Determinazione

Eliza sentiva il tanfo delle fogne e le sue belle scarpe italiane affondavano, a ogni passo, in una melma che poteva anche essere solo fango, eppure sapeva pregna di altri liquami innominabili.

Quello non era solo il quartiere più malfamato di Miami, ma anche il più lurido.

Con sua grande sorpresa, però, non le importava che le scarpe o i lembi del suo vestito si rovinassero, perché stavano rischiando la vita, lei e Neil.

Lui aveva perso la testa, qualche giorno prima, ma nemmeno Eliza poteva dirsi lucida. Ancora non sapeva come avessero fatto a nascondere a sua madre l'enormità del disastro che incombeva su di loro, però benedì il fatto che lei fosse troppo impegnata con gli eventi sociali e suo padre perennemente in viaggio per individuare nuove location per i loro alberghi.

Toccava a loro due rimediare al disastro, semmai fosse ancora possibile, o il futuro di tutti sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi, in una strada come quella. O, nella peggiore, sei piedi sotto terra.

Rabbrividì e si strinse al braccio di Neal che lanciò un urlo sorpreso: "Dannazione, non farlo mai più!", sibilò. Ormai passava dalle dimostrazioni di affetto improvvise agli accessi di rabbia. Stava perdendo chiaramente la ragione.

"Ho... paura", disse tremando, pensando che anche a lei stava accadendo lo stesso.

"Anche io, dannazione!", ribatté stringendola a sé con un braccio mentre continuavano a camminare. Neil alzò lo sguardo ed Eliza lo imitò. Le insegne sembravano tutte uguali, ma quando videro quella dell'ex armeria dondolare con un cigolio appesa a un supporto di legno, capirono di essere arrivati.

Ora ansimavano entrambi, sapendo che dovevano entrare. Eliza pregò che ne uscissero vivi. Neil la spinse un poco mentre avanzava e dentro di lei il terrore le offuscò i sensi: davanti alla porta, si paralizzò e con uno scatto si volse per scappare via.

Non voleva morire. Le dispiaceva per suo fratello, ma lei non sarebbe morta.

La mano di Neal sul polso bloccò il suo slancio e lei fu proiettata contro il suo petto, con un gemito frustrato: "Lasciami andare, ti prego! Non vuoi che la tua sorellina muoia, vero? Tu sei un uomo, sei più bravo di me in queste cose, sono certa...".

Lui la scosse così forte che i denti le sbatterono: "Tu entrerai con me! Sei quella che ha fatto l'errore più grosso e ora ti prenderai le tue responsabilità!". Le goccioline di saliva la raggiunsero sul viso e lei si pulì, disgustata. La carta della sorellina inerme non aveva funzionato.

"Moriremo, moriremo tutti e due in questa fogna puzzolente!", gemette cominciando a piangere, aggrappandosi a Neal.

"Non moriremo! Gli daremo i suoi soldi e saremo fuori dal giro. Se la difesa scagionerà lo zio William, pazienza. Adesso stiamo lottando per uscirne indenni, ricordi?".

Lo guardò con gli occhi spalancati, vedendo riflesso nel viso contratto di Neil lo stesso dubbio che la stava soffocando. Avevano parlato e gridato una notte intera prima di decidere che non potevano fare altro che assecondare le richieste di quelle persone, delinquenti o mafiosi che fossero. Non avevano scelta. Patteggiare o persino denunciarli equivaleva a morte certa. Sapeva di persone che erano sparite senza lasciare ai loro cari nemmeno un corpo su cui piangere.

Quel vicolo, quella bottega abbandonata e persino l'oceano potevano diventare la loro tomba. Ma, se fossero fuggiti, li avrebbero trovati ovunque fossero.

"O...ok", annuì tremando come se avesse la febbre alta.

"Ok", ripeté lui aprendo la porta.

