Comunicazione di servizio: il doppio aggiornamento (martedì e venerdì) continuerà anche per il mese di Luglio! Tornerà ad essere settimanale in Agosto. Fine comunicazione.
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Ostacoli e incontri
Elroy Ardlay aprì gli occhi e si sentì sfinita. Alla fine era stata costretta a prendere la sua medicina: il dottor Leonard le aveva raccomandato una dose doppia ma questo le aveva provocato un mal di testa colossale.
Si tirò a sedere con fatica, allungando una mano verso il comodino per afferrare la campanella e chiamare la sua cameriera, ma si bloccò a mezz'aria con un verso strozzato.
"Oh, grazie cara, sei molto gentile. La dose è scritta sulla confezione".
"Oh, che sbadata! Ho dimenticato di allungarla come si deve. Permetti, zia?".
"Starò qui con te finché non ti addormenti, se ti fa piacere".
"Grazie Eliza, sei veramente... molto gentile".
"Il corriere ha dichiarato di aver ritirato la merce a Lakewood in un momento in cui c'era solo la servitù, ma nessuno di loro dice di averlo visto".
Il respiro le divenne affannoso e la donna cominciò a vedere sfocato, il mal di testa improvvisamente mutato in un martellare continuo in cui si alternavano le voci di Eliza e di George.
Quella sera Eliza ha voluto darmi la medicina personalmente e ho dormito come un sasso. Ma al mio risveglio mi sentivo proprio come ora.
Il petto le si bloccò, schiacciato da un peso improvviso e devastante che le fece gemere una flebile richiesta di aiuto, un suono disperato che nessuno avrebbe mai potuto sentire. Con l'ultimo barlume di lucidità, travolta alfine dalla mole di eventi che si erano succeduti, la matriarca degli Ardlay si sporse fino a rimanere in equilibrio precario con un braccio sul comodino e il corpo, ancora pesante, bloccato sul letto.
Dio mio, non ora, non prima che io possa...
Sbilanciata, cadde a terra trascinando con sé il mobile e tutto quello che c'era sopra, con un fracasso infernale che lei udì appena prima di perdere conoscenza.
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Pezzi di iceberg sommersi nel gelo di un mare notturno.
Uno scenario ignoto e appena visibile, pericoloso ma attraente in maniera perversa.
Così le apparivano i frammenti della sua memoria malata, che poteva ma non voleva raggiungere. Che era grata le sfuggissero. Che era terrorizzata di ripescare e rivelare sotto al pelo dell'acqua.
Era una donna senza passato, senza emozioni e senza speranze. Odiava tutto ciò che la circondava, come se la colpa della sua condizione ricadesse senza distinzioni sul mondo esterno e su tutto il genere umano.
Respirando pesantemente, Candy scese dal letto godendosi la penombra forzata della sua piccola stanza e andò in bagno per sciacquarsi la faccia accaldata. Alzò il viso sullo specchio, ancora gocciolante, e si perse per un attimo su quei lineamenti che le apparivano sempre nuovi, non suoi.
Non le appartenevano quegli occhi di un verde intenso. Non le appartenevano quelle stupide lentiggini che le punteggiavano il naso...
"Tarzan. Tarzan Tuttelentiggini!".
Emise un gridolino, portandosi le mani alla testa: e ora di chi diavolo era quella voce arrogante?! Una voce maschile che non era quella di William, ma che non mancò di scuoterla.
"Si chiamano Dolce Candy, perché sono dolci come te".
Gridò più forte, cadendo in ginocchio, piangendo per il dolore che le trapanava il cervello. Udì a malapena il rumore di passi in avvicinamento. Un'altra voce ancora. Così tenera, così... giovane.
"Sei più carina quando ridi che quando piangi".
"NOOOOO!", strillò accucciandosi sul pavimento in posizione fetale, mentre mani esperte l'aiutavano a rialzarsi e la voce, stavolta reale di Frannie, la incitava a stare calma mentre la riportava a letto.
Una volta raggiunto, ritrovò la posizione di poco prima e prese a graffiarsi il cuoio capelluto, strappandosi via ciocche intere di capelli e lamentandosi pietosamente tra le lacrime, domandandosi perché l'ultima che aveva ricordato o solo immaginato le avesse fatto così male.
