappia che non sarai sola» proseguì May.

«Ci sarò io con te» concluse.

Come faceva quella donna, nonostante l'immensa sofferenza a dilaniarle il petto, a trovare ancora la forza per tentare di darle conforto?

L'inumana annuì debolmente mentre gli occhi le si riempivano nuovamente di lacrime e una smorfia, generata dal pianto imminente, le deformava il volto.

Si alzarono dunque lentamente dal letto ancora intatto, dirigendosi a passi lenti verso la porta.

Percorsero il corridoi in grave e rigoroso silenzio. Atmosfera interrotta solamente dal rimbombo generato dai passi che si susseguivano l'uno dopo l'altro.

La distanza percorsa fu disseminata di sguardi fugaci, nascosti, rivolti a vicenda dalle due, senza farsi notare.

Arrivarono poi all'ingresso dell'infermeria. La camminata rallentò sensibilmente, fin quasi a fermarsi.

May fece per entrare, la testa alta per tentare di darsi un contegno.

Daisy invece rimase ferma, ancorata alla sua posizione, immobile. Lo sguardo a terra.

La donna si voltò avvertendo che il proprio movimento non era stato replicato. La guardò poi, emettendo un leggero sospiro.

«Se hai cambiato idea-» cercò di rassicurarla che non ci sarebbe stato problema alcuno, ma il gesto perpetrato dalla ragazza l'ammutolì improvvisamente.

Melinda studiò confusa quel contatto appena stabilito, per poi tornare a soffermarsi sul volto della Johnson. Era pronta per iniziare ad affrontare quella nuova parte della sua esistenza, la stessa che, in maggior misura, le aveva portato solamente sofferenza.

Così, mano nella mano, le due si addentrano nella stanza, avvicinandosi sempre più alla biochimica.

Era stato terribilmente difficile per lei portare a termine quel compito. Avrebbe preferito scappare, nascondendosi in qualche luogo isolato del Faro per poter piangere tutte le sue lacrime, piuttosto che svolgere un lavoro simile.

La salma era lì, immobile. Il volto pacifico ma segnato ugualmente dagli ultimi difficili giorni di vita.

Le labbra ormai scure.

Daisy lo osservò con gli occhi annegati dalle lacrime e, non lasciando mai la presa da quella di May, sfiorò la mano gelida di Coulson, stringendola nella sua.

«Avremmo potuto salvarlo…» esordì in un sussurro.

«Se solo lo avesse detto prima»

Il silenzio seguì quelle parole.

«Così avremmo potuto sistemare tutto e Fitz sarebbe ancora qui con noi»

Jemma e Melinda si scambiarono uno sguardo eloquente.

«Non possiamo sapere come sarebbe andata se lui ci avesse informati in tempo. Forse ora staremmo vivendo una situazione peggiore» rispose May.

«E come mai nessuno ha avuto un sospetto? Quando Ghost Rider ha sconfitto Aida, avremmo dovuto immaginare che nulla viene senza un prezzo da pagare» continuò la ragazza.

E quello scambio di battute, quella frase pronunciata al momento dell'addio con Robbie Reyez:

"Non ti invidio"

"Nemmeno io"

Perché nessuno aveva indagato riguardo al suo reale significato? Probabilmente non vi sarebbe nemmeno stato un riscontro, ma solo malumori e irritazione da parte di un direttore ormai morente.

Ebbene, ora era chiaro a tutti; e non ci era nemmeno voluto molto per ricollegare tali parole a quel frangente.

May ricordava perfettamente quel momento e lo sguardo che aveva rivolto all'uomo, il senso di confusione che aveva provato nel non capire.

E improvvisamente una sensazione di nausea l'aveva colpita. Era stato come ricevere un colpo allo stomaco. Eppure l'aveva ignorato, o quantomeno si era imposta di farlo data l'apparente infondatezza di quel malessere improvviso e quella vittoria a lungo desiderata.

