Kakuzu, so che sei impegnato ma si tratta di una questione veramente importante. Io e Rin ti aspettiamo sul lungomare per un aperitivo. Il tuo aiuto in questo momento è più prezioso che mai.
Obito.
Si trattava di Madara, non c'era dubbio. I problemi di Sasuke sembravano essere completamente risolti ma lui continuava a soffrire. Kakuzu aveva compreso già da tempo che alla base del suo essere diventato un insegnante nella palestra di Kisame si celava, in realtà, il desiderio di stare il più possibile lontano da casa.
O vicino a qualcuno?
Molto spesso Madara era rientrato tardi dopo il suo turno alla palestra, lui diceva che era stato impegnato con i suoi corsisti, tuttavia l'odore di alcol e il pallore malsano del viso non erano certo sfuggiti al compagno. A Kakuzu, in questi casi, non era rimasto che sospirare di amarezza lasciandolo fare. Le volte in cui aveva provato a chiedergli cosa gli stesse succedendo, Madara aveva dichiarato di essere preoccupato per Sasuke e di sentirsi in colpa per quando scritto nel libro.
"Sono stato un vero stolto, Kakuzu, proprio senza nessuna scusante. Al di là di quello che è accaduto, non bisogna mai sbandierare i fatti privati della famiglia."
Ma il mesto sorriso con cui accompagnava sempre le sue spiegazioni, gridava che sotto c'era ben altro.
"Madara, io non ci vedo niente di male, invece. Anzi, il tuo libro rappresenta un aiuto per tutte quelle persone che si trovano in difficoltà e che non riescono a trovare una via di uscita. Gli errori di Sasuke sono stati dettati dal dolore, leggere di qualcuno che ce l'ha fatta non può essere altro che un buon esempio."
A quel punto Madara sospirava abbassando gli occhi. Il copione era sempre più o meno il medesimo tanto che Kakuzu, alla fine, era finito col capitolare non tornando più sull'argomento.
Sono io che lo faccio star male, non sono abbastanza per lui.
Forse Obito e Rin volevano incontrarlo per parlargli proprio di questo. Di sicuro. Gli avrebbero chiesto di farsi da parte lasciando libero Madara. Prima di uscire di casa, Kakuzu strinse i pugni dichiarandosi pronto anche a questo. Voleva bene a Madara, lo adorava dalla prima volta in cui lo aveva visto, se erano così incompatibili che la sua sola presenza lo faceva star male era pronto a qualsiasi cosa pur di vederlo felice.
Sarà dura, io ti amo, ma se questo è l'unico modo che mi rimane per vederti sorridere mi sacrificherò volentieri.
Forse non era un caso se Obito lo aveva chiamato proprio quel giorno, Madara era di turno alla palestra e lui non avrebbe dovuto inventarsi scuse per giustificare la sua uscita. Certamente Madara si era già incontrato con suo cugino e gli aveva raccontato tutto quello che a lui non diceva. O quasi.
Kakuzu aveva sempre evitato di piangere davanti a Madara, ne aveva sempre fatto a meno davanti a tutti, in realtà. Lasciava andare le lacrime solo quando sapeva di essere solo, come ora, mentre si dirigeva a quell'incontro con Obito con un groppo nella gola. Nella sua famiglia, quando era piccolo, le emozioni negative non venivano accettate, quasi potessero togliere tempo alle loro mansioni di pastori. Loro erano poveri e non potevano permettersi neanche di piangere. Cresciuto con questa educazione, forse Kakuzu dimostrava di non provare emozioni alle persone intorno a lui. Non era affatto così, lui dentro aveva tutto solo che non aveva imparato come farlo uscire.
Madara, se il motivo è stato questo sappi che mi dispiace. Forse io sono impossibile da amare, per chiunque.
Imboccata la via del lungomare, Kakuzu si asciugò frettolosamente gli occhi con il dorso delle mani abbronzate. Da quando Naruto era diventato sindaco la città sembrava essere continuamente in festa, soprattutto d'estate. Un tripudio di colori dalle bancarelle dei mercatini e dai palloncini che i bambini avevano in mano, persino dai gelati che le coppiette stavano a gustarsi sulle panchine. Famiglie passeggiavano tenendosi le mani e scattando foto, c'era continuamente un'aura di musica anche se non sempre era possibile capirne la fonte. Avvolgeva sempre tutto muovendosi nell'aria calda e nel vento di mare.