Era quella di William.
"Ora smettila, Candice!", gridò imperativa Frannie, spostandole a forza le braccia dal capo. Alcune ciocche le erano sfuggite dalla coda e sembrava spaventata.
Lei continuò a dimenarsi, volendosi liberare da quella stretta. "Dammi qualcosa per non sentire queste voci, non voglio sentirle, mi hai capito? Voglio il calmante, voglio...!".
Dietro gli occhiali un po' storti per quella specie di lotta fra loro, vide gli occhi dell'infermiera spalancarsi prima che la inducesse a tacere emettendo un sibilo tra i denti. Incuriosita da quella reazione non prevista, Candy si bloccò all'improvviso, rilassando i muscoli, ancora tesa e nauseata.
Ora le aveva udite anche lei e non erano nella sua testa. Urla, urla di donna. Poi una voce baritonale che sembrava invocare un medico.
Frannie si scostò da lei, guardando verso la porta: "Credo che stia accadendo qualcosa di grave. Vieni con me", le ordinò.
"Io non voglio...!", cominciò, decisa a ribellarsi.
"Tu farai come ti dico io! Questa è la tua famiglia, che ti ha accolta invece di mandarti in un centro psichiatrico e comincerai a mostrare un po' d'interesse per quello che ti succede attorno", alzò la voce lei guardandola con occhi di ghiaccio.
Candy si mise a sedere sul letto, respirando a fatica mentre la testa e lo stomaco le mandavano stilettate a ritmo col battito impazzito del suo cuore. "Non posso uscire, ho paura".
"Mi sembra che per uscire dalla tua stanza a prendere questi libri tu non abbia avuto grosse difficoltà", commentò lei avvicinandosi al suo comodino e disfacendo la pila ordinata di testi, scorrendo i titoli senza apparentemente leggerli.
"Come ti permetti?!", la redarguì alzandosi e togliendoglieli dalle mani.
"No, come ti permetti tu!", ribatté Frannie indicando la porta. "Lì fuori c'è gente che ti vuole bene e che sta facendo di tutto per aiutarti e ti assicuro che non è da tutti avere una fortuna come questa!".
Dietro le urla, dietro alla sua espressione impassibile, Candy scoprì che riusciva a notare qualcos'altro sfigurare il viso serio e composto di Frannie. Non era molto, appena un leggero tremito delle labbra, ma fu sufficiente per indicarle la sua fragilità.
Per la prima volta da quando si era svegliata, Candy provò un sentimento diverso dall'egoistica sofferenza che le ardeva nelle viscere.
Pietà.
Per lei? Per quella signora anziana che non sembrava gradire la sua presenza ma non l'aveva neanche cacciata? Per la ragazza di nome Annie che stava cercando di aiutarla a ricordare? Per il gentile dottor Carter che tentava di guarirla?
Non lo sapeva bene, ma contro ogni sua aspettativa, quell'imprevisto e le parole urgenti di Frannie la scossero: "Va bene, andiamo. Ti seguo", disse tremando.
Come per magia, non appena cominciò a concentrarsi sui suoi passi e sulle voci all'esterno della stanza, la nausea e il mal di testa si affievolirono fin quasi a sparire.
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Terence arrivò davanti alla villa di Chicago e guardò il vistoso portone stagliarsi sull'imponente edificio.
Quando abbassò gli occhi dall'enorme facciata bianca decorata con fregi e sulla quale spiccavano grandi finestre su entrambi i piani, vide che stava entrando un uomo con un abito elegante e un paio di baffi che gli ricordarono i nobili inglesi: sembrava stremato e camminava curvo, pur mantenendo una certa dignità.
Sembrava così piegato per via degli ultimi eventi? Era quindi vero ciò che i giornali affermavano? Quella e altre mille domande gli si affollarono nella mente, mentre si avvicinava e cominciava ad essere pressoché certo della sua identità. Tuttavia, non ci fu bisogno di parlare, perché non appena lo vide anche l'uomo sembrò riconoscerlo. Con un sorriso appena accennato disse: "Buonasera, signorino Graham, cosa la porta qui?", chiese.