La bottega era piccola, rimanevano un bancone di legno marcio e una porta sbilenca che dava in quello che doveva essere un piccolo magazzino. Il resto era polvere, sporcizia e buio, perché le finestre unte e opache non lasciavano quasi filtrare la luce.

L'uomo vestito di scuro si confondeva con il resto, ma lo individuò subito e dall'ansito mal trattenuto di Neal capì che lo aveva visto anche lui.

"Chiudete la porta", disse con voce cavernosa. Neil eseguì, però lei non riuscì a staccarsi dal suo braccio mentre lo faceva.

Rimasero entrambi addossati a quella porta, come se così fossero più vicini alla fine di quel tunnel, alla libertà, alla vita. L'uomo avanzò verso di loro con una mano tesa: "I miei soldi".

Neil si agitò mentre cercava il denaro nella tasca dei pantaloni, proprio sul lato dove lei lo stava quasi stritolando, e la allontanò con malagrazia. La mazzetta di banconote gli cadde con un piccolo tonfo e lui la raccolse. Ora che i suoi occhi si erano abituati alla semi oscurità, Eliza poté vedere il sudore colargli lungo la tempia. Sentì il proprio inzupparle l'abito e ne avvertì l'odore pungente.

La grande mano del tipo afferrò i soldi e li fece sparire nella tasca interna del suo impermeabile. Stupidamente, Eliza si chiese se, coperto com'era, non sentisse caldo. Lei sentiva caldo e freddo al contempo, tremava e sudava. Scrutò ancora il losco figuro e capì quanto, quel lontano giorno in cui lo aveva intravisto in una stanza a parlare col padre di Molly, lo avesse sottovalutato.

Quell'uomo era un assassino e loro erano soli.

"Adesso", la voce di Neil gracchiò e se la schiarì prima di riprovare: "Adesso siamo pari, vero?".

Il locale maleodorante si riempì di un suono così sgradevole e sinistro che Eliza quasi si tappò le orecchie. Quando vide sussultare le spalle dell'uomo, però, si accorse che era il suono della sua risata.

Stava ascoltando la risata del Diavolo in persona.

Eliza si rannicchiò di nuovo contro Neal, le spalle contro la porta d'uscita, piangendo in silenzio. Il corpo di suo fratello era teso e sentiva chiaramente il suo petto alzarsi e abbassarsi per il fiato corto.

Gridarono a una sola voce quando il diavolo vestito di nero abbatté una mano sulla spalla di Neal ed Eliza sentì un liquido caldo colarle lungo le gambe: capì che la vescica le aveva ceduto.

Altro che la stanza ben illuminata di Lakewood, con la zia Elroy seduta col ventaglio in mano e lo zio William furioso che sembrava contenersi a malapena. Si ritrovò a rimpiangere la sua vita precedente e i sentimenti di vendetta che li avevano condotti dritti all'inferno.

Neal gemeva, stava piangendo anche lui.

"Ragazzini ingenui e stupidi", li canzonò l'uomo senza mollare la presa. "Una volta che fate parte della nostra grande famiglia siete marchiati a vita, proprio come il caro signor Jordan, che non avete avuto il piacere di conoscere: ha provato a ribellarsi e ora sfoggia una bellissima benda come quella che hanno i pirati", disse sogghignando ancora.

Eliza si portò una mano alla bocca per soffocare un urlo e, con suo sommo orrore, il tipo si rivolse a lei direttamente: "Che c'è, ragazzina, hai paura che possa cavare un occhio anche a te? O che magari prenda la tua virtù?", disse in tono lascivo e pericoloso, portandole una mano sulla guancia e facendole venire l'impulso di vomitare.

"Sei carina, ma non abbastanza per i miei gusti". La mano le scese sul corpetto e l'uomo fece una cosa che la riempì di gelo e ribrezzo allo stesso tempo. Le palpò il seno, un gesto che non avrebbe mai immaginato di dover sopportare nemmeno da suo marito, semmai ne avesse avuto uno. Lo fece come se stesse valutando la consistenza di un cuscino.

