Di reietti e nuove speranze

Una reietta della società.

Ecco cosa sarò quando finalmente uscirò di qui. Se non mi ammazzano prima come hanno tentato di fare con lo zio William.

Eliza doveva sempre far finta di dormire per poter stare un po' in pace con i suoi pensieri e, anche in quei casi, non era raro che la buttassero giù dalla branda in malo modo.

Nonostante i suoi genitori avessero pagato per evitare che le facessero qualcosa di male, non era poi tanto sicura che le guardie avessero veramente occhi dovunque. E lo testimoniavano i lividi, le tirate di capelli, a volte gli schiaffi.

Le era capitato di sentirsi come Candy quando cercavano di metterla in difficoltà o le affibbiavano colpe che non aveva.

Lei non è stata mai costretta a bere la sua stessa urina dal water... né a dormire sul pavimento senza lenzuola.

Rannicchiata come sempre in quei momenti di disperazione, Eliza Lagan pensò che non sarebbe mai sopravvissuta per dieci anni in quell'inferno, e la prospettiva di uscire prima per buona condotta per fare opere di beneficienza le sembrava quasi un miraggio che bramava ogni giorno di più.

Della sua arroganza non era quasi rimasto nulla, perché ogni volta che aveva tentato di reagire o di usare il proprio nome per difendersi aveva ricevuto insulti e persino sputi.

Anche Terence, una volta, l'ha fatto...

Una signorina perbene come lei non doveva finire così, era semplicemente abominevole! Eppure non pensava che sua madre se la passasse meglio: l'ultima volta che era andata a trovarla, per avvisarla che sarebbero ripartiti per la Florida, aveva un livido sullo zigomo.

Avrebbe preferito essere picchiata da suo padre anche lei, piuttosto che rimanere lì.

Le lacrime le salirono agli occhi e cominciò a singhiozzare il più silenziosamente possibile, scossa da una disperazione che le occludeva la gola come una mano che la stesse strozzando.

Non più balli di gala. Non più gioielli e bei vestiti. Non più giovanotti che le facevano il baciamano. Tra dieci anni ne avrebbe avuti più di trenta e sarebbe stata zitella e sola, forse costretta a lavorare negli hotel dei suoi genitori come sguattera o governante.

Reietta, rifiuto della società, zitella.

Aveva pensato al suicidio più di una volta, ma tremava alla sola idea di infliggersi danno, ammesso che trovasse la maniera di farlo, visto che i controlli erano serrati. Doveva forse sperare che le sue compagne di cella la ferissero seriamente nonostante le raccomandazioni della sua famiglia?

Vigliacca. Persino Neal ha tentato...

Pensare a suo fratello la fece piangere più forte.

"Che c'è, la signorina sta frignando di nuovo? Oh, ma che seccatura! Forse dovremmo trovarle un uomo per tirarle su il morale!", rise sguaiatamente la prima voce dietro di lei.

"Ma che dici?! Qui non ci sono uomini! Dovrà attendere di uscire per farsi dare una bella ripassata!", rincarò la dose la seconda voce alle sue spalle.

Cercando di farsi ancora più piccola, Eliza ripensò al viso sconvolto di Neal, al suo abbraccio terrorizzato, al grido di sua madre quando lo aveva scoperto mezzo impiccato nella sua stanza. E a quando la loro unica preoccupazione era mettere nei guai Candy. O, ancora, quando erano più piccoli e lui le concedeva di dormire nel suo lettino perché era spaventata dai temporali.

C'era mai stata dolcezza nella sua vita? Probabilmente sì, ma l'aveva persa tutta, ignorata, snobbata.

E ora avrebbe dato parte della propria vita per un abbraccio di sua madre.

Stufa di nascondersi, Eliza Lagan cominciò a singhiozzare forte, coprendosi il viso con le mani, versando lacrime amare sul suo passato, sul presente e anche sul futuro oscuro che l'attendeva. Non sentiva più neanche le voci cantilenanti che la prendevano in giro, né le spinte, né le mani che le tiravano via la coperta e la trascinavano sul pavimento prima che una guardia tuonasse loro di smetterla.

Restò lì, a piangere come una bambina, sognando il giorno in cui avrebbe rivisto almeno la luce del sole.

- § -

Neil usò la forchetta per fare un altro segno sul muro, affondando con la punta arrotondata e inutile nella pietra cedevole.