"Lei è George Villers, vero?", domandò avvertendo il cuore battere più forte.
L'uomo annuì: "Mi deve perdonare se non la invito a entrare, ma come avrà letto sui giornali il momento è... delicato". Il volto di George appariva trasfigurato e stanco, come se si stesse occupando di una serie di problemi completamente da solo.
Per un istante, Terence fu tentato di andarsene senza dire una parola, ma l'urgenza di sapere come stesse Candy ebbe il sopravvento sul rispetto e sulla buona educazione: "La prego, voglio vederla. In effetti ho letto i quotidiani e... per favore, mi dica che sta bene".
George sospirò: "La signorina Candy sta... bene. Ma non può vederla, al momento. Non è vero che è sparita, però è vero che qualcuno ha giocato sporco e ha incastrato William e il signorino Cornwell. Sono appena tornato da un incontro con i nostri avvocati", disse eludendo in parte la sua richiesta.
Terence si accigliò, concentrato solo su quell'esitazione iniziale: "Sono certo che Albert sia innocente, non ho dubbi sul fatto che sarà presto tutto finito. Ma, tornando a Candy... che significa che non posso vederla?", andò dritto al punto, pur sapendo che forse stava tirando troppo la corda, vista la situazione. Ma non poteva ignorare la voce interiore che gli gridava che qualcosa non fosse del tutto corretto.
Vide George irrigidirsi e fu certo che gli stesse nascondendo qualcosa. Il vento della sera cominciò a rinfrescare e lui era sfinito, affamato e non sapeva neanche dove avrebbe alloggiato. Ma non si sarebbe mosso da lì finché non avesse saputo.
"La prego di non insistere... la signora Elroy è molto malata, oggi ci ha fatto preoccupare seriamente e abbiamo temuto il peggio. Le ho già detto che la signorina Candy sta bene e risiede qui da noi".
Era a pochi passi da lui. Vicina eppure lontana, come sempre. Era la storia delle loro vite. Ma lui ormai si era rassegnato e si fidava di quell'uomo così cortese e paziente. L'istinto continuava a gridargli che c'era altro che gli sfuggiva, ma lo avrebbe scoperto in un modo diverso.
Con un sospiro stanco gli disse: "Va bene, la prego di perdonarmi per la mia inopportuna insistenza. Voglia portare tutto il mio sostengo a Candy e... anche alla signora. Spero si riprenda presto".
George chinò un poco il capo, come se facesse un leggero inchino. Sembrava davvero sollevato. "Se mi avesse telefonato avrei potuto tranquillizzarla senza che affrontasse un viaggio così lungo", disse più conciliante.
Terence scosse la testa: "Non si preoccupi, sono qui per lavoro e averla incontrata mi ha rassicurato di più", mentì.
"Bene, mi ha fatto piacere vederla. Ora, se vuole scusarmi...". Decisamente, George sembrava volergli celare qualcosa. Qualcosa di grosso. Qualcosa che forse non era autorizzato a dire.
Fu per questo che, mentre si voltava per aprire la porta, gli chiese: "Vorrei andare a trovare Albert. Pensa che sia possibile?". L'uomo si girò di nuovo verso di lui, con lentezza.
E glielo lesse, in quegli occhi così stanchi ma bonari, gli occhi di un uomo che ha affrontato mille tempeste ma che è disposto a trascinarsi nella tormenta per il bene della sua famiglia. Perché, capì, la devozione che emanava non era quella di un semplice servitore.
Lesse la conferma ai suoi dubbi.
"Le chiedo solo una cortesia. Domattina provvederò ad avvisare lui e il signorino Cornwell delle condizioni della signora, perché non si preoccupino troppo. Potrebbe recarsi in orario pomeridiano, così che se l'argomento venisse toccato lui ne sia già informato in maniera consona?".
Aveva pensato proprio a tutto. Pur avendo perfettamente capito che avrebbero parlato di Candy, sapeva benissimo che gli avrebbe augurato anche una pronta guarigione per sua zia.