Madara, perché noi questo non possiamo averlo?
Obito e Rin lo aspettavano in un locale all'aperto. Era costituito solo da un piccolo casotto che fungeva da bar, tavoli distribuiti su un prato verde e un disc jockey animava l'ora dell'aperitivo dalla sua piccola consolle. Dopo il tramonto, si sarebbero accese automaticamente le lampadine variopinte sopra le loro teste. Il tutto si trovava a strapiombo sul mare, il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli, a tratti, parevano fondersi con la musica. Una cosa semplice ma circondata di un alone magico.
Kakuzu fu accolto dai calorosi abbracci di Obito e Rin. Sorridevano, certamente stavano indorando la pillola amara che tra poco gli avrebbero chiesto di mandare giù. Ordinarono degli Spritz a cui Kakuzu si associò, non era la sua bevuta preferita ma lui detestava essere diverso e, a causa di questo, notato dagli altri. Già il fatto che si sentisse totalmente fuori posto in quel locale bastava per conto suo. Non si trattava solo del luogo in cui, un omone come lui, decisamente stonava, ma anche della sua idea di eleganza decisamente diversa da quella degli altri. Obito riusciva sempre ad essere valorizzato dalle sue polo, stasera ne indossava una azzurro intenso. Rin con la una camicetta viola a maniche corte. Mentre per Kakuzu, anche un'occasione del genere suonava decisamente formale, per questo aveva indossato una camicia a maniche lunghe, jeans, anch'essi lunghi, e scarpe di pelle marrone, nonostante il caldo che si faceva sentire anche la sera.
D'accordo, dovrei prenderla più alla leggera. Ci penserò se le prossime uscire saranno più liete.
"Rin, ne ho assaggiate di bevute nella mia vita, ma nessuno riesce a farle buone come te." Kakuzu aveva sempre pensato che esordire facendo i complimenti alle donne del gruppo, fosse il metodo migliore per rompere il ghiaccio, tuttavia quella era anche la verità.
Rin sorrise riavviandosi i capelli che la brezza le faceva turbinare intorno al viso, la sua immagine sembrava fondersi con il mare che aveva alle spalle: "Ti ringrazio, Kakuzu, sempre gentilissimo."
E ora, fatemi fuori.
La mano di Obito si posò sulla sua, grande e piena di calli, lo guardava sorridente: "Kakuzu, io so che abbiamo qualcosa in comune che ci tormenta."
"Madara" disse sospirando l'omone mentre abbassava lo sguardo sulle sue cosce: "Obito, se mi credi o no non ha importanza, ma sappi che sono disposto a tutto a tutto purché sia felice."
"Lieto di sentirtelo dire, Kakuzu, perché io e Rin stasera siamo qui per chiederti di accettare un regalo."
"Cosa?" Kakuzu sollevò gli sconcertati occhi verdi sui due visi sorridenti che aveva davanti.
"Ma sì, l'abbonamento illimitato alla palestra che Kisame ti ha offerto per ringraziarti del tuo aiuto."
"Io… non vedo come possa essere utile per aiutare Madara." Kakuzu tornò ad abbassare lo sguardo, forse per nascondere l'imbarazzo generato dal non aver compreso le intenzioni dei due.
"Purtroppo in questo momento Madara sta perdendo di vista le cose più care che ha" intervenne Rin "Mi riferisco a te, Kakuzu. Sappiamo che lo ami e che è sempre il tuo primo pensiero, ti chiediamo di stargli vicino. Anche io e Obito ci iscriveremo alla palestra."
"Non saprei, Rin, Madara non fa altro che evitarmi, forse potrebbe non gradire la mia presenza anche lì" Kakuzu non sollevava ancora lo sguardo.
"Kakuzu, io lo conosco da quando è nato" stavolta a parlare fu Obito "Si chiude in sé stesso quando sente un vuoto, se anche la persona che ha accanto si ritira per lui è finita. Ora sta a noi andargli incontro per tendergli una mano, il suo modo di fare non deve intimorirci. Noi saremo tutti lì per aiutarlo."
"Quindi, non mi state chiedendo di… farmi da parte per lasciarlo libero?" Kakuzu tornò a guardarli nascondendo, per scaramanzia, il sollievo che stava provando.