Con un verso schifato si ritrasse e fu sorpresa di sentire la voce forte di Neal gridare: "Non toccare mia sorella!".

Quando il pugno partì, Eliza fu convinta che li avrebbe uccisi, o che avrebbe tramortito lei per violentarla, prima. Invece centrò il naso di Neal e sentì chiaramente lo schiocco dell'osso che si rompeva.

"No!", gridò terrificata e impietosita, coprendosi gli occhi. Voleva scappare, fuggire via, prendere la prima nave ed emigrare in un luogo remoto della Terra dove non l'avrebbero più cercata. Ma le gambe non rispondevano ai comandi e non seppe se fu per la paura che la stava divorando o per l'impossibilità di lasciare solo suo fratello.

Il suo unico fratello.

Lui, che la voleva difendere e ora era inginocchiato a terra mentre fiotti di sangue cadevano sul pavimento e sulla sua camicia, mentre si lamentava di dolore e terrore, cercando di alleviarlo con le mani e sussultando ogni volta che tentava di toccarsi quel disastro sanguinante che era stato il suo naso.

"Non darmi ordini, ragazzo. Se voglio fottermi tua sorella posso farlo anche ora. E se voglio posso anche uccidervi. Ma potreste ancora servirmi. Vostro zio è in galera e chi ci era d'intralcio è cibo per vermi. Se non volete diventarlo anche voi, piccoli impertinenti, tenete chiuse le vostre bocche con mammina e papino o ci sarà un funerale di massa, fra qualche giorno. Magari uno dei vostri preziosi alberghi potrebbe prendere fuoco o qualche avventore non soddisfatto del servizio potrebbe decidere di metterci una bomba. Le possibilità sono tante. Adesso sparite".

Il lungo monologo terminò ed Eliza non poté credere di essere ancora viva.

Uscirono fuori così velocemente che dovette strizzare gli occhi alla vista del sole e si ritrovò a ringraziare il Cielo di sentirselo ancora sul viso. Camminarono senza dirsi una parola, superando le catapecchie, le rovine di botteghe fantasma e passando vicino a personaggi su cui non voleva soffermare lo sguardo neanche un secondo: le bastavano i commenti volgari e talvolta incomprensibili che ferivano le sue orecchie abituate solo all'eleganza e alla compostezza.

Preferì concentrarsi sul terreno lurido e su quanto la sporcizia l'avrebbe obbligata a gettare via tutto ciò che indossava.

Neil crollò improvvisamente in ginocchio, con la mano sulla faccia. Eliza si accorse che il sangue era ancora copioso.

"Credo che sto per vomitare o svenire. O anche tutte e due le cose", disse con voce nasale e lei desiderò solo chiudere gli occhi e svegliarsi da quell'incubo.

- § -

Quando aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu Archie che piangeva.

"Albert! Oh, Dio, sei sveglio?".

E la prima cosa che sentì fu una nausea insopportabile. Lo stomaco si contrasse facendolo sussultare ed ebbe appena il tempo di udire Archie dire: "Qui, Albert, coraggio, ti tengo io".

L'odore e il rumore che fece il liquido nel secchio gli provocarono un nuovo conato, più forte del primo. Si lamentò pietosamente, senza fiato, con la gola in fiamme.

Archie lo sostenne con un braccio e lui si ricordò all'improvviso di quando aveva sostenuto Candy in maniera molto simile, un milione di anni prima, al suo risveglio da un incubo.

Crollò sul letto, come se quello sforzo gli fosse costato tutte le energie residue. Chiuse gli occhi e, quando li riaprì, la stanza era buia e non c'era nessuno.

No, un momento, qualcuno c'era.

Era sempre Archie, seduto su una sedia poco lontano, che guardava la luce della luna provenire da una finestra. Si voltò a guardarlo: "Ti viene ancora da vomitare?".

