Grazie dei commenti a Ericka Larios, MariaGpe22, Eydie Chong, Dany Cornwell, Kecs (per tradurre devi impostare Google traduttore perché la lingua di origine della traduzione sia l'italiano verso lo spagnolo, fammi sapere se riesci!).
Lilian predica bene e razzola male, come si dice da queste parti: tale madre e tale figlia! Che succede alla zia Elroy? Di colpo è così accondiscendente, nonostante la malattia, che a molte di voi fa quasi tenerezza! Più di una di voi ha messo sul piatto la tesi che Lilian sia figlia di Frank: è possibile? Albert in effetti segue solo la sua natura, anche se sogna i bambini con le lentiggini: e se può difendere un essere debole come un bimbo appena nato lo farà, anche se alla fine avrà ragione a dubitare della paternità. Grazie per averlo capito! E grazie a chi mi chiede di continuare la storia così come l'ho pensata. Grazie anche dei complimenti, un abbraccio!
Tristi realtà
Ethan aveva vagato per giorni da un orfanotrofio all'altro e infine l'aveva vista. Anzi, li aveva visti. Lei, con il ventre ormai prominente e lui, che le dava il braccio con quell'aria da santo che gli faceva solo venir voglia di prenderlo a pugni.
Passandosi le nocche sulle labbra aride, aveva desiderato ardentemente correre da Lilian, strappargliela dalle braccia e rivendicare ciò che era suo: ma non poteva e, forse, non avrebbe più potuto. Cominciava a capire il perché: William Ardlay controllava sua moglie tanto da vicino che si stava abbassando ad andare per orfanotrofi con lei. Un momento... non era forse un filantropo anche lui? Non aveva adottato quella ragazza e viaggiato persino in Africa? Magari per lui era normale fare cose come quella.
E tuttavia, Lilian era sparita da tempo e non avevano più potuto parlare. Ethan poteva procurarsi una dose di veleno sufficiente per uccidere subito il patriarca, così come suddividerla per far apparire più vero il suo malessere, ma se non avesse potuto accordarsi con Lilian sarebbe stato inutile.
Eccoli, che infine uscivano dalla porta principale: la sua donna, col capo chino e il corpo più pieno che voleva percorrere con le proprie mani e con la bocca, dando e ricevendo ciò che spettava a entrambi di diritto; e il marito di troppo, elegante e composto come un dipinto in movimento.
Desiderava solo che Lilian lo vedesse, che capisse che era lì, in attesa, ma era impossibile farlo senza che lui se ne accorgesse. La vettura nella quale stavano salendo aveva lo stemma degli Ardlay ed era grande il doppio di quelle che usava Lilian per spostarsi quando era ancora sola.
Nascosto dietro il muro di un vicolo, la guardò andare via con la vista offuscata da lacrime di rabbia, il cuore che tamburellava nel petto quasi volesse arrivare fino a lei. Ethan strinse i pugni e sbatté le palpebre, comprendendo come, anche se avesse scoperto dove vivevano, sarebbe stato impossibile avvicinarla.
Quell'uomo doveva essere stato molto furbo e attento e come minimo aveva servitori ovunque. Ma non poteva dargliela vinta, oh, certo che no! Se non fosse riuscito a incontrare Lilian, ebbene, sarebbe letteralmente passato sul cadavere del patriarca degli Ardlay per raggiungerla!
Lo avrebbe ucciso lui o, meglio ancora, lo avrebbe fatto uccidere.
Di certo aveva delle guardie del corpo e non si spostava mai da solo, però sarebbe bastato mettergli alle calcagna qualcuno degli uomini di sua fiducia. Una volta comprese le sue abitudini avrebbe potuto chiamare un tiratore scelto, uno che non avrebbe sbagliato la mira e a cui la polizia non sarebbe risalita. Anche perché gli avrebbe promesso una ricompensa in denaro, ma gliene avrebbe data una ben diversa: la stessa che in origine doveva andare alla sua vittima con un ago.
Una cosa per volta, si disse incamminandosi con la schiena curva e le mani affondate nelle tasche della giacca logora.
Un passo al giorno avrebbe riavuto la sua Lilian. E, se era fortunato e il suo piano fosse andato liscio, l'avrebbe riavuta persino prima che nascesse il loro bambino.
- § -
Archie ricevette il dottor Leonard nello studio dove stava lavorando con Georges. In realtà, era molto distratto quel giorno: ogni volta che andava in visita a sua zia la trovava peggiorata e non solo a livello mentale. Sembrava quasi consumarsi anche fisicamente alla medesima velocità.