"No, perché la cosa che da sempre ha fatto più soffrire Madara è proprio quella, accorgersi che le persone a cui tiene si allontanano da lui." Obito continuava la sua spiegazione sereno "La maledizione della famiglia, come la chiamo io, è vedere cadere nel vuoto le proprie attenzioni. Continua ad essere espansivo con lui anche se in questo momento è dura, è l'unico modo per fargli aprire gli occhi e fargli capire che tutto quello che ha sempre desiderato è proprio lì, basta solo che lui allunghi una mano. Qualunque abbaglio in questo momento potrebbe farlo scivolare pericolosamente, dobbiamo essere tutti lì per impedirlo. Ha già sofferto abbastanza nella vita per farsi male di nuovo."
La mano di Obito si strinse ancora di più su quella di Kakuzu in segno di incoraggiamento e fiducia. Anche l'omone sorrise non sentendosi più così fuori posto in quel locale con i suoi amici. Se anche loro si accorgevano di quanto amasse Madara, significava che il sentimento era vero e forte e che prima o poi avrebbe sfondato. Kakuzu si sentiva rincuorato e ce l'avrebbe messa tutta per la persona che amava, non poteva chiedere di meglio. Si era accorto che Madara stava per fare un tremendo scivolone, ma, fino a quella sera, non aveva avuto idea di come fermarlo.
Kiba si sentiva girare vorticosamente la testa. Uccelli dalle grandi ali gli giravano intorno. Un lupo e una tigre ruggente lo fecero sobbalzare. Una ragazza guardava la scena standogli di spalle, lunghi capelli folti e ondulati le ricadevano sulla schiena. Una farfalla le si posò sulla testa, Kiba strizzò gli occhi incredulo, aveva le ali fatte di fiori. Un vulcano sullo sfondo, eruttava lava nera; probabilmente avrebbe investito quella baita che si trovava più in basso. Il prato di fiori sarebbe stato inesorabilmente incenerito e la ragazza divorata dalla tigre? Eppure stava là tranquilla e per niente intimorita, né dal vulcano né dagli animali feroci, sembrava osservare tranquilla un boschetto di cipressi. I fiori avevano forme strane, si muovevano, erano cangianti pur essendo in bianco e nero. Era tutto in bianco e nero, molto marcati e fortemente contrastanti, i grigi e le sfumature non esistevano; il vulcano, la ragazza, la farfalla di fiori, il lupo, la baita…
Sono gli stessi tuoi colori. Quasi tu facessi sempre un autoritratto sia pur con figure differenti.
La casa non stava per essere spazzata via, la ragazza non sarebbe stata incenerita o divorata, semplicemente perché ogni elemento si trovava su una tela diversa.
Kiba deglutì aggrottando le sopracciglia, la gola talmente secca da fargli male. Non gli era mai accaduta una cosa del genere.
Nessuno o quasi sapeva che Sai sapeva disegnare così bene, era entrato nella palestra in qualità di semplice imbianchino ai tempi in cui Itachi aveva notato il suo talento inconsapevole nell'arrampicata. Ma ora Kiba era venuto a conoscenza di un'altra attitudine forse anche migliore delle sue abilità di acrobata. I colori che usava erano gli stessi di cui era costituito il suo corpo, il nero dei capelli e degli occhi, il bianco della pelle. A giudicare da quello che aveva appena vissuto, Kiba non ebbe la minima ombra di dubbio che in quelle figure ci fosse racchiusa la sua anima. Si erano mosse interagendo addirittura tra loro, ma contemporaneamente stavano là, appese al muro, ognuna confinata nella sua tela.
"Kiba?"
La voce di Sai gli giunse ovatta e rimbombante, come se provenisse da un'altra dimensione. A quel richiamo, i suoni emessi dai disegni di attenuarono poco a poco. La tigre smise di ruggire, il vulcano di rombare minaccioso, il lupo di ringhiare. Come se smettesse miracolosamente di vederci doppio, Kiba percepì la farfalla con le ali di fiori e gli uccelli ritornare bidimensionali per riprendersi i loro posti fissi e immobili.
"Kiba?"
Sei uscito dalle tele per ritornare nel tuo corpo. Dannazione, ma che succede?
Kiba si voltò verso un Sai sorridente e sereno alle sue spalle, si rese conto di avere la faccia sconvolta per questo cercò di togliersi dall'imbarazzo cercando disperatamente una giustificazione. In realtà sarebbe servita più che altro a sé stesso, per spiegarsi quanto aveva appena visto: "Ehm… conosci la sindrome di Stendhal?"