"Nessun problema, George, stia tranquillo. Non so come ringraziarla per tutto quello che ha fatto per me e... se c'è qualcosa che posso fare io, anche testimoniare a suo favore, la prego di farmelo sapere. Albert è mio amico di vecchia data, dopotutto".
Il sorriso sotto i baffi curati dell'uomo si allargò: "Grazie di tutto cuore, mi consulterò con i nostri avvocati per questo. Buona serata, signorino Graham", si congedò alfine, entrando e chiudendo il portone con un rumore che echeggiò nel silenzio del quartiere residenziale.
Terence si avvicinò e alzò una mano tremante per toccare la parete esterna poco a destra di quell'entrata che gli era stata vietata. Chiuse gli occhi e in quel tocco ruvido e freddo cercò d'imprimere tutto il suo sostegno e l'affetto che gli colmavano il cuore.
Forse stava imparando ad amarla in modo diverso, ma Candy per lui era ancora troppo preziosa.
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Billy Gonzalez sudava copiosamente mentre l'uomo davanti a lui camminava su e giù per la stanza. Indossava un impermeabile nero e la solita sciarpa grigia avvolta intorno al viso, sopra la quale spuntavano solo due occhi neri come la pece che gli ricordavano tanto le illustrazioni di fine Ottocento con soggetti i vampiri.
Da quando aveva accettato del denaro da lui, che aveva subito inviato alla sua famiglia in Messico, le cose erano precipitate e aveva dovuto commettere una serie di azioni che considerava riprovevoli.
Come tradire il signor Ardlay, che lo aveva sostenuto nonostante la chiusura della distilleria.
Non morivano certo di fame, ma per crearsi un nuovo giro d'affari nel mercato del sidro si era dovuto recare a Chicago e per rimettersi in pista non bastava neanche il generoso assegno mensile di quello che era stato il loro maggiore azionista.
Non aveva avuto il coraggio di guardarlo negli occhi, in tribunale, ma aveva sentito i suoi puntati su di lui per tutto il tempo.
Sapeva che sarebbe stato dannato per tutta la vita per ciò che aveva fatto.
Però ora poteva comprare una casa più grande per sé e sua moglie, e sua figlia avrebbe finalmente ricevuto la dote per sposarsi. Inoltre, i suoi investimenti sarebbero rifioriti.
Ma adesso capì che aveva fatto un patto col Diavolo e, quando il demone in questione gli disse con voce roca e urgente: "Seguimi!" e uscì fuori nella notte insieme a lui, capì che era giunta l'ora di consegnargli la sua anima.
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Adrian Carter riattaccò il telefono dello studio e uscì nel corridoio. I suoi passi risuonarono quasi sinistri nel silenzio della sera.
Lei era lì, fuori dalla porta, appoggiata al muro come in attesa.
Quando si voltò verso di lui, incontrò il riflesso dei suoi occhiali e poi il suo sguardo profondo che sembrava trapassarlo senza vederlo davvero.
"Il dottor Leonard dice di monitorarla ogni tre ore per controllare i segni vitali ma è ancora certo che, non trattandosi di infarto, non si verificherà nessuna emergenza", disse riferendo la sua conversazione con il primario del Santa Joanna.
Frannie sospirò, incrociando le braccia: "Non capisco perché non abbia voluto andare in ospedale. Comprendo che siano i principali azionisti della struttura e possano permettersi di decidere, ma lì sarebbe stata più al sicuro".
Lui si strinse nelle spalle: "Lo sai che se il medico avesse sospettato qualcosa di più grave sarebbe stato molto più fermo nelle sue indicazioni. Ma, come tu stessa m'insegni, l'angina pectoris può essere trattata adeguatamente anche con medicinali e alimentazione corretta per ridurre il rischio d'ischemia".
La vide inarcare le sopracciglia, sembrava colpita: "Ne sai molto per essere uno psichiatra", disse infatti lasciando ricadere le braccia sui fianchi.
Adrian le si avvicinò di qualche passo, attratto da quella sua apparente freddezza come una falena da una candela. Avrebbe voluto sciogliere quel ghiaccio che aveva nel cuore passandole una mano sulla nuca e attirandola in un bacio appassionato: non sapeva se Frannie fosse cosciente di avere delle belle labbra.