Aveva iniziato addirittura a sperare che ciò che "l'altra lei", il suo replicante, aveva avuto con Phil, sarebbe riuscita presto a viverlo anche lei. Un LMD era arrivato persino ad aprire quella famosa bottiglia di Haig che da tanto si promettevano di bere… chissà cos'altro era accaduto. Aveva desiderato a lungo farselo spiegare. Ed ecco, ripensando proprio a quella fase della loro vita, iniziò a provare il desiderio di avere almeno i ricordi di ciò che la creazione di Radcliffe aveva avuto l'opportunità di sperimentare. Non sapeva ancora bene di cosa si trattasse, Coulson non era mai voluto scendere troppo a fondo con i particolari, eppure era consapevole fosse qualcosa di bello, in quanto l'uomo non aveva mai lasciato intendere altro.

Sentì le lacrime spingere per uscire. I ricordi, i desideri, erano troppo dolorosi, e vedere Daisy disperata per la perdita dell'uomo che le aveva fatto da padre e Jemma tentare di trattenere il pianto, le riempì il cuore di un ulteriore, acuta, emozione, se possibile.

«Perché non hai provato a salvarlo?» si sentì dopo lunghi istanti di silenzio mischiato a singhiozzi.

May si rivolse verso la fonte della voce apatica, una delle due ragazze fece lo stesso.

Daisy aveva lo sguardo basso, ma, in breve tempo, lo alzò in direzione della biochimica.

Gli occhi erano duri, arrossati, disperati, mentre le scie delle lacrime erano ancora ben visibili in quanto continuamente precorse da nuove gocce di pianto.

«Tesoro ma cosa stai dicendo?»

Melinda le si era avvicinata dopo essersi volta Jemma per un istante.

«Daisy…» le prese il volto fra le mani costringendola a guardarla.

«Avresti potuto ricercare qualcosa, una cura, qualsiasi soluzione che fosse in grado di guarirlo»

«Lo avremmo voluto tutti Daisy, credimi, io per prima, ma non lui, non così. E per quanto doloroso possa essere e per quanto questa decisione possa essere stata difficile da prendere pure per lui, noi dobbiamo accettarla. Dobbiamo farlo per riuscire ad andare avanti»

La guardò con tenerezza annacquata dalle lacrime.

«Non posso, non ce la faccio»

Crollò a terra come fosse un sacco vuoto e si lasciò andare a un altro pianto disperato. Non lasciò mai la mano di Coulson però.

May si accucciò accanto a lei, appoggiando a terra il ginocchio destro. Le piangeva il cuore ad assistere a quella scena.

«Ti prego dimmi che non è vero. Non voglio che sia vero»

«Non posso…» le sussurrò la specialista spostandole una ciocca di capelli scuri dietro l'orecchio.

«Dimmelo»

«Non posso farlo»

«Ti prego. Per favore» insistette, riuscendo a mala pena a respirare per gli scossoni violenti causati dagli irrefrenabili singhiozzi.

Melinda rivolse un'occhiata addolorata a Jemma.

«Daisy, Daisy guardami»

Ma lei sembrava non ascoltarla.

«Avanti, guardami Daisy»

Lei alzò dunque lo sguardo e subito trovò rifugio in quella donna che le era stata più vicina di una madre.

«Ce la farai. Ce la faremo. Insieme» e con queste parole si rivolse anche a Simmons.

Appoggiò la fronte al suo petto e i singhiozzi cessati nell'istante precedente ricominciarono.

May mise a terra anche il secondo ginocchio per trovare un appoggio più stabile al pavimento.

La sua mano, la sinistra, scivolò lungo la schiena, accarezzandola lentamente, mentre la destra le si appoggiò sulla testa.

A quell'emozione si aggiunse la consapevolezza che ora la ragazza stava ricevendo da lei il medesimo calore e conforto che Coulson aveva dato a lei appena uscita da quell'edificio uni Bahrein. La posizione era la medesima.