"Ehi, damerino, quella serve per mangiare, non per scrivere lettere d'amore sul muro", lo apostrofò l'uomo che puzzava di pesce marcio sputando a terra.

Lui fece una smorfia e lo ignorò: per fortuna, grazie all'intervento tempestivo di suo padre, aveva smesso di prestargli attenzioni più sgradite.

Accanto a lui, qualcuno fece una battuta e le risate sguaiate riempirono l'aria, già soffocante di quella cella, di suoni che ferivano le orecchie e l'orgoglio.

Ormai era abituato ad essere deriso, ma sapeva che un giorno sarebbe arrivata la rivalsa. Un giorno, sarebbe uscito da quel buco fetido per andare in Florida con suo padre e sarebbe diventato un uomo d'affari tanto abile che quella sgradevole parentesi sarebbe stata dimenticata.

Avrebbe contato i giorni, cercando di farsi scivolare addosso le ore, e ogni volta che ne fossero passati trecentosessantacinque li avrebbe cerchiati. Quello sarebbe stato il primo anno. Non doveva pensare al fatto che avrebbe dovuto ripetere la medesima operazione per dieci volte, oppure sarebbe semplicemente impazzito. Perso il senno. La speranza.

Era sempre stato un vigliacco, Neil Lagan, ma lì dentro la vita lo stava indurendo. Non aveva più gli abiti eleganti di prima, ma una specie di pigiama pieno di pidocchi. Non aveva più i capelli ben curati, ma gli si appiccicavano agli occhi e gli si annodavano finché qualcuno non decideva che era ora di dare un colpo di rasoio e far prendere aria alla testa. La barba gli pungeva dopo diversi giorni, ma faceva parte della sua nuova corazza.

A volte pensava a suo padre e sua madre, beatamente emigrati in Florida per far riprendere la loro attività. E li odiava, perché a loro non era successo nulla e, anzi, quel pazzo dello zio William aveva persino aiutato suo padre a non finire con il sedere per la strada.

"Ho ripagato il mio debito, non gli devo più nulla. Lui è un grande uomo, Neal, e noi non abbiamo che da imparare da uno come lui: e non mi riferisco agli affari".

Aveva trattenuto un conato di vomito. Sapeva di aver commesso una bassezza, ma non avrebbe mai provato ammirazione per nessuno, specie per qualcuno che aveva avuto vita facile come lui. Si era permesso di vagare come uno zingaro per più di vent'anni prima di salire ai vertici della società e ora si godeva fasti, lusso e... Candy.

Non sapeva perché continuasse con quella specie di ossessione, ma c'erano notti in cui sognava di tenerla fra le braccia e toccarla nel modo più lascivo con cui un uomo può permettersi di toccare una donna. Altre, in cui sognava solo il suo viso arrabbiato o sorridente. Altre ancora, in cui ripercorreva la notte nella quale gli aveva salvato la pelle, mettendosi contro quegli uomini che lo avevano aggredito.

Se fossi stato un uomo migliore, forse...

A quell'ora, probabilmente, era a Chicago o a Lakewood, magari in attesa del primogenito di William Albert Ardlay o forse avevano già un marmocchio urlante che aveva rubato il cuore della vecchia prozia Elroy.

Infilò la forchetta sotto al materasso e si portò le mani sotto alla testa, chiudendo gli occhi.

"Ehi, Lagan, pensi alla tua bella che se la starà spassando con un altro?".

Quelle parole gli fecero salire la bile allo stomaco e, prima ancora di rendersi conto di cosa stesse facendo, Neal scattò in piedi e caricò il pugno contro quell'animale che sembrava marcio dentro così come lo era fuori. L'omone si spostò con un'agilità che non avrebbe mai sospettato e lui finì direttamente tra le braccia di un inquilino di cella dai pettorali definiti pieni di cicatrici.

"Potevi dirlo subito che hai cambiato idea! Come preferisci che...". Con un urlo di disgusto, si spinse via da quel corpo fetido di sudore e umori che preferiva non identificare.

"Preferisci me, forse?", gracchiò un vecchio senza denti. "Se devo essere sincero, quelli che sono passati qui prima di te erano più belli, ma anche tu non sei da buttare via!".