Fissando lo sguardo proprio sulla sua bocca, cercò di darle una risposta adeguata: "Anche tu conosci i segreti del sonno e l'effetto che ha sul cervello umano, pur essendo solo un'infermiera", ribatté con voce più profonda. "E uno psichiatra deve conoscere le basi della medicina. Inoltre mi piace tenermi sempre aggiornato sulla materia che amo...".
Come se quel verbo fosse stato rivolto a lei e non alla medicina, alzò una mano come in sogno per sfiorarle il mento e si accorse a malapena dell'espressione di lei: oltraggio, panico, stupore... non sapeva. Sapeva solo che le aveva appena toccato la pelle sotto al labbro inferiore con il pollice che lei gli schiaffeggiò via la mano: "Che diavolo stai facendo?", gli chiese in un sibilo.
Lui si ritrasse, chiuse gli occhi e sospirò profondamente: "Niente, infermiera Frannie, mi sono solo illuso per un istante che passare a darci del tu significasse qualcosa. Ma se devo continuare a trattarla come una semplice collega, tanto vale tornare al lei".
Frannie si accigliò, non sembrava affatto toccata da quelle parole: "Come preferisce, dottor Carter. Ora, se vuole scusarmi, mi ritiro nella mia stanza".
Mentre si voltava, con la schiena dritta e la coda di cavallo che le ondeggiava da un lato all'altro, Adrian si vide afferrarla e circondarle la vita con un braccio, prima di darle finalmente quel bacio che anelava da quando l'aveva conosciuta in ospedale.
Chissà come sarebbe stato sentire contro il proprio quel corpo così accuratamente coperto dalla divisa da infermiera, che aveva avuto la fortuna di vedere solo una volta avvolto da una vestaglia leggera. E accarezzare con la sua quella lingua così tagliente, fino ad addolcirla con il suo respiro pieno d'amore.
Aveva compreso l'enorme sofferenza che si celava dietro al cuore all'apparenza duro di Frannie e i pochi sprazzi di umanità che aveva visto in lei non gli erano sfuggiti. Non bisognava essere uno psichiatra per capirlo: quella donna era stata segnata dalla vita molto più che dalla sua esperienza come crocerossina che, anzi, l'aveva di certo resa più forte e sicura nei confronti del mondo.
Ma a cosa valeva quella forza quando si rifiutava di innamorarsi davvero? Come avrebbe potuto superare le sue barriere, ora che Frannie stava combattendo contro un sentimento che non sarebbe mai stato ricambiato e che, con tutta probabilità, si sarebbe rivelato il motivo principale della sua chiusura verso tutti gli altri uomini?
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"Maledetto proibizionismo. Maledetto Neil! Maledetti tutti! Voglio uscire, devo tornare dalla mia famiglia, mi sentite? Siamo uomini d'onore!". Archie sbatté la mano sulle sbarre della cella accanto, facendolo sussultare. Era da un'ora che lo sentiva camminare senza sosta e aveva cercato di instaurare un dialogo, ma aveva ottenuto solo monosillabi e imprecazioni.
Decisamente, Archie stava perdendo la testa. E non dipendeva solo dalle ultime notizie che avevano ricevuto sulla zia Elroy. George era stato molto chiaro, la donna era strettamente controllata dal medico e dall'infermiera e stava meglio. Però doveva evitare lo stress e quello sarebbe stato più difficile, in un momento simile.
Albert si sentì sulle spalle una responsabilità enorme: doveva uscire da lì anche per la sua famiglia e non solo per se stesso.
"Calmati, nipote, o potrebbero mandarti in isolamento", lo avvisò Albert, seduto sulla branda con i gomiti poggiati sulle ginocchia e la schiena curva. Aveva sentito parlare di una cella dove gettavano i carcerati particolarmente rumorosi o fastidiosi e non voleva che lo relegassero lì.
Nessuno dei due avrebbe retto a una cosa simile.