Mentre facevano accomodare il medico sul divano e lui e Georges sedevano su due poltrone di fronte al dottore, ripensò anche a quanto la zia fosse cambiata: più di un mese prima aveva chiesto di farsi raccontare la storia di Candy e aveva preteso di incontrare i loro avvocati per modificare il testamento.
E lo aveva fatto a porte chiuse, nonostante avessero fatto presente ai legali che la signora Ardlay aveva un problema cognitivo importante.
"La signora era molto lucida e ha preso delle decisioni che reputiamo in linea con la famiglia", aveva detto uno di loro.
Tuttavia, c'era voluta tutta la pazienza di Albert per farsi riferire dalla zia Elroy che aveva voluto includere nel suo testamento nientemeno che Candy, anche se non aveva voluto rivelare in che termini. Sul volto stupito di suo zio aveva visto calare la comprensione e aveva compreso a sua volta che la chiacchierata con Georges doveva averla colpita al punto che stava tentando di rimediare agli errori di una vita.
"Come sta la signora?", stava chiedendo Georges al dottore, strappandolo dai suoi ricordi.
L'uomo chiuse gli occhi e fece un lungo sospiro: "Non vi mentirò, signori. Purtroppo il suo cuore è molto debole e questo mi preoccupa anche più della malattia degenerativa: oggi non ha riconosciuto neanche me".
Archie deglutì forte, cercando di ricacciare giù il nodo che aveva in gola. Prese un respiro tremante: "Quanto... quanto tempo...". La voce era malferma e dovette chiudere gli occhi per impedire alle lacrime di traboccare.
Il medico si schiarì la voce, anche lui sembrava provato e persino Georges lo fissava con occhi vitrei: "Io... io non credo che si tratti di molto... giorni, forse settimane...".
Quelle parole gli affondarono nel cuore come un coltello e, di riflesso, si alzò di scatto dalla poltrona. Doveva agire, fare qualcosa, qualunque cosa che non fosse ascoltare il dottor Leonard che gli diceva che la zia Elroy stava morendo. Solo fino a pochi mesi prima era la solita matriarca altera che li faceva persino arrabbiare, ora invece...
"Vado a chiamare Albert".
"Buona idea, signorino Archibald", gli fece eco Georges, alzandosi a sua volta.
Mentre afferrava la cornetta e componeva il numero, tentando di controllare le proprie emozioni, chiese al dottor Leonard se non fosse il caso di ricoverarla in ospedale.
"Posso predisporre per lei l'assistenza di cui ha bisogno anche qui. Direi... che è meglio che stia in casa, circondata dai propri affetti". L'uomo distolse lo sguardo: gli stava dicendo che sarebbe morta lì, tra le persone che amava.
Archie smise di fare il numero e si appoggiò sulla scrivania con le mani, lasciando cadere la cornetta. Soffocò un singhiozzo e udì i passi di Georges avvicinarsi, ma non ebbe il coraggio di guardarlo.
"Se mi posso permettere... credo che la signora vorrebbe che fosse fatto così". Persino lui aveva la voce malferma.
Archie annuì, incapace di parlare, e porse il telefono all'uomo. Lui parve comprenderlo al volo, perché lo afferrò e ricominciò da dove aveva lasciato.
Voleva uscire di lì, vedere Annie e stringerla a sé. E, quando fosse stato in grado, andare da sua zia e dirle quanto l'amasse. Ma, prima di cadere in pezzi, doveva compiere il proprio dovere: si accostò al dottore con l'intento di accompagnarlo alla porta e lo fece in assoluto silenzio.
Il medico si calcò il cappello sulla testa e, prima di andarsene, mormorò: "Per qualsiasi cosa, non esitate a chiamarmi, anche di notte".
"Grazie", riuscì solo ad articolare, prima di richiudersi la porta alle spalle, poggiarvisi con la schiena e nascondere il viso tra le mani.
Devastato dall'ennesima, imminente perdita, con il ricordo ancora vivo di Stair e persino di Anthony nel cuore, Archie scoppiò a piangere.
- § -
Lilian si carezzò il ventre quando l'ennesimo calcio la costrinse a fermarsi.
William aveva appena ricevuto una telefonata urgente e lei era rimasta sola in giardino con la sua cameriera, che le faceva compagnia.
Controllata, come fossi una delinquente.