Lottò brevemente per liberarsi e per evitare di vomitargli addosso, chiedendosi a chi diavolo si riferisse. Non gli importava, voleva fare una doccia e lo chiese a gran voce, sporgendosi dalle sbarre.

"Non è ora della doccia, ragazzino viziato. Non creare problemi o potrei dimenticare che tuo padre mi ha pagato!", tuonò la guardia lanciandogli uno sguardo di ghiaccio.

Neal tacque. Tutto, ma non quello. Tutto, ma non l'ultima briciola di dignità che gli era rimasta. Non avrebbe mai dimenticato la scena nelle docce, quei due sconosciuti. Le urla, le suppliche, i gemiti e quei corpi maschili allacciati...

Con un verso gutturale, Neal si sporse sul water afferrandolo per i bordi e, nauseato dal puzzo di urina, vomitò una seconda volta.

"Mi sa che gli hai fatto schifo!", commentò sarcastico l'uomo muscoloso. "Penso che preferisse me!".

"Ma se ti ha cacciato come una donnicciola!", rimbeccò l'altro.

Spegni il cervello. Spegni il cervello, per l'amor di Dio! Pensa a tuo padre, pensa a Candy. Fingi di essere catatonico come ha fatto tua sorella.

Mentre si riposizionava sulla branda ricontrollando i segni sul muro come se potessero essere aumentati rispetto a qualche minuto prima, Neal si chiese se avrebbe davvero mai rivisto sua sorella.

- § -

Karen si sentiva presa in esame dagli occhi attenti di Robert. Continuava a squadrarla come se volesse spogliarla con gli occhi, tanto che, a un certo punto, Terence sbottò: "Ti assicuro che non ha un grammo di grasso dove non serve, l'ho provato di persona".

"Terry!", lo redarguì tra i denti, voltandosi per guardarlo.

"Oh, non ne dubito! Ma siete sicuri che non vi verrà in mente di sfornare un altro marmocchio fra qualche mese, magari per sbaglio?", li apostrofò sedendosi finalmente dietro la scrivania e inarcando il sopracciglio dietro agli immancabili occhiali scuri.

Lei e Terence si alzarono dalle sedie nello stesso momento, come se fossero sincronizzati: una cosa era darsi la possibilità di riprendere le loro carriere, un'altra era ricevere insulti gratuiti su quella che era la luce delle loro vite.

"No, scusate... va bene, va bene, come avete detto che si chiama il vostro... bambino? Jack?", tentò, alzandosi di nuovo e gesticolando animatamente.

"Si chiama James Charles Graham", scandì Terence con voce baritonale, prima ancora che lei potesse aprire bocca, "e ti informo che abbiamo ricevuto richiesta d'ingaggio da un'altra compagnia, il mese scorso, ma abbiamo preso tempo perché hai insistito fino allo sfinimento. Non sei l'unico a dare ultimatum, Robert. Azzardati di nuovo ad apostrofare così nostro figlio o noi due e ti ritroverai con una concorrenza spietata che rischia di farti chiudere i battenti prima che tu abbia il tempo di ripetere la parola 'marmocchio'".

Karen era a bocca aperta: conosceva Terence da tantissimo tempo e sapeva perfettamente quanto amasse lei e il loro bambino. Ma non lo aveva mai visto difenderli come un vero leone furioso farebbe con la sua famiglia.

Robert sembrava sconvolto e si stava profondendo in scuse balbettanti che non necessitavano certo di un intervento da parte sua. Con un sospiro, Karen si limitò ad aggiungere: "Robert, in qualunque momento possiamo fare marcia indietro e non c'è contratto che tenga. So che non ti sei mai sposato e non hai figli, ma immagino che tu abbia imparato a rispettare il prossimo".

Quell'uomo era sempre stato molto sopra le righe e lei stessa non era certo una donna che si sarebbe definita convenzionale, per l'epoca. Ma c'erano dei limiti che persino lei cercava di non superare.

"Va bene, va bene, ho capito. Vi chiedo scusa, ho davvero esagerato. Posso solo chiedervi come pensate di organizzarvi con lui? La tournèe durerà mesi, lo lascerete a casa?", domandò con i gomiti poggiati sulla scrivania.

Karen incontrò gli occhi di Terence e si sorrisero: "James verrà con noi, naturalmente. Le tate ci seguiranno e staranno con lui mentre noi ci troveremo alle prove o in teatro. Non sarà facile, ma di certo sarà una bella avventura".

Cercò la sua mano e Karen si sentì completa, mentre la stringeva. Robert annuiva, palesemente perplesso, ma capì che non osava ribattere.

Lei era stata la prima a disperarsi, quando aveva scoperto di essere incinta. Terence aveva reagito meglio, ma era chiaro come il sole quanto si sentisse disorientato. La gravidanza, la nascita e poi la dolcezza e la tenerezza di avere quella creatura fra le braccia. Le notti insonni, la stanchezza, le lacrime, le risate. E, infine, la decisione di tornare sul palco nonostante tutto.

Terence aveva detto bene: era un'avventura, una piccola sfida essere attori in quel tempo con un bambino piccolo al seguito. Persino Eleanor Baker, che aveva avuto modo di tenere fra le braccia il suo primo nipotino, sembrava trasportata dal loro stesso entusiasmo un po' timoroso.

Lei aveva rinunciato alla carriera solo per vedersi strappato Terry quando era ancora piccolo. Quindi l'aveva ripresa vivendo nel rimpianto di non averlo avuto accanto.

Per lei quella soluzione era il compromesso perfetto e un po' folle per unire le due cose. Forse non avrebbe funzionato e avrebbero dovuto lasciare tutto a metà. O forse si sarebbero stupiti di riuscire a far coincidere a meraviglia lavoro e genitorialità.

Un giorno lontano, Terence Graham si disperava per un'altra donna. Oggi le sorrideva complice, il viso disteso e giovane, e una luce negli occhi che era solo per lei.

- § -

Frannie guardò il volto deluso di Adrian e dovette distogliere lo sguardo.

Per fortuna, lui non era tipo da anelli e dichiarazioni in ginocchio, altrimenti pensò che si sarebbe sentita peggio.

"Perché no?", chiese con voce composta, il volto serio ora a pochi centimetri da lei.

Frannie andò verso la finestra di quello che era diventato il loro appartamento e scostò la tenda color mattone che le copriva la visuale. Non le interessavano le persone che passeggiavano per la strada, né il movimento leggero del vento che s'insinuava tra le fronde degli alberi del parco di fronte all'abitazione, dove frotte di bambini giocavano a rincorrersi.

Potrei diventare madre anche io, un giorno...

"Perché è ancora troppo presto, e il lavoro...".

"Il lavoro, il lavoro, il LAVORO!". A ogni 'lavoro', il tono di Adrian diventava più spazientito e alto e lei sentì distintamente i suoi passi nervosi dietro di sé rimbombare per il salotto. "Quanti colleghi sposati abbiamo, Frannie? Soffermiamoci sulla prima parte della tua frase, piuttosto".

"Adrian...", tentò, chiudendo gli occhi e preparandosi alla loro prima, vera lite. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato, ma non era preparata ad affrontarlo. Gli voleva molto bene e l'ultima cosa che voleva fare era ferirlo.

"È ancora troppo presto", ripeté lui in tono basso, prendendola d'improvviso per le spalle e girandola verso di sé. "Pensi ancora a lui? Sei ancora infatuata di Albert Ardlay?". Gli occhi blu brillavano di rabbia e gelosia, la mascella era contratta.

"Non dire sciocchezze, sai benissimo che l'ho superato da tempo". Ed era vero. Si era trattato di un fuoco ardente ma abbastanza breve da lasciarla solo con un vago senso di nostalgia per il suo primo amore neanche tanto giovanile.

"E allora cos'è? Cosa t'impedisce di condividere la tua vita con me, Frannie? Pensi forse che mi basti questa... specie di fidanzamento basato su una relazione meramente fisica?", le chiese scuotendola.

Lei si divincolò, furiosa e anche imbarazzata: "Continui a dire cose senza senso! Sai benissimo che non è così, in ospedale sanno tutti che siamo una coppia. Una coppia emancipata, aggiungo io, che condivide il letto ma non sente il bisogno di suggellare il proprio rapporto con un documento ufficiale".

"Tu non ne senti la necessità", la accusò puntandole un dito contro, allontanandosi da lei di qualche passo e riavviandosi i capelli, infilandoci le dita in mezzo con un gesto stizzito quanto affascinante.

"Adrian, non ti ho mai promesso che saremmo andati così avanti. Ho ancora bisogno dei miei spazi!", rivendicò allargando le braccia.