"Ne ho sentito parlare, sì. Conoscerla è inevitabile per un artista."
Il viso era sempre pacato, a Kiba parve di scorgere un impercettibile sorriso che coinvolgeva gli occhi a malapena.
Solo a me è concesso accorgermi di queste piccole sfumature che hai, quelle che non metti mai nei tuoi disegni.
Era in bianco e nero anche nei vestiti quel giorno, una maglietta aderente totalmente nera, pantaloni con su disegnate delle zebre che andavano a confondersi nelle loro stesse strisce, era quasi impossibile distinguere i musi dai corpi o dalle zampe. Kiba riusciva ad orientarsi un minimo distinguendo qualche occhio qua e là, da lì ricostruiva un poco la figura dell'animale per poi perdersi di nuovo dopo qualche secondo.
Sembra quasi che tu lo faccia di proposito, ti ci diverti un sacco con queste cose, vero?
"Credo di avere appena scoperto di averla, la sindrome di Stendhal" Kiba udì la sua stessa voce tremare.
Sai inclinò il bel viso di lato, era un invito per Kiba a continuare la sua spiegazione, Sai mostrava così il suo interesse e la sua curiosità.
"Libero di non crederci ma ho visto questi disegni animarsi. Il vulcano e la tigre mettevano davvero paura, credevo che la ragazza stesse per morire. Sentivo anche i suoni, davvero. Persino i fiori parevano vivi. Nonostante siano scene e tele diverse io li ho visti interagire insieme, appena mi hai parlato tutto è tornato al suo posto."
Le parole di Kiba erano uscite a raffica, addirittura lo avevano lasciato con gli occhi sgranati e il respiro accelerato.
Sai sorrise assottigliando gli occhi, nascose per un attimo le labbra carnose dietro la punta delle dita: "Sì, effettivamente potrebbe essere la sindrome di Stendhal. Deduco che tu non abbia visitato molti musei se hai scoperto di averla soltanto oggi. Vedrai che quando imparerai a padroneggiarla senza farti prendere dal panico diventerà un'esperienza fantastica. È un dono che purtroppo io non ho, sei fortunato."
Sai uscì dal salotto con movimenti flemmatici: "Ti va una tartina?"
Kiba restò di nuovo pietrificato e incapace di rispondere, aveva appena notato che tutta l'intera casa di Sai era in bianco e nero. Pavimento a scacchiera in tutte le stanze, le porte nere messe in contrasto con il bianco dei muri. Il divano e le poltrone bianchi, lampadari e lampade in ferro battuto neri. Anche alcune sculture, sempre rigorosamente nere. Dello stesso colore, persino le persiane fuori dalle finestre. I mobili in legno che aveva intorno, neri, statuine bianche dietro le loro vetrine.
Perbacco, riuscirò mai ad abituarmi ad una cosa del genere.
Aveva l'impressione di essere all'interno di una foto d'epoca. Forse il tempo aveva subito una distorsione? Entrò in cucina notando che anche lì la facevano da padrone gli stessi colori. Nero era il tavolo e i pensili, bianchi il piano cottura e il marmo del bancone si cui Sai stava preparando qualcosa.
Kiba si avvicinò silenzioso fino a scorgere un vassoio con delle deliziose piccole tartine con salmone, burro e cipolla rossa finemente triturata. Era bianco. Il castano osservava il bellissimo profilo dell'altro, il naso dalla forma perfetta. Sai terminata l'ultima tartina, invece di posarla sul vassoio la mise tra le labbra di Kiba. Era deliziosa, la fine del mondo, Kiba masticava senza riuscire a staccare gli occhi da Sai.
"Perché, nonostante tu sia così bravo a disegnare, hai fatto l'imbianchino fino al giorno in cui Itachi ti ha notato?"
"All'Accademia delle Belle Arti non mi hanno preso" incredibile come Sai riuscisse a mantenere l'espressione serena pur parlando di un insuccesso "L'esaminatore definì i miei disegni addirittura troppo inquietanti, ma questo è il mio stile, non me la sono sentita di violentarlo e snaturarlo solo perché a una persona non piace. Mi sono semplicemente detto che doveva pur esistere qualcuno al mondo capace di apprezzarlo, bastava aspettare che arrivasse."
Kiba restò interdetto per l'ennesima volta, Sai di scelte in gioventù ne aveva fatte eccome accettandone sempre le conseguenze, non come lui che era rimasto fermo per paura di assumersi qualunque responsabilità. Sebbene avesse finito il suo crostino, il castano rimase incantato per diversi secondi che a lui parvero interminabili. Poi si mosse, non poté fermare le sue mani mentre scendevano sulla vita del moro fino ad arrivare, senza troppe cerimonie, sulle natiche perfette e allenate. Gli occhi neri si fecero languidi, le labbra si dischiusero leggermente come se fossero in attesa di lui. E Kiba era in attesa di questo momento da tutta la vita, in tutto quel tempo attraversato avendo paura di diventare adulto e di fare delle scelte. Le sue mani si strinsero mente quelle dell'altro gli afferravano il viso. Sai chiuse gli occhi facendo capire a Kiba che il momento era arrivato, toccava a lui scegliere, stavolta.
Questa porta aperta. Grazie, Naruto.
Le bocche si toccarono, si divorarono. I respiri erano concitati mente le mani artigliavano e stringevano. Kiba, con una mezza piroetta, sbatacchiò violentemente il moro di schiena contro le ante di una credenza, nera. I piatti all'interno tintinnarono, Kiba li immaginò bianchi. Lo schiacciò fortissimo tra il legno e il suo corpo. Sebbene Kiba sovrastasse l'altro sia di altezza che di muscoli, era riuscito nel suo intento solo perché Sai aveva voluto. Il moro era un acrobata e di conseguenza molto più agile di lui, in casi come questi la forza non conta; Kiba ne era consapevole ma aveva fatto comunque quella mossa. L'amore era diventato il suo motore per smuoversi dall'inerzia. L'odore della pelle di Sai era molto evanescente, leggermente floreale, c'era e non c'era come i suoi disegni quando Kiba li aveva visti muoversi. Le sue mani però erano reali e ora si stavano stringendo sulle spalle di Kiba. Il castano slacciò la cintura di Sai facendo afflosciare le zebre sul pavimento; subito dopo, due mani bianchissime fecero lo stesso con i suoi jeans e boxer. Sai lasciava che fosse sempre lui a prendere l'iniziativa, ma bruciava di voglia, il suo sesso e ogni muscolo del suo corpo erano in tensione. Tutto quello che nascondeva sempre sotto la sua maschera di calma assoluta stava esplodendo adesso. Era un contrasto di bianco e di nero, due opposti in una sola persona. Le bocche, che non si erano staccate mai dall'inizio, non lo fecero neanche ora che Kiba stava sollevando le gambe del moro fino a farli toccare, con le ginocchia, il legno dietro di lui. Non si lamentò, per uno flessibile come lui questa era una posa praticamente normale. Kiba ne fu immensamente felice, in quel momento realizzò che con lui avrebbe potuto sperimentare posizioni impossibili con altri. Non resistette oltre vedendolo messo così, Kiba gli scivolò dentro. Usando anche il bacino per sostenerlo, si accorse di come si incastrassero alla perfezione. Sai lasciò andare in gemito mentre Kiba gli costringeva i polsi con le sue mani sospingendoli oltre la testa. Sentiva il corpo totalmente in fiamme e la ragione a malapena raggiungibile. La smania gli mordeva il bassoventre. Movimenti perfetti, la testa del moro colpì il legno, erano onde morbide sulla cui cresta arrivò l'orgasmo di entrambi. Mentre Kiba lasciava scivolare di nuovo Sai a terra, la carezza di quella pelle bianca gli ricordò la farfalla con le ali di fiori.
Contrasti negativi; quelli che ti mangiano dentro logorandoti lentamente di sicuro lo sono. Tuttavia esistono anche quelli positivi, il bianco e il nero non devono essere per forza agli antipodi, possono anche scegliere di completarsi a vicenda, ognuno donando all'altro ciò di cui è carente. Questo non significa che debbano trasformarsi in grigio, quando sono vicini mantengono la loro unicità senza stonare.
Note autrice:
Qui veniamo a sapere che Kiba ha la sindrome di Stendhal, una combinazione perfetta se messa con Sai. Se nel Modern AU nessuno a poteri, basta solo fare delle piccole deviazioni per farli tornare ad essere sé stessi.