Lui scosse la testa: "Mi dispiace", gracchiò così piano che quasi non si udì neanche da solo.

Ma il nipote parve averlo capito, perché gli si avvicinò e scosse la testa: "Non dispiacerti. Preferisco assisterti da vivo che vederti morire. Ho pensato che non ti saresti più svegliato. A casa sono tutti preoccupati".

Casa. Candy.

Non era rimasto nulla del mondo di luce nel quale gli era parso di fluttuare fino a quel momento: alla sensazione di non avere più un corpo si era già sostituita quella di essere imprigionato in un involucro pregno di dolore e sofferenza. E non solo fisica.

"Ho bisogno di bere", disse sperando che Archie lo comprendesse. Con sua sorpresa, lo fece e di nuovo Albert si ritrovò a ricordare quando aveva porto il bicchiere a Candy, una volta svegliata dal coma.

"Solo un paio di sorsi o potresti rigettarla. Il medico ha detto che devi andarci piano dopo una settimana intubato".

Intubato? Settimana?

La cognizione temporale era qualcosa che sfuggiva al suo controllo: ad Albert parve di essere sempre vissuto accanto ai suoi cari in attesa di raggiungerli in via definitiva. Si rese conto che era stato davvero a un passo dalla morte ma di non aver provato che pace a quell'idea. Ciononostante, non credeva fosse passata addirittura una settimana dall'aggressione.

La sua espressione dovette essere esaustiva, perché Archie spiegò: "Ti hanno preso per i capelli, zietto, hai perso quasi due litri di sangue e... ti hanno fatto non so quante trasfusioni, poi hai smesso di respirare da solo ed è per questo che ti hanno intubato quasi subito. Ti hanno estubato solo poche ore fa, per questo prima... prima...". Archie singhiozzava e si stropicciava gli occhi come un bambino e ciò lo commosse profondamente.

Alzò un braccio per posargli una mano sul capo e si stupì di quanto gli costasse sollevarlo: "Archie...".

"Scusami, ho pensato che saresti morto, stavolta. Ti prego, non farlo. Non lasciarci, Albert, la zia ne morirebbe. Non potremmo andare avanti senza di te".

Albert girò il capo perché non vedesse le sue lacrime e capì tante cose. Capì che stava vivendo solo in funzione di Candy e non poteva più permetterselo. Capì che la sua famiglia aveva bisogno di lui e che doveva lottare per uscire fuori di lì e per riprendere in mano le redini. Lei era viva e, anche se non sarebbe mai stata sua, era ora che uscisse da quel guscio.

Fino ad allora era stata tutta una favola idilliaca, inframmezzata da momenti tragici che aveva superato. La corrispondenza con Candy, la rivelazione della sua identità di zio William prima e di Principe della Collina poi. La dichiarazione d'amore, i baci, i progetti...

Ora la vita vera stava esigendo il suo pegno, mordendolo, graffiandolo e persino piantandogli un dannato coltello nella coscia. Ma lui era abbastanza uomo da accettarlo. Aveva sempre creduto di essere forte, invece con Candy si era riscoperto debole come solo un innamorato poteva esserlo. La amava ancora, avrebbe pianto ancora per lei e l'avrebbe desiderata per tutto il resto della sua vita.

Tuttavia doveva recuperare quella facciata esteriore che gli consentiva di fare il suo dovere di capofamiglia. Doveva ricostruirsi dall'interno, pezzo dopo pezzo, dopo che i sentimenti per la sua Candy lo avevano sbriciolato come un muro di gesso. Doveva usare una lega di acciaio se voleva affrontare la vita.

Sì, aveva davvero desiderato morire, perdersi nelle presenze confortanti di suo padre, sua madre, Anthony e Stair, ammesso che fossero davvero le loro anime che aveva visto e non meri sogni allucinatori. Ma sarebbe stato egoista tanto quanto andarsene in giro per il mondo evitando di prendersi le proprie responsabilità. Ed era qualcosa che non poteva più permettersi, con o senza Candy al proprio fianco.