Dal canto suo, lui ormai era rassegnato. Sperava solo che i suoi avvocati facessero il possibile per tirarli fuori, prima che il buon nome della sua famiglia fosse del tutto infangato. I giornali stavano già banchettando con la notizia dei due membri del clan Ardlay in galera per aver contravvenuto alle leggi e George avrebbe dovuto fare i salti mortali per riparare quell'errore clamoroso.
Chiunque avesse divulgato la notizia voleva rovinarli e forse si trattava della stessa persona che aveva architettato tutto ciò.
Albert si nascose il viso tra le mani, sperando che la zia Elroy sopportasse stoicamente tutto com'era solita fare, ripetendo ad Archie di smettere di agitarsi. Cominciò a fargli male la testa a forza di pensare.
"Signor Ardlay, ha una visita!", annunciò una guardia sbattendo il suo sfollagente sulle sbarre. Albert alzò gli occhi e si ritrovò davanti Terence. Per qualche istante pensò che si trattasse di un miraggio dovuto alla mancanza di sonno e di cibo decente.
"Ciao, Albert. Ti trovo dimagrito", esordì mentre entrava nella sua cella e la guardia dichiarava che avevano solo dieci minuti.
"Che ci fai qui?", fu l'unica cosa che gli uscì dalle labbra, mentre si alzava come in sogno per guardarlo bene.
"Sei venuto a ridere di noi, vero?!", strillò il nipote dalla sua cella.
"Archie, per favore!", lo ammonì spazientito, provocando borbottii e insulti sempre più indistinti.
"Veramente sono venuto per aiutarti. Ma se non t'interessa...". Fece un gesto con la mano e si girò come se volesse andarsene.
Albert alzò un sopracciglio: "Aiutarmi? E in che modo?". Non lo vedeva da molto tempo e la loro riunione stava avvenendo nel luogo e nel momento sbagliati. Gli sembrava fossero passati mille anni da quando ridevano, spensierati, nella sua capanna allo zoo di Londra.
Lui si strinse nelle spalle, tornando sui suoi passi con le mani in tasca: "Voglio lasciare una dichiarazione nella quale confermo che sei una brava persona. Magari potrei anche testimoniare al processo. Non so a quanto possa servire, in realtà".
Albert si ammorbidì: "Beh, non a molto, temo. Ma grazie per le intenzioni". Nonostante le parole gentili, la distanza che c'era tra loro era abissale. Albert capì che amare la stessa donna aveva scavato un solco profondo che era impossibile colmare. E capì anche che Terence non era lì solo per offrirgli il suo aiuto.
"Non lo faccio solo per te e per l'amicizia che ci lega", disse infatti guardandolo negli occhi con un'espressione intensa. "Lo faccio anche per Candy", concluse come se si aspettasse una spiegazione.
Spiegazione che Albert non seppe da che parte cominciare a dargli: una parte di sé si rimproverava da quando Candy era caduta da quel cavallo ed era certo che l'amico avrebbe fatto lo stesso: "Terence...", cominciò schiarendosi la voce.
"Voglio sapere perché la state nascondendo", lo interruppe. "Il tuo braccio destro mi ha detto che sta bene, ma mi ha impedito di entrare e non credo che sia solo per i problemi che state affrontando adesso. L'hai rifiutata? Soffre perché sei qui? O è malata?". Davanti a quella cascata di richieste, Albert chiuse gli occhi per un istante, assorbendo tutta la sua frustrazione. D'altronde era stato lasciato da Candy e le sue speranze erano morte definitivamente: eppure non riuscì a empatizzare con lui più di tanto.
Non quando tutto il mondo gli stava crollando addosso.
"Candy ha perso la memoria", disse lentamente, "non si ricorda né di me, né di te, né di nessun altro", aggiunse poi sentendosi più implacabile di quello che intendeva. Una volta avrebbe fatto più attenzione alla scelta delle parole, ma aveva superato i suoi limiti parecchio tempo prima e non era più lucido come avrebbe desiderato.
Albert si accorse che Terry era rimasto senza fiato: "Che cosa?", biascicò, pallido come un cencio.
"Stavo per mandarti un telegramma, ma ci ho ripensato", mentì. "Eliza l'ha fatta cadere da cavallo quasi un mese fa", spiegò crollando a sedere sul letto con la testa fra le mani.