Lui fece una risata amara: "I tuoi spazi! Parli come una di quelle... suffragette!", la apostrofò agitando una mano come se stesse parlando di qualcosa di poco conto.

"E tu parli come un maschilista fatto e finito! Non credevo fossi così ancorato alle regole". Si avvicinò a lui, girando intorno al tavolino basso dove una pila di documenti relativi ai pazienti di Adrian attendeva di essere firmata e portata in ospedale.

Lui era entrato in quella stanza, li aveva gettati lì sopra e poi le si era avvicinato con finta noncuranza: "Che ne diresti di sposarmi?", aveva proposto con le mani in tasca, girato per metà e con un'espressione incerta sul viso.

Ora capiva che Adrian si era aspettato un suo rifiuto, ma non sembrava comunque intenzionato ad accettarlo.

"Eri tu quella delle regole, Frannie. Del rigore, della freddezza. Ma solo quando si tratta del tuo lavoro". Il tono di Adrian vibrava di rabbia e lei chiuse gli occhi. Non lo aveva mai visto così. "Quando hai deciso di lasciarti finalmente andare come donna ho sperato davvero che ti saresti ammorbidita sotto tutti gli aspetti, ma no. L'infermiera ha sempre il sopravvento su di te, su di noi. Parli di libertà. Io direi piuttosto che hai ancora dei dubbi su quello che provi".

Deglutì, sconfitta. "Non sono mai stata... con un uomo, prima. Non so bene come ci si debba sentire per desiderare tanto il matrimonio. D'istinto posso dirti che mi serve... più tempo".

Adrian chiuse la distanza tra loro con una rapidità che le fece girare la testa e la strinse intorno ai fianchi, avvicinando il volto al suo abbastanza da poterla baciare. Ma non lo fece e lei poté sentire sul viso il suo alito caldo che sapeva di caffè: "Se William Albert ti avesse afferrata così, quando eri a Chicago, e ti avesse baciata così...".

Lo fece, e fu quasi il morso di un affamato, a cui si dovette arrendere aprendo la bocca e accettando l'invasione rovente della sua lingua. Ma non pensò affatto a William Ardlay, no. Le vennero in mente le immagini della notte appena passata, mentre il suo corpo sussultava in un'estasi potente proprio mentre lui la stava baciando in quel modo e lei aveva gridato nella sua bocca.

"... e ti avesse chiesto di sposarlo, che gli avresti risposto?", terminò staccandosi ma non allentando la presa sulla sua vita.

"Smettila di parlare di lui, ti ho già detto che non c'entra niente!", protestò sentendosi sciogliere sotto la sua presa d'acciaio.

Lui le prese il viso con una mano, dapprima con rudezza, poi divenne più delicato e fu struggente come una carezza: "Io ti amo, Frannie Hamilton, voglio dividere ogni respiro della mia vita con te. Avere dei figli, una famiglia. Qui, in America, in Australia, ovunque vorrai. Non siamo più ragazzini, non abbiamo tempo per i giochi. Ti ho aspettata per troppo tempo, Frannie, ti ho osservata da lontano ancora prima che partissi come crocerossina e quando sei tornata mi era già chiaro cosa ci fosse nel mio cuore. Adesso tocca a te decidere prima che io mi stanchi di attenderti".

"Cos'è, un ultimatum?", chiese, indignata.

"Chiamalo come vuoi. Mi hanno proposto di lavorare in giro per l'Europa a partire dal prossimo mese e speravo di farlo con mia moglie. Ma vedo che tu non sei d'accordo, quindi ti lascio pensare", concluse lasciandola sbalordita.

"In giro... per l'Europa? E quando pensavi di dirmelo?!", sbottò.

"Te l'ho detto oggi!", ribatté lui cominciando a uscire dal salotto e Frannie si ritrovò a seguirlo lungo il corridoio fino alla camera da letto.

"Sì, ma...". Non sapeva più cosa dire. Per la prima volta in vita sua, Frannie era senza parole: tutto stava andando troppo velocemente, e che diavolo stava facendo Adrian?

"Ma cosa, Frannie? Direi che ci siamo divertiti, io e te. Era un'avventura che volevi? Un amante? Bene, lo stupido che hai qui davanti lo è stato, ma non si accontenta più". Con orrore, lo vide aprire il suo armadio, tirare fuori alla rinfusa vestiti e giacche e infilarli in una grande valigia.

"Dove vai?", chiese con voce più stridula di quanto avesse voluto.

"Me ne vado in albergo e ti lascio l'appartamento. Anzi, te lo regalo! Ho capito perfettamente, Frannie, non sono un idiota. Puoi vivere qui mentre io sarò in viaggio, e se mai tornerò...". Si passò una mano sul capo, interrompendo per un attimo il movimento frenetico tra l'armadio e il letto, che ora era un groviglio di pantaloni e camicie. Frannie poté sentire distintamente il profumo che esalava dai suoi abiti. Maschile, mischiato alla colonia che lui amava tanto.

"Se mai tornerò me ne cercherò un altro. Non credo comunque che potrei vivere di nuovo qui". Frannie vide i suoi occhi brillare di lacrime trattenute e per un attimo sostenne il suo sguardo, sentendosi come se le stessero strappando qualcosa dal petto. Ma non riuscì a ribattere nulla, le parole e i sentimenti rimasero strozzati in gola.

In fondo, non era cambiata poi molto se non riusciva a esprimere quello che provava.

Adrian sbatté le palpebre e distolse lo sguardo, forse lottando per non piangere davanti a lei, e Frannie sentì il suo corpo intorpidirsi, mentre lo osservava come in sogno infilare quegli abiti in valigia senza piegarli e chiuderla con un gesto secco.

Aprì la bocca per parlare, ma ne uscì solo un verso strozzato e finalmente lui la guardò di nuovo. Le si avvicinò, fissandola con un'intensità tale che temette e al contempo sperò di affogare nelle due pozze azzurre dinnanzi a lei.

"Non mi hai mai detto che mi ami, Frannie. Mai una volta", mormorò alzando una mano come per sfiorarle il viso. Chiuse le palpebre, anelando quel tocco, ma quando le riaprì lui era già sulla soglia. "Addio, Frannie". La porta d'ingresso sbatté, facendola sussultare.

Congelata al suo posto, aveva risposto a ogni sua frase con il silenzio, confermandogli di certo i suoi dubbi. Come si faceva a venire a patti con sentimenti che non sapeva nemmeno di provare? Come poteva ancora fare il paragone tra quello che era scoccato nel suo cuore davanti a William Ardlay e la fiamma che la consumava quando era fra le braccia di Adrian? Il primo aveva aperto il suo cuore, il secondo lo aveva incendiato.

Era quindi quello l'amore vero? Quando ci si sentiva spezzare il corpo in due se l'altro se ne andava e lasciava solo una casa vuota e il suo profumo ad aleggiare?

Mentre crollava sul letto, singhiozzando e piangendo sconfortata, Frannie si chiese perché fosse tanto insicura da voler a tutti i costi analizzare i suoi sentimenti. Non era una dose di medicinale da iniettare a un paziente, né un parametro vitale da controllare con somma cura.

Era il suo istinto, la sua pelle, il desiderio di chiacchierare con lui della giornata appena trascorsa e di condividere i giorni e le notti. Quella scintilla che l'aveva indotta a rimanergli accanto e a concedersi ad Adrian senza più pensare a nulla.

Ma il matrimonio era un impegno che durava tutta la vita, sarebbe stata in grado di assumersi una responsabilità del genere? Lei, che era stata crocerossina e aveva visto la morte e la guerra. Lei si spaventava all'idea di legarsi all'unico uomo che l'avesse mai fatta sentire una donna completa.

Alzandosi lentamente, con gesti meccanici, sistemò il copriletto che si era sgualcito dopo l'assalto di Adrian con la valigia e i vestiti. Si asciugò gli occhi e chiuse quella porta dietro di sé, sapendo che avrebbe dormito in un'altra stanza e non in quella.

Tornò in salotto, soffocando gli ultimi singhiozzi col dorso della mano sotto al naso, e fissò lo sguardo sulla pila di documenti di Adrian. Li aveva dimenticati lì.

"Sei sempre il solito distratto", disse con voce rotta e, mentre li prendeva in mano, ebbe una folgorazione.

Rimase lì, ancora piegata per metà, con i fogli tra le mani che le tremavano fuori controllo e le ricaddero con un tonfo sordo.

Come aveva potuto essere così stupida e cieca?