Girò il volto composto verso il nipote e gli disse: "Voglio uscire di qui", riuscì a dire imprimendo un po' più di forza nella voce.

"Beh, dovrai strapparti il catetere e un paio di aghi dal braccio, allora", ridacchiò lui riprendendo il controllo e scherzando.

"Oh, povero me!", esclamò imbarazzato, cominciando a ridere a sua volta. "Grazie, Archie. Se non ci fossi stato tu, qui, non so se ce l'avrei fatta".

"Ma io non ho fatto niente, se non controllare che non facessi brutti scherzi, vegliarti e passarti un secchio qualche ora fa".

Albert scosse la testa, sentendosi un relitto. Anche il suo orgoglio era in mille pezzi e aveva un bisogno disperato di ricostruire persino la propria dignità.

"Comunque... ecco...", Archie si morse il labbro, come se volesse dire qualcosa e temesse di farlo.

Albert si volse di scatto a guardarlo: "Che succede, c'è qualcosa che non mi hai ancora detto? Come sta Candy? E la zia?".

Nulla da fare, lei sarebbe stata sempre in cima a ogni suo pensiero.

"Oh, no, loro stanno bene. C'è sempre Annie a casa con lei e la zia e anche il medico con quell'infermiera".

"Allora cosa c'è?", domandò cominciando a tossire. Dannazione, se gli bruciava la gola! Archie gli porse il bicchiere e lui bevve un altro sorso, anche se l'avrebbe scolata tutta.

"Domani esco. Mi hanno rilasciato perché non ci sono prove tangibili e io non ho azioni in sospeso con la distilleria". Sembrava dispiaciuto, lui invece sorrise.

"Bene, ne sono contento. Vai anche tu a casa, ti prego. Abbi cura di Candy, della zia e degli affari. George...".

"Accidenti, Albert, rimarrai qui da solo!", gridò lui, di nuovo disperato. Anche Archie aveva i nervi a pezzi.

"Non fa niente", rispose chiudendo gli occhi e sentendosi di nuovo stanco. Inorridiva all'idea di rimanere solo, ma gli sarebbe servito per testare le forze interiori.

"Ma tu...". Archie gli sembrò regredito all'età di un bambino, così vulnerabile con gli occhi lucidi e le labbra tremanti. Gli fece quasi tenerezza.

"Archie, ascoltami. Ora sei l'uomo di casa Ardlay e devi essere forte. Io ho intenzione di uscire di qui e non intendo solo dall'ospedale: non resterò in galera e ti giuro che quando uscirò ci finiranno i Lagan. Mi dispiace per Raymond, ma i suoi figli non la passeranno liscia, né per quello che hanno fatto a Candy, né per quello che hanno fatto a noi".

"Così voglio sentirti parlare!", esclamò lui con le lacrime agli occhi ma un'espressione di trionfo nella voce, il pugno chiuso come in segno di vittoria: "Se sapessi da quanto tempo volevo sentire questa determinazione in te! Promettimelo!".

"Te lo prometto, nipote", disse mentre si lasciava abbracciare e gli permetteva di singhiozzare contro la sua spalla.

Ce la farò. Devo farcela. Per Candy, per la mia famiglia. Dimostrerò la mia innocenza e tornerò a casa.

- § -

"Raccontami di Anthony", disse Candy guardando fuori dalla finestra aperta.

Annie trattenne il respiro, alzandosi di scatto dalla poltrona sulla quale era seduta. Non solo la sua amica e sorella stava respirando aria fresca, anche se da dentro a una stanza, ma le chiedeva qualcosa del suo passato che era così vicino al trauma che aveva subito che per un secondo titubò.

Quando si voltò a guardarla da sopra a una spalla, aveva uno sguardo determinato che le ricordò la vecchia Candy.

Il dottor Carter le aveva chiesto di assecondarla e di raccontarle quanti più eventi potesse, escluso l'argomento focale che la faceva agitare tanto. Ora lei le stava chiedendo proprio quello.

"Candice, sei sicura che...?", domandò torcendosi le mani.

Candy si voltò di nuovo a guardare fuori: "Sì. Voglio sapere perché quando ho quelle crisi, il nome di questo Anthony si sovrappone a quello di William. O Albert, o come diavolo si chiama".

Annie prese un respiro profondo e scavò nei recessi della sua memoria. Conosceva a grandi linee la storia di Anthony e suo zio da ciò che le era stato riferito e ricordava il ragazzo più giovane a malapena, ma avrebbe cercato di fare di tutto per farle capire cosa avessero in comune i due oltre alla parentela.

Candy li aveva amati entrambi.

"Anthony era... il nipote di William... di Albert", spiegò Annie usando il nome con cui lo chiamavano tutti. Ora che sapevano che se la sarebbe cavata, l'atmosfera in casa era più rilassata e Annie era molto nervosa, perché era certa che a breve Archie li avrebbe finalmente raggiunti.

Mise da parte i sentimenti contrastanti e il tumulto nel suo cuore per scrutare le reazioni di Candy, anche se di spalle.

"Vuol dire che William ha un fratello o una sorella di cui non conosco l'esistenza?", domandò tornando distaccata.

Annie cominciò a camminare per la stanza, a piccoli passi per cercare di non fare troppo rumore. Temeva che, se fosse accaduto, il fragile equilibrio che si era appena creato si sarebbe spezzato. Tuttavia, non riuscì a rimanere ferma perché era tesa come una corda di violino.

"Albert aveva una sorella che purtroppo è morta molto giovane. Se non ricordo male si chiamava... Rosemary. Quando venne a mancare, Anthony era solo un bambino". Fece un'altra pausa e vide le sue spalle alzarsi come per un sospiro.

"Continua, non farti pregare. Voglio sapere come l'ho conosciuto e come è caduto da cavallo". La voce era ancora fredda, il tono quasi duro. Annie sospettò che fosse una sorta di barriera protettiva.

Cercò di riassumere tutto con un tono calmo e controllato: "Quando i Lagan ti hanno adottata hai conosciuto Anthony, che viveva poco distante. Come ti ho spiegato, fanno tutti parte del clan Ardlay. Lui e gli altri... Archie e Stair, ricordi? Ti ho parlato anche di loro. Beh, hanno scritto al prozio William, che allora non conoscevano personalmente. Gli hanno chiesto con tutto il cuore di adottarti per allontanarti da casa Lagan, dove non ti trattavano come meritavi. Così hai cominciato a vivere a Lakewood". Ora veniva la parte difficile e Annie dovette prendere fiato.

Vide il corpo di Candy dondolare piano avanti e indietro, come se stesse combattendo contro se stessa e pensò, anzi, sperò le avrebbe chiesto anche di Archie e Stair, più nello specifico. Invece disse solo: "Cosa gli è successo?".

"C'è stata...", s'interruppe per deglutire, "una caccia alla volpe. Mi hanno raccontato che eravate a cavallo e vi eravate allontanati insieme. Lui... il suo cavallo ha avuto un incidente e lui è stato sbalzato a terra. È... morto... sul colpo". La voce si ruppe e, anche se non lo aveva conosciuto bene, visse il trauma che Candy doveva aver avuto.

Candy s'ingobbì come se stesse avendo un conato, respirò per un attimo in modo pesante e Annie non capì se piangesse o si stesse sentendo male. Combattendo contro l'impulso di soccorrerla, la guardò con i nervi e i muscoli tesi.

"Quindi è caduto proprio come è successo a me?", chiese con voce incrinata.

"Sì", confermò in un soffio.