«Sono qui. Non ti lascio» aggiunse poi, mentre una lacrima le scivolava lungo la guancia.

Jemma, nel frattempo, osservava la scena non meno abbattuta delle due donne.

Il commento di Daisy l'aveva particolarmente turbata. Sapeva che non era stata l'amica a parlare, bensì il vuoto che ora sentiva dentro, o almeno in parte.

In fondo lei stessa si era più volte pentita di non aver fatto nulla per la colonna portante della squadra. Si era anzi imposta di non effettuare alcuna ricerca, in quanto, più volte, si era ritrovata sul punto di farlo, nonostante le volontà dell'uomo fossero diverse.

E in quel momento, in cui quell'abbraccio accanto al corpo di Coulson si stava consumando sul pavimento, rimorse di non aver agito a discapito di tutto, a discapito di quella volontà così chiara che le era stata espressa.

Il pianto iniziò così a rigare anche il suo volto, tanto ch'ella dovette voltare le spalle alla scena per sperare di calmarsi.

Si sentiva talmente colpevole in quel momento! E la frustrazione per non essere riuscita ad intuire prima il prezzo che sarebbe stato pagato per la sconfitta di Aida si stava facendo sentire sempre più. In quanto medico e biochimica avrebbe dovuto farsi delle domande a riguardo. Daisy aveva ragione. E avrebbe dovuto farlo in quanto, dopo quattro anni, l'anormalità era diventata normale e l'improbabilità probabile.

Nulla sarebbe dovuto essere stato dato per scontato. Nulla. Eppure, tutti l'avevano fatto.

Ma chissà, invece, come aveva fatto lui a tenere nascosto un segreto di tale portata. A guardarli negli occhi, uno ad uno, e a non lasciar trapelare nulla.

«Agente Simmons?» un ragazzo le si avvicinò esitante. Il camice grigio chiaro a coprirgli gli abiti.

La ragazza si asciugò le lacrime velocemente e rivolse a lui la propria attenzione.

Anche gli occhi di May si alzarono brevemente verso l'agente, ma, non appena la sua voce smise di emettere suono, tornò a riporre la sua attenzione alla ragazza che aveva stretta al suo petto.

«Mi dispiace disturbare» esordì spostando lo sguardo verso la coppia abbracciata a terra.

Jemma si spostò alla destra del ragazzo, impedendogli così la visuale, in modo che quel momento di intimità tra le due non venisse violato dallo sguardo curioso di un agente appena liberatosi dall'etichetta di matricola.

«Il direttore ha chiesto se, appena ha terminato il suo lavoro, può redigere un rapporto e farglielo avere, o recarsi nel suo ufficio, per informarlo riguardo alle conclusioni cui è giunta»

Il soggetto della conversazione era scontato. Si trattava, ovviamente, del decorso della malattia dell'uomo steso sul tavolo alle sue spalle.

«Certo. riferiscigli che andrò da lui tra pochi minuti»

Nel frattempo May aveva ascoltato e, con la coda dell'occhio aveva notato il particolare movimento effettuato dalla biochimica.

Il nascondere quella scena agli occhi del ragazzo era stato per lei un gesto molto apprezzato.

La donna abbassò poi lo sguardo verso colei che aveva tra le braccia.

«Hey» le sussurrò all'orecchio.

Il pianto non si era ancora fermato e lei non aveva alcuna intenzione di interromperlo, essendo consapevole che l'inumane avesse bisogno di sfogarsi.

«Che ne dici se andiamo nella tua stanza? Lì starai sicuramente più comoda che seduta qui, sul pavimento» proseguì dolcemente accarezzandole i capelli e continuando a mantenere il contatto con la sua schiena.

Nessun cenno in risposta.

«Tesoro…» era la seconda volta in pochi minuti che usava quell'appellativo per riferirsi a lei.

Non l'aveva mai fatto.

Eppure, in quel momento così drammatico, sentì come naturale pronunciare tale parola. Non sarebbe più successo in futuro.