Da quando si era sposata, lui non l'aveva mai lasciata sola, lavorando da casa o andando in banca solo quando era davvero necessario. Non le era permesso allontanarsi se non per motivi di emergenza o legati alla propria salute e nessuno dei suoi servitori si sarebbe bevuto una bugia. Aveva persino ottenuto il permesso di ricevere le visite di Frank quando non poteva recarsi in ospedale, anche se aborriva l'idea che le si avvicinasse e la toccasse, dopo quanto aveva scoperto.
Quelle visite si riducevano a un controllo freddo e distaccato dei suoi parametri vitali e di quelli del bambino e non c'erano che convenevoli tra loro.
"Lo senti muovere regolarmente?", le aveva chiesto suo zio riponendo lo stetoscopio nella borsa.
"Da almeno un mese, specie di notte".
Lui aveva persino sorriso: "Allora è tutto nella norma. Noto con piacere che tu non sei più anemica, ma dovresti comunque sforzarti di mangiare di più".
Non gli aveva risposto, non ne aveva voglia. Non aveva voglia di mangiare, né di fare più del minimo indispensabile per mantenersi in piedi e in grado di portare a termine quella gravidanza.
Lilian si appoggiò con la mano al tronco di un albero, guardando i giochi di luce che i raggi del sole facevano fra le fronde di quelli più lontani. Chiuse gli occhi, beandosi del suo calore e desiderando che fossero le mani di Ethan.
Lo sognava ogni notte e le pareva quasi di sentire il suo tocco esigente correre lungo il corpo, scosso da brividi di piacere, la sua voce carezzevole e ruvida nell'orecchio, il suo respiro bollente sulle labbra. Senza rendersene conto, se le sfiorò con le dita, anelando un bacio che non riceveva da mesi.
Le mancava come fosse ossigeno e le lacrime le rigarono le guance senza che potesse farci nulla: era andato tutto storto e non aveva neanche più sua madre al proprio fianco.
Aveva persino pensato di coinvolgerla nel suo piano, ricattandola con quell'orribile segreto che si portava dietro. Un po' come avevano fatto con Frank, realizzò d'improvviso: ecco perché sua madre pareva avere tanto potere su di lui. Ma non si fidava di lei al punto di mandarla da Ethan per procurarle il veleno.
E comunque rimaneva il problema di come inocularlo al suo scostante marito.
Se solo William mi amasse un poco...
Una notte, per prova, aveva tentato di aprire la porta che separava le loro stanze e l'aveva trovata chiusa a chiave. Non solo era impossibile sedurlo, ma persino avvicinarlo nel sonno. Nonostante la tregua che avevano stabilito, lui rimaneva prudente e le si accostava solo se erano in presenza di altre persone.
"Signora, sta bene?". La cameriera doveva aver notato che stava piangendo.
"Sì, sto bene, vorrei solo uscire più spesso", confessò.
Il viso della donna si illuminò: "Se vuole andiamo a chiedere al signore di accompagnarla a fare una passeggiata".
Lilian la guardò con la voglia di gridarle in faccia che no, non ci teneva a fare la bambola al braccio di un marito che a malapena la guardava. Voleva andare dal suo Ethan, fare l'amore con lui ed essere libera come un tempo.
"No, grazie, non voglio...". Non finì la frase, perché il maggiordomo uscì dalla porta di casa in quel preciso istante, avvicinandosi a lunghi passi. Il viso sembrava preoccupato e Lilian si ritrovò con tutti i sensi all'erta.
"Signora", cominciò con un inchino, "il signore fa sapere che deve recarsi con urgenza nella sua abitazione del centro e lascia detto che non sa se rientrerà per cena. Ma lascia a lei la libertà di far preparare nelle cucine quando desidera desinare".
Una smorfia di disappunto le contrasse i lineamenti: cenare da sola o con William era la stessa cosa, d'altronde. Di solito, lui si limitava a pochi monosillabi tra un boccone e l'altro, parlando perlopiù dei nuovi investimenti e chiedendole come si sentisse. Aveva notato che scoccava occhiate sempre più insistenti al suo ventre, quasi si rendesse conto che pareva più avanti nel tempo di quanto gli facesse credere.
"Grazie, non ho appetito al momento. Vorrei restare un po' qui a guardare il tramonto, posso avere una poltrona?". L'uomo obbedì, allontanandosi per andarla a prendere, e Lilian si domandò cosa diavolo fosse accaduto, stavolta, per far correre via William a quell'ora del pomeriggio.
Quando lo chiese al maggiordomo, di ritorno con la poltrona, lui parve quasi interdetto dalla domanda, poi parve decidere che non ci sarebbe stato nulla di male a rispondere: "Purtroppo sembra che la signora Ardlay non si senta affatto bene e Georges Villers ha richiesto la presenza del signore".
Oh, quindi la vecchia stava tirando le cuoia? Bene, avrebbe avuto un problema in meno quando il bambino fosse nato. E, forse, un marito disperato poteva anche abbassare la guardia...
- § -
Albert entrò nella stanza con la sensazione sgradevole di avere lo stomaco e le viscere annodati in un unico crampo: aveva dovuto arrendersi a un destino sgradito e ora doveva affrontare anche questo.
La zia Elroy sedeva su una poltrona che dava verso la finestra e poteva vedere il suo profilo rugoso, il naso adunco che spiccava sul viso scavato.
Sembrava più curva, più anziana, più fragile e gli si strinse anche il cuore. Della vecchia matriarca altera e piena di sé era rimasto ben poco.
Le si avvicinò camminando piano, studiando attentamente le sue reazioni e notò che appariva rilassata, quasi serena. I suoi occhi non abbandonarono mai il panorama fuori dalla finestra.
"Ciao, zia, come stai?", disse a bassa voce, accosciandosi accanto a lei e prendendo una mano nelle sue.
Lei, che pareva non essersi nemmeno resa conto di avere visite, si voltò con un sorriso che le incurvava le labbra raggrinzite: "E lei chi è, giovanotto?".
Il respiro gli si mozzò in gola e Albert deglutì a secco.
Dunque era vero... è peggiorata fino a questo punto?
"Molly, per cortesia, mi lasceresti solo con la zia Elroy?", chiese alla cameriera.
La donna annuì e si inchinò prima di lasciare la stanza richiudendo la porta con discrezione.
"Sono William, zia, tuo nipote", le rispose allora, guardandola negli occhi.
La vecchia si accigliò, scrutandolo con attenzione, poi alzò l'altra mano che tremava e gliela pose sul viso: "William?", chiese in tono commosso.
Albert accennò di sì con la testa, un nodo gli stringeva la gola.
Gli occhi acquosi si spalancarono e un lampo di consapevolezza parve attraversarli quando aggiunse: "William, fratello mio! Perché non sei più venuto a trovarmi?".
Oh, cara zia Elroy...
Dovette respirare a fondo prima di spiegarle: "No, non sono tuo fratello... sono tuo nipote. William Albert", spiegò stringendole un po' la mano.
La bocca si aprì come per lo stupore, poi sembrò mormorare il suo nome più volte. Sembrava che la zia stesse facendo uno sforzo per comprendere la differenza fra suo fratello e suo nipote: "Non hai portato Priscilla con te?".
Albert chiuse gli occhi e rilasciò il respiro che non si era neanche accorto di aver trattenuto, mentre si alzava baciando la mano della zia prima di lasciarla. Fece qualche passo nella stanza, dove tutto era immutato e in ordine.
Ma in quella stanza mancava qualcosa di fondamentale: l'anima.
Quando la zia Elroy era in salute, c'era sempre un servizio da tè cinese in un angolo con un bricco di bevanda fumante e fiori freschi che, se si trovavano a Lakewood, provenivano dal roseto di Rosemary e Anthony. Sul comodino non mancava mai un buon libro storico o relativo all'albero genealogico degli Ardlay; una volta ricordava di aver visto persino una Bibbia.
Ora, in quella stanza, si respirava la calma piatta di una vita che si stava spegnendo e che non aveva più alcun interesse se non ammirare il sole all'esterno.
Il nodo in gola e nello stomaco si strinse.
Albert fissò la toeletta su cui una volta c'erano costosi profumi francesi e dove ora erano disposte in fila boccette di medicinali quando la sua voce, così simile a quella della zia Elroy di un tempo, lo fece quasi sobbalzare: "Albert?".
Si voltò di scatto e vide che si era alzata, facendo cadere lo scialle che poco prima le copriva le spalle. Lo aveva chiamato Albert anche un mese prima, a detta di Archie, il che era davvero qualcosa fuori dal comune. Si affrettò ad avvicinarsi per raccogliere lo scialle e si accorse che gli sembrava addirittura più piccola.
Curva, fragile...
"Sì, zia, sono qui". L'aiutò gentilmente a sedersi di nuovo, ma il suo sguardo non lo abbandonò mai.
"Hai gli stessi occhi di tuo padre", disse con tono più deciso, più da zia Elroy. Gli passò le dita fredde ma ora ferme sulle guance e fu commosso da quel tocco gentile. "Tuttavia i tuoi lineamenti mi ricordano tanto tua madre. Era una brava donna".
Di nuovo, Albert non seppe cosa rispondere, preda di emozioni forti e contrastanti. Non ricordava che avesse mai parlato con tanta gentilezza di sua madre Priscilla.
La zia Elroy lo aveva fatto arrabbiare parecchio in passato e, dai racconti di Archie, aveva avuto conferma del fatto che fosse rimasta sempre la stessa donna testarda e integerrima anche durante i suoi anni di assenza.
Per lei il buon nome della famiglia era importante al pari e forse anche più degli affetti. Aveva lottato con le unghie e con i denti per mantenerlo, rinnegando più volte Candy che, secondo lei, non era degna del loro lignaggio.
Per questo, quando parlò, non seppe se piangere o ridere: "Perché hai sposato quella donna, Albert? Perché non hai sposato Candy, che è così cara e ti ha salvato la vita? Vi amavate tanto!".
La sua domanda spontanea e genuina gli provocò un terremoto interiore che lo fece vacillare, soprattutto perché era molto più lucida di quanto lo fossero stati lui e Candy per tanto tempo.
Se solo mi fossi reso conto prima di quello che c'era fra noi e non avessi esitato tra mille insicurezze...
La zia Elroy lo stava fissando aspettandosi una risposta e lui, con un grosso sospiro, si piegò di nuovo sulle ginocchia per essere alla sua altezza. Le baciò una mano riprendendola fra le sue e cercò di essere più sincero possibile: "Vedi, zia... purtroppo ci sono circostanze nella vita che ti portano a fare scelte che non vorresti mai fare. Ho dovuto sposare Lilian... per il bene della famiglia".
Era assurdo che i ruoli si fossero rovesciati. In quel momento, Albert stava spiegando alla zia Elroy che non sposarsi per amore era stato necessario per la stabilità familiare.
Potrei averla compromessa anche se non lo ricordo. E sono quasi certo che mi abbia incastrato, ma non potevo proprio fare diversamente...
"Sciocchezze", sbottò lei aggrottando di nuovo le sopracciglia e sembrando davvero la vecchia prozia brontolona di un tempo. "L'unico bene per la nostra famiglia è che tutti i membri siano felici. E tu sei felice, figliolo?".
Cosa doveva risponderle? Per lui era già surreale sostenere quella conversazione con lei, che riteneva un matrimonio con un buon partito l'unica cosa importante per mantenere intatta la stirpe degli Ardlay!
La sua esitazione parve darle la risposta che cercava, perché disse in tono quasi infastidito: "Ho capito, lascia perdere". Chiuse per un attimo gli occhi, stizzita quasi come suo solito, provocandogli un'incredibile ondata di nostalgia.
Cosa darei per discutere di nuovo con te, adesso!
Quella nuova personalità, purtroppo, significava solo una cosa: la malattia degenerativa che l'aveva afflitta era stata la causa principale che aveva addolcito il suo carattere e lui preferiva che la prozia fosse implacabile ma in salute.
"Promettimi una cosa, Albert, caro", disse cominciando ad accarezzargli piano il viso, un gesto intimo e confidenziale che non avrebbe mai fatto.
"Tutto quello che vuoi, zia". La voce lo tradì, spezzandosi sulle ultime parole.
"Promettimi che sarai felice, appena ti sarà possibile. Ho visto tanta sofferenza in questi anni... promettimelo, ti prego!". Il tono era accorato, gli occhi velati di lacrime e Albert capì che, in qualche modo, dentro quella donna in apparenza senza memoria c'era davvero la vecchia zia Elroy.
E capì che gli stava dicendo addio, cercando di redimersi a modo suo. Non sapeva quanto sarebbe rimasta presente e quando avrebbe di nuovo lasciato il posto alla vecchina quasi al capolinea della propria vita.
Ma volle farle quella promessa, sentendosi disperato e al contempo pieno di nuove forze, come se la zia Elroy gli avesse appena infuso quella parte della sua anima per sostenerlo.
Lottando contro le lacrime che gli stavano appannando la visuale, mostrandogli il volto appena sorridente come attraverso un prisma, Albert proruppe: "Te lo prometto, zia cara. Te lo giuro". Incapace di mantenere la sua maschera composta, chinò il capo sulla mano che ancora stringeva, singhiozzando come un bambino, ripetendole la sua promessa nel pianto.
E la zia Elroy, amorevole come una nonna, gli carezzò a lungo il capo senza dire più nulla.