"E tu dov'eri, razza di...?". Fece un passo verso di lui, forse con l'intenzione di sferrargli un pugno. Ma si bloccò a metà azione.
"...idiota?", concluse per lui. "Ero nel mio studio e fino al giorno prima stavo cercando di farla cavalcare da sola. Si da il caso che tu le abbia fatto superare il trauma della morte di mio nipote Anthony solo per metà". Si ricordava benissimo di quando Candy gli aveva raccontato della cavalcata forzata alla Saint Paul School. Forse era stato proprio allora che si era innamorata di Terry?
Terence rimase a bocca aperta, chiaramente sconvolto, e Albert distolse lo sguardo.
D'improvviso, senza alcun segnale che lo allertasse, Terry lo sollevò per la collottola e gli centrò lo stomaco con un pugno di discreta potenza. Si rese vagamente conto che, all'ultimo istante, sembrava averla voluta controllare.
Espirò aria con un singulto strozzato e ricadde a sedere, trattenendo a stento i conati. Non aveva immaginato che la sua ostilità si sarebbe palesata con tale violenza.
"Sei impazzito?", riuscì solo a dire boccheggiando, temendo di vomitare quel poco che aveva mangiato.
"Mi dispiace, perdonami. Non avrei dovuto, specie nelle tue condizioni, ma...". Sentì i suoi passi nervosi mentre cercava di riprendere il controllo.
Le mie condizioni...
Se il suo deperimento era visibile anche a Terence doveva essere più grave di quel che pensasse.
"Che ti ha fatto quel matto?! Guardia, guardia!", ci aveva pensato Archie a lanciare l'allarme.
Senza fiato, Albert si limitò a guardare Terence negli occhi e, all'uomo che era accorso per capire cosa fosse successo, riuscì a parlare con voce quasi ferma: "Non è successo nulla, mio nipote è solo molto agitato. Ci lascia parlare? Mi sembra che siano passati ancora pochi minuti".
La guardia imprecò contro i rampolli viziati prima di allontanarsi e lui poté finalmente confrontarsi con il suo amico di un tempo: "Sei ancora innamorato di lei? Bene, mi dispiace per te, non è colpendomi così che la riavrai", disse raddrizzandosi in piedi e cercando di recuperare la compostezza. E, soprattutto, il suo orgoglio. Pensare che, un tempo, era stato lui a dover combattere in una rissa nella quale l'attore rischiava di finire male!
"Albert, sono stato un vigliacco a colpirti, lo ammetto, ma è stato più forte di me. Dopo che Candy mi ha lasciato ero sicuro che sarebbe stata in buone mani", riprese allargando le braccia e passeggiando per la cella. "Mi fidavo di te! Eri il mio amico forte e infallibile, quasi un fratello maggiore e, anche se ti ho odiato quando lei ti ha preferito a me, la convinzione che non potesse scegliere alternativa migliore mi ha fatto andare avanti! Ora scopro che è caduta nella trappola di quella... serpe velenosa senza che tu ti sia accorto di niente?!".
Albert deglutì abbassando gli occhi e in quel gesto impresse tutta la sua costernazione: "Pensi forse che io abbia sofferto di meno? Candy è sempre stata uno spirito libero e ha fatto le sue scelte in piena autonomia. Non mi sono mai dovuto preoccupare di controllarla se non da lontano, con discrezione, perché lei non solo non sapeva chi fossi ma non me lo avrebbe comunque permesso. Ci sono sempre stato per lei quando ne aveva bisogno. Quella mattina Neil mi ha distratto, è vero, ma non potevo immaginare che lui ed Eliza avessero in mente una cosa simile. E Candy sa badare a se stessa".
"Mi pare che dopo la sua partenza da New York il tuo amico George la stesse cercando da me. Quante volte ti sei distratto, Albert?", domandò con tono tagliente, guardandolo in tralice.
Decise di puntare di nuovo gli occhi nei suoi: "A me sembra che tu ti sia distratto per molto più tempo di me, facendola soffrire a lungo, Terence", ribatté evitando di nominare la povera Susanna. "E comunque, pensi che continuando a picchiarmi o ad addossarmi colpe le cose si risolveranno?".
Terence si passò una mano tra i capelli, mordendosi le labbra: "Questa conversazione non va da nessuna parte", concordò. "Dimmi almeno come andavano le cose tra voi prima... prima che...".
"Eravamo felici", rispose senza indugi, il cuore che gli veniva afferrato da una mano gelida al ricordo, "stavamo facendo una vacanza prima di annunciare il fidanzamento a mia zia e al Consiglio". Chiuse gli occhi, sentendoli bruciare.
"E adesso Candy non sarà più di nessuno dei due finché non recupera la memoria", disse con una risatina amara.
"Proprio così, Terence. Proprio così", confermò Albert ricadendo a sedere come se avesse esaurito, con quella conversazione, tutte le energie residue.
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Angolo dei commenti:
Charlotte:Carissima, oltre a preoccuparci per Candy e company ora dobbiamo preoccuparci anche di Terence, che sappiamo bene avere un carattere impulsivo e passionale: in effetti, se dovesse incontrarla ora, non credo reagirebbe bene... E, per un'ennesima crisi di Candy, finalmente la zia Elroy si decide a parlare! Speriamo che George sia in tempo per fare qualcosa! In tutto questo caos, Annie comincia a leggere nelle reazioni di Frannie e Carter questa specie di triangolo amoroso impossibile... però, diciamocelo, la povera Frannie sta cercando con tutte le sue forze di reprimersi, anche se a volte non ci riesce. Felice di averti provocato tante emozioni, forza e coraggio che è ora di un altro capitolo!
Guest: Alla fine la zietta si è decisa! Certo, poteva pensarci prima, ma ora l'importante è che George possa fare qualcosa di concreto per tirare i due poveretti fuori dal carcere. Terence potrebbe incontrare Candy oppure no. Potrebbe farla ragionare oppure ottenere l'effetto contrario... vedremo!
Ericka Larios: Aahahahah carissima Ericka, più che un tè ti suggerisco una camomilla, mi spiace per questa altalena di emozioni, ma... in realtà era proprio quello che volevo! Insomma, Terence potrebbe fare di tutto, conoscendolo, e magari contribuire a distruggere ancora di più questo fragile equilibrio. Frannie per il momento sta cercando di reprimere i suoi sentimenti, ma ci riesce sempre di meno... l'unica nota positiva è la confessione della zia Elroy, incrociamo tutti le dita e facciamo il tifo per George! Alla prossima curva di questo labirinto!
Sandra Castro: Tutto è molto caotico, vero? Specie ora che Terry torna sulla scena... e non quella del teatro! Ha letto i giornali ed è partito in quarta per Chicago! Meno male che almeno la zietta è rinsavita nonostante si senta male e stia confessando: ma potrà George fare qualcosa adesso? Annie è cambiata ma è anche molto osservatrice: riconosce gli sguardi di una donna innamorata in Frannie e Carter si sta scoprendo sempre di più: il triangolo amoroso è servito! L'importante è che il buon dottore stia cercando di sbrogliare la matassa dei ricordi di Candy, e sapere che è stata innamorata di Albert è davvero importante. Frannie reagisce per la prima volta al suo cuore, è vero, ma farà davvero qualcosa per impedire loro di tornare insieme? Al momento Albert è fuori dalla sua portata, in tutti i sensi. Lascia pure che la tua immaginazione vaghi, scoprirai solo leggendo come andrà a finire! Un abbraccio, alla prossima!
Elizabeth: Terry non ci ha pensato due volte a correre a Chicago, chissà ora che succederà... e meno male che almeno la zia Elroy si è decisa a parlare, speriamo ne venga fuori qualcosa di buono! George metterà di certo tutto in mano agli avvocati. Le reti telefoniche, dici? Però... sai che non ci ho pensato? Mi sembra più una cosa moderna, è una buona idea ma non so se all'epoca avessero tecnologie simili. Annie si sta facendo davvero tanta forza! Frannie, invece, probabilmente ha represso tanto a lungo la donna che ha dentro di sé che ora non riesce a nascondere molto bene le emozioni, anche se ci prova. Grazie di cuore, alla prossima!