Se lo stava ancora chiedendo quando corse fuori come se il Diavolo in persona la stesse inseguendo. Uscì dal portone e fece le scale con una foga tale che il nastro che le teneva i capelli si sciolse facendoli svolazzare dietro di lei. Giunta alla fine della breve scalinata, si guardò attorno freneticamente e lo vide, in lontananza, fare cenni a una carrozza perché si fermasse.

"Adrian", articolò senza voce, vedendolo salire come al rallentatore. La carrozza partì nel momento in cui lei raggiungeva il marciapiede e finalmente riusciva a gridarlo, quel nome.

Respirò a fatica per lunghi istanti, cercando di riprendersi dalla corsa, e la carrozza, che aveva fatto solo pochi piedi, rallentò fino a fermarsi. Lui ne uscì guardandola perplesso e Frannie non perse tempo.

Da dove si trovava disse, noncurante delle persone che potevano udirla: "Ora l'ho capito. È la mia famiglia. Sono loro quelli che mi fanno paura. Io... non li ho mai visti felici".

Adrian la fissò con un'espressione di stupore e cominciò a camminare verso di lei, lentamente.

"Dannazione, Adrian, lo psichiatra sei tu! Ma ci sono arrivata da sola!", protestò, piangendo e ridendo, vedendolo allargare le braccia e gettandovisi dentro in pochi passi.

"Me ne hai parlato così poco e con tanta riluttanza che io... ero talmente geloso di Albert che non ci ho pensato. Sono troppo coinvolto per fare il medico con te, Frannie", disse emozionato, infilandole le mani tra quei capelli che tanto le aveva detto di amare.

Lei, con il viso affondato nel suo petto, sentiva il suo cuore accelerare al ritmo del proprio: "Mi sforzerò di superarlo, ma ho bisogno di te... e non come specialista".

Adrian la cinse in un abbraccio, le labbra erano all'altezza del suo orecchio sinistro e le mandavano scosse elettriche lungo tutto il collo: "Ti concederò del tempo supplementare per superarlo. Ma non troppo".

Lei rise tra le lacrime: "Hai la testa fra le nuvole, hai lasciato tutti i documenti a casa".

"E tu me li hai riportati?". Come poteva una domanda così banale suonare tanto sensuale?

"No, me li sono dimenticati". E rise, Frannie, rise di cuore fra le lacrime, lasciando che lui allentasse la stretta per guardarla negli occhi, perdendosi ancora una volta nei suoi.

"Chi dei due ha la testa fra le nuvole, dunque?".

Conscia del terremoto interiore che l'aveva appena scossa, Frannie capì che era facile. Facile come respirare, se solo si lasciava andare il proprio cuore senza timori. Facile come aprire le labbra e sillabare quelle due semplici, potenti parole: "Ti amo".

Quello che vide sul suo volto la ripagò di tutti gli anni di sofferenze, privazioni e incertezze che aveva vissuto fino ad allora.

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Angolo dei commenti:

Dany Cornwell: Purtroppo, il momento di fragilità che Candy sta vivendo non la fa riflettere in maniera lucida, ma alla fine torna fra le braccia di Albert, come hai visto. Frannie non vuole usare Adrian, ma darsi e dargli una possibilità: sa bene che Albert è un sogno impossibile. Anche a me ha toccato molto il momento con la zia Elroy, mentre lo scrivevo. Ma per fortuna le cose stanno andando bene, ora: Annie ha ritrovato la sua famiglia e Albert finalmente ha avuto la meravigliosa notizia da Candy!

Elizabeth: La vita di coppia è proprio così, ha alti e bassi, ma l'importante è affrontare tutto insieme! Visto? Il nuovo arrivo è già in viaggio!

Sandra Castro: Dolore, lacrime, dolcezza e poi passione: nella vita di Candy e Albert non manca proprio nulla, ma loro affrontano tutto con forza e sorrisi perché l'amore può davvero tutto! Archie e Annie stanno avendo il loro riscatto e si meritano sia la festa che il perdono dei Brighton. Grazie di cuore, alla prossima!

Ericka Larios: Per fortuna, nonostante il dolore della perdita del primo bambino, il secondo è già in arrivo e tutto sembra andare a gonfie vele! Persino la zia Elroy ha la prima conversazione emotiva con Candy e le è più vicina che mai. Annie e Archie sono felici e a questo punto mancano solo Frannie e Adrian...