Ci fu una pausa molto lunga, nella quale perlomeno Candy non diede segno di crisi. Era un passo in avanti davvero enorme, di cui avrebbe informato immediatamente il dottor Carter.

"Ero innamorata di lui?", domandò Candy di punto in bianco.

Annie non poté fare altro che confermare di nuovo.

"Secondo te perché la mia mente associa Anthony ad Albert? E non dirmi che è perché erano parenti, sono certa che ci sia dell'altro".

Lei aprì la bocca, annaspando. Che diavolo doveva risponderle? Che era innamorata di Albert? Era lì che erano già giunte? Decise di provare con una mezza verità: "Beh, loro... si somigliano molto, anche se Albert è più grande. Suppongo che dipenda da questo".

Candy si voltò di scatto: "Non prendermi in giro!", l'aggredì e Annie vide gli occhi spalancati e iniettati di sangue. Capì che ascoltare quella storia le era costato uno sforzo enorme e che la curiosità stava avendo il sopravvento sui suoi timori.

Per sua fortuna, in quel momento bussarono e Annie ringraziò il Cielo che il dottor Carter avesse scelto, consapevole o meno, di interromperle proprio in quel momento.

Annie ne approfittò per uscire dalla stanza, congedandosi più velocemente che poté. Aveva bisogno di stare da sola.

A breve avrebbe rivisto Archie: era felice, perché finalmente era uscito da quell'incubo. Ma non sapeva come si sarebbe comportata con lui, visto che avrebbero vissuto nella stessa casa.

Una parte di lei fu grata che dovessero concentrarsi su Candy e non sui loro sentimenti. Non sapeva se fosse ancora pronta ad affrontarli.

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Jorge Ruiz aveva una fitta rete d'informatori e le voci che gli erano arrivate non erano affatto confortanti. Sapeva che il gioco cui avevano deciso di partecipare i ragazzi Lagan era pericoloso, ma se erano davvero coinvolti con quell'organizzazione mafiosa, neanche la polizia avrebbe potuto aiutarli.

E tentare di scoprire tutte le carte per salvare gli Ardlay rischiava di metterli in una situazione di pericolo maggiore.

Mentre si appoggiava al muro del vicolo e si accendeva l'ennesima sigaretta, fallendo i primi due tentativi di dare fuoco al cerino, Jorge capì che era in una situazione di stallo.

L'alternativa sarebbe stata addossare tutta la colpa a Neal ed Eliza, ma era poco credibile che avessero fatto tutto da soli. Incluso uccidere quel povero diavolo che aveva testimoniato al processo.

No, la chiave di tutto non poteva che essere una e una sola, rifletté soffiando fuori il fumo in una nuvola: dovevano offrire protezione alla moglie di Billy Gonzales e portarla a testimoniare. Ma, ancora una volta, sarebbe dovuta intervenire la polizia.

Si sentiva stretto in un cerchio che stava per stritolarlo e capì che doveva confrontarsi con George Villers il prima possibile per prendere una decisione definitiva.

Non aveva molto tempo. Di quel passo, a breve Raymond Lagan e sua moglie avrebbero scoperto tutto e non poteva garantire che a quel punto sarebbero sopravvissuti a lungo.

La scomparsa dei Lagan avrebbe significato perdere il collegamento più importante con la soluzione di tutta quella storia.

Sperava solo che l'FBI fosse più ben disposta e meno corrotta degli agenti di Miami. Se ricordava bene, però, uno dei capi della polizia di New York aveva un piccolo conto in sospeso con William Ardlay. Un certo commissario Johnson, se la mente non l'ingannava.

Con un gesto repentino, accartocciò il mozzicone tra le dita e lo gettò via. Doveva cercare subito un telefono.