«Che ne dici?» insistette tranquillamente, alzandole il volto rigato e facendosi guardare da quegli occhi arrossati, gonfi, annegati nelle lacrime.

Le spostò una ciocca dietro l'orecchio e altre, più piccole, gliele tolse dal volto.

Daisy si limitò ad annuire in silenzio.

Melinda allora si alzò in piedi e, piegando il busto in avanti, aiutò anche la ragazza a farlo.

Ella rimase ferma qualche istante, rivolta verso il corpo di Coulson e, sia la specialista che la biochimica erano consapevoli della motivazione: andarsene avrebbe comportato il dover lasciare la mano dell'uomo che, fino a quel momento, era sempre rimasta racchiusa nella sua.

Entrambe non l'avrebbero forzata. Non l'avrebbero strappata via rendendole quella separazione ancora più traumatica.

Passarono così alcuni minuti, durante i quali May non si spostò mai dal fianco della ragazza, evitando così di interrompere il contatto fisico tra loro.

Jemma continuò ad osservale la scena, prima di avvicinarsi unendosi a loro.

Quei tre formavano una famiglia stupenda. Il sentimento che li legava era forte ed evidente anche in una simile circostanza.

Daisy aveva instaurato un legame speciale con i due agenti. Piano piano aveva iniziato a vederli quasi come due genitori e, anzi, date le circostanze, essi le erano rimasti accanto più degli stessi.

L'avevano aiutata, soccorsa, amata come fosse realmente una figlia. Ma quel sentimento che li univa alla giovane, collegava, in modo differente, anche Coulson e May.

Si conoscevano da più della metà delle loro vite. Si erano incontrati per la prima volta all'accademia e subito, tra i due, era nato qualcosa di incomprensibile a chiunque, persino a loro.

Amicizia, amore, fiducia. Non era possibile dare un nome a tale legame.

Era ovvio che a un certo punto l'amore fosse subentrato; forse prima di quanto essi stessi volessero ammettere, eppure nulla era mai accaduto prima di poche settimane prima, quando, ormai, il tempo era divenuto incerto, precario.

Eppure, nonostante tutto, quei tre erano divenuti come una vera e propria famiglia. La forza che li legava era ancora più forte di quella che vincolava ogni membro della squadra, dimostrando così che non servono legami di sangue per costruire una famiglia.

Era qualcosa di inimmaginabile a qualsiasi individuo esterno ad essa.

Questi i pensieri scaturiti nella mente di Jemma e che la portarono ad avvicinarsi alle donne.

I secondi durante i quali Daisy stava tentando di trovare le forze per porre definitivamente fine a quel contatto trascorsero lentamente.

Allentava la presa, poi la stringeva nuovamente. La mano tremava. Le lacrime bagnavano quella stretta simbolica, quel rifiuto al lasciar andare.

Ma alla fine si decise, separandosi da lui. Si trattò di una delle scelte più dolorose che avesse mai preso. Con essa sanciva la necessaria quanto obbligata intenzione di proseguire, di andare avanti, anche se non ne era ancora totalmente convinta. Sapeva però fosse per il suo bene. Non avrebbe potuto rimanere ancorata alla sua presenza per il resto della sua vita.

Certo si sarebbe aggrappata al suo ricordo in eterno, ma a breve sarebbe dovuta partire e a quel punto avrebbe dovuto rimanere lucida in modo da riuscire a complire quella missione, non solo per la squadra, ma per Jemma stessa, quella sorella che tanto aveva desiderato da bambina.

«Vieni, ti accompagno» disse May.

Così, anche il contato visivo venne interrotto, una volta per sempre.

La donna si voltò leggermente verso la biochimica.

«Grazie» le disse guardandola negli occhi con reale riconoscenza e la commozione ad inumidirli.

Prima di uscire dalla stanza un rumore deciso di zip: il sacco nero era stato chiuso.