Ubris – Il Peccato Mortale – Parte Seconda

Noch höre ich

Deinen Atem

Und noch sehe ich

Das Zittern Deiner Hände

Die Erinnerung beginnt zu leben

Beginnt erneut mich zu durchbohren

Und mein Herz im Stillen zu erobern

Mein Herz – Du braver Schmerz

(Lacrimosa – 'Dich zu töten fiel mir schwer')

UN MESE DOPO

Era notte fonda, ma il sonno non sarebbe venuto.

Niente avrebbe potuto convincere il dio Hypnos a posarsi su quelle lande…eppure se l'avesse fatto avrebbe ricevuto una tale gratitudine!

A ovest il tramonto s'era spento tardi, indugiando in una striscia di dolente rosso, trascolorando poi nel viola, nel blu oltremare…e infine nel nero cieco della notte.

Forse erano i fumi della città a nascondere la luna e il cielo stellato, che appariva sempre vibrante e nitido dalla collina del Santuario, o forse le stelle stesse sentivano il dolore, e lo celebravano a modo loro, nascondendosi alla vista dei comuni mortali.

O forse la città straniera, fredda e lontana, non sentiva che qualcosa era cambiato, non provava nulla, incurante e immemore di un passato che doveva esserci stato, dopotutto.

Nulla nasce dal nulla.

Di questo calibro i pensieri che s'affollavano nella mente del giovane seduto alla scrivania, circondato da fogli accartocciati, strappati, che s'accumulavano anche sul pavimento e traboccavano dal cestino della carta straccia in angolo.

Aveva trascorso le ultime due ore a imbrattare quei fogli, nel tentativo di scrivere poche, essenziali parole.

Una lettera che doveva essere scritta al più presto.

Non per la sua effettiva utilità per il destinatario, chiunque egli fosse, ma perché se non l'avesse scritta le parole si sarebbero rapprese nel suo cuore, diventando pesanti e pungenti.

Avrebbero reso il suo cuore pesante come piombo, gli avrebbero impedito di battere come sempre.

Sentiva che se non avesse scritto, che se non avesse trovato il modo di convogliare tutto in carta e inchiostro la pressione del fiume in piena dentro di lui l'avrebbe fatto andare in frantumi, come accade alle dighe mal curate, quando l'acqua le flagella per troppo tempo e finisce per demolirle.

Doveva scrivere, anche se questo voleva dire soffrire il doppio, il triplo di quanto non avesse già fatto.

Doveva scrivere, anche se voleva dire sentirsi nuovamente lacerare il cuore dalle lame affilate del tormento.

Doveva. Scrivere.

Prese un foglio nuovo, castamente bianco e senza righe.

Era quasi un sacrilegio sporcarlo di nero inchiostro, ma ogni cosa, ogni azione sulla Terra inizia con la perdita dell'innocenza.

Non perde forse del tutto la fanciullezza la donna quando grida nel dare alla luce il figlio?

E la madre Terra, non soffre quando dà alla luce i suoi figli, piante, animali, uomini?

Quando partorisce montagne e foreste, mari e fiumi?

Scosse la testa, appoggiò la penna sul foglio, la ritrasse.

Da dove iniziare?

"Inizia dal principio," disse una voce, e Mu si chiese se non fosse impazzito al punto da sentire voci inesistenti.

Si voltò, si guardò intorno nella stanza d'albergo, evitando scrupolosamente di guardare il letto, e s'accorse che la tv era accesa, a basso volume, e trasmetteva un film d'animazione, o come diavolo si chiamavano.

Uno strano ometto con tre cappelli in testa era in piedi su un tavolo imbandito per il tè delle cinque, e parlava con una bambina bionda, con un vestito azzurro e un grembiulino, che sembrava non capirci nulla.

C'era anche uno strano coniglio, o una lepre forse.

Era stato l'ometto con i cappelli a dire 'Inizia dal principio", e la bambina obbedì, iniziando a raccontare la sua storia.

Doveva fare così, doveva partire dall'inizio della storia.

E così fece.

A Dauko della Bilancia, maestro di Goro-ho,

e a Lady Saori Kido, Dea Atena,

Vi scrivo per chiarire una volta per tutte cosa è accaduto al Saint di Scorpio, Milo Vardalos, dal momento della sua scomparsa dal Santuario, il 29 luglio 19.., fino a oggi, 30 agosto.

Vi scrivo perché sono consapevole di aver agito avventatamente, ma anche per chiarire che è stata l'unica possibile via d'azione, quella di partire senza avvertire nessuno, senza rendere nota a nessuno la nostra partenza e la nostra destinazione.

Siamo partiti dal Santuario la mattina del 29 luglio, sul far del giorno. A metà strada per Atene, abbiamo atteso alla fermata che arrivasse l'autobus per la città.

Fece una pausa, riposando la mano indolenzita per lo scrivere.

Era strano che gli dolesse, aveva scritto poche righe.

S'accorse allora che stringeva la penna spasmodicamente, come per mantenere il controllo su quello che avrebbe scritto, come per mettere un freno alle emozioni che di certo l'avrebbero sopraffatto.

Ricordava perfettamente il giorno della partenza.