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Angolo dei commenti:

Sandra Castro: Carissima, come ringraziarti per la mole di commenti che mi hai lasciato? Hai veramente toccato punto per punto del capitolo! Non so se hai letto cosa ho scritto nel mio gruppo Facebook, ma quella parte che menzioni, quella in cui Albert incontra i suoi cari in quella specie di limbo, è proprio quella che ho aggiunto di getto all'ultimo minuto (beh, tra stesura e betalettura un paio d'ore sono andate, lo ammetto) prima di pubblicare! Sapere che ti ha convinta nonostante il poco tempo che le ho dedicato mi rende davvero felice, perché volevo proprio darle il giusto pathos e far comprendere che lui, anche vicino alla morte, alla fine torna sempre con il suo cuore a Candy. Ho voluto che Archie gli fosse vicino, con la scusa del nome Ardlay, perché lasciarlo solo in questo coma era davvero troppo crudele, considerando che rischiava la vita! Il direttore del carcere ci tiene a difendere la sua immagine, ma al contempo teme ritorsioni. George non è un santo, ho voluto dipingerlo come serio e imperturbabile ma anche umano: può disperarsi e anche provare rabbia per la zia Elroy che ha aspettato tanto a parlare, anche se non lo mostra. Nonostante i dolori, non ha avuto un vero infarto, tuttavia deve fare attenzione alla sua salute, così non sospetta nulla per ora. Candy è molto confusa, il suo passato è cancellato e i sentimenti che prova per Albert sono confusi: anche il suo recupero è un lungo cammino e Carter sta scavando proprio per trovare la strada e seguirla... Terence è preoccupato ma capisce di essere di troppo, inoltre ha il suo bel da fare con le emozioni che si agitano nel suo cuore per Karen. Certo, è molto in pena sia per Candy che per Albert, ma davvero non può fare nulla. Il dottor Carter sembra così professionale e controllato... ma quando si tratta di Frannie perde tutto il self-control! Forse persino troppo? Ho avuto a lungo questo dubbio, sai? Il filo rosso del destino è una leggenda bellissima, e di certo unisce Albert e Candy... quanto sarà forte questo loro legame? Un abbraccio, grazie di vero cuore per le tue tante e belle parole!

Ericka Larios: Sembra davvero tutto perduto, vero? Candy non ricorda l'unica cosa bella e costante della sua vita e Albert... non ha veramente più un motivo valido per sopravvivere. Come andrà a finire tutto questo?

Charlotte: Candy sembra fare un passo avanti e due indietro, è davvero molto combattuta e spaventata, speriamo che Annie e il dottor Carter l'aiutino! Il limbo di Albert è un'idea dell'ultimo momento e Archie non poteva che essere al suo fianco: anche lui, poveretto, ha perso tante persone care e non accetta che accada anche con suo 'zio'. Volevo creare una Frannie più umana e meno fredda, così da un lato il suo cuore è stato catturato da William, dall'altro è turbata dai sentimenti di Carter. Terence si strugge perché vede che tutto ciò che ama sembra volersi allontanare da lui ed è davvero molto colpito da ciò che è successo al povero Albert. D'altro canto, anche lui è molto confuso riguardo i suoi sentimenti, meno male che c'è sua madre a tentare di farlo ragionare! Grazie di cuore, alla prossima!

Elizabeth: Mi piaceva l'idea di mostrare questa sorta di esperienza extracorporea di Albert, così l'ho aggiunta proprio alla fine: sono contenta che ti sia piaciuta! Lui è talmente stanco e provato, ormai, che quasi rimarrebbe volentieri in quel limbo. Ma, al contrario, le anime di coloro che ama lo aiutano a farsi forza. Grazie di cuore!

Edith Andrade Ce: grazie per aver recuperato tutti i capitoli nonostante i problemi che hai riscontrato con la traduzione (se ho capito bene). Mi spiace di averti sconvolta, dalla perdita di memoria di Candy a qui ne sono successe di cose, vero? Anche molto brutte, specie ad Albert. Incrociamo le dita perché le cose migliorino, da adesso in poi, ma il pericolo è sempre dietro l'angolo...