Dopotutto, aveva dormito con Milo quella notte, proprio come si era ripromesso, anche se era stata una notte quasi del tutto platonica, poiché Milo aveva avuto un attacco del suo male.

La mattina dopo avevano lasciato il Santuario molto presto, prima che qualsiasi Saint superstite potesse vederli e, magari, fermarli.

Era improbabile, perché nessun altro, a parte Dauko della Bilancia, conosceva le condizioni di Milo, e Dauko non era al Santuario in quel periodo.

Avevano camminato tranquillamente fino a una fermata dell'autobus, spersa in mezzo al nulla.

L'autista non si fermava regolarmente, solo quando vedeva qualcuno che attendeva, e così fu anche questa volta.

Sull'autobus, le parole soffocate dallo sferragliare del motore antiquato, Milo gli aveva detto che era felice di non essere partito da solo.

Mu gli aveva preso la mano, l'aveva stretta nella sua e non aveva detto niente.

Arrivati ad Atene nella tarda mattinata, Milo ha voluto fare tappa presso un orfanotrofio della periferia.

Già, l'orfanotrofio.

Sorgeva sì in periferia, ma non era abbandonato o maltenuto.

Lo gestiva una ragazza leggermente più anziana di loro, che evidentemente svolgeva il proprio lavoro con grande dedizione e entusiasmo.

"Non una parola sulla mia malattia e sui Saint," gli aveva sibilato Milo, prima di avvicinarsi di soppiatto alla ragazza e di coprirle gli occhi con le mani, da dietro.

"Chi sono?" domandò Milo.

La ragazza, che aveva aperto bocca per protestare, si illuminò in viso, sorridendo dolcemente.

"Milo! Sei tu vero, mascalzone, da quanto tempo non ti fai vedere!"

La sua voce era cristallina, la sua risata come il canto di decine di piccole campanelle d'argento.

Una fitta crudele percorse il cuore di Mu, quando i due si abbracciarono e baciarono.

Gelosia.

Ma gelosia per cosa? Chi gli permetteva di provarne? Cosa sapeva di Milo e del suo passato?

E poi la tensione si sciolse quando Milo lo chiamò e gli presentò la ragazza col nome di Nia Vardalos.

Non che quel nome dicesse nulla, a Mu.

Al Santuario nessuno aveva un cognome.

Gli apprendisti venivano interpellati col loro nome proprio, o spesso con un soprannome che diventava il loro nome proprio.

Pochissimi sapevano che Deathmask si chiamava Gennaro, e quei pochi erano stati minacciati di morte violenta nel caso in cui avessero deciso di dare aria alla bocca; parimenti pochi sapevano che 'Aphrodite' non era lo scherzo di una madre amante della mitologia classica, ma che il vero nome dello svedese era Nels, che suonava bene, ma non poteva essere leggiadramente adatto alla persona che lo portava come l'appellativo della dea sorta dalla spuma del mare.

L'unica ad avere un cognome era Saori Kido, Atena, e l'aveva soltanto perché era stata adottata dal signor Kido.

Se avesse vissuto al Santuario fin da piccola, non ne avrebbe avuto bisogno.

Comunque sia, sapere il nome e cognome della ragazza non aveva risolto i suoi dubbi né sciolto la sua gelosia…ma un po' l'aveva rilassato, chissà perché.

"E' mia sorella" aggiunse Milo dopo un attimo, con un sorriso dolce che Mu non gli aveva mai visto.

"Non sapevo che avessi dei fratelli," disse prima di potersi fermare.

Non era gentile nei confronti della ragazza, ma d'altra parte, era la verità.

"Ci è stato detto che fummo portati qui all'orfanotrofio insieme, lo stesso giorno dalla stessa persona. E' legittimo pensare che siamo veramente fratelli." Disse la ragazza, sorridendo.

Non era un sorriso di sfida, conteneva soltanto il desiderio di spiegarsi e di essere compresa.

"Ci venne dato lo stesso cognome," continuò la ragazza, "noi il nostro non ce lo ricordavamo, sapevamo a stento i nostri nomi. Dopotutto eravamo molto piccoli."

Mu osservò la ragazza: era suggestione, o poteva scorgere una somiglianza con Milo? Aveva anche lei i capelli nero corvino, che però portava corti e ribelli, e anche i suoi occhi erano azzurri, ma quanto era frequente questa combinazione?

Ma c'era di più.

Alcuni suoi atteggiamenti, alcune espressioni erano simili a quelle di Milo, troppo simili perché potesse averli mutuati incontrandolo solo saltuariamente.

Erano comportamenti radicati, ereditari.

Forse la madre, il padre o un fratello maggiore di Nia e Milo aveva quello stesso modo di far scattare la testa per gettare indietro i capelli, o lo stesso modo di mordersi leggermente il labbro inferiore mentre pensava.

E poi, la ragazza sembrava essere molto a suo agio, anche fisicamente, vicino a Milo.

Quando Milo stava bene, ricordò Mu, non c'era ragazza o ragazzo che non avrebbe voluto nascondersi nel suo letto per essere poi trionfalmente ritrovato dal Saint, ma di giorno nessuno riusciva a stargli vicino.

Da lui spirava alterigia e sdegno, e magnetismo, ed era difficile sopportare il suo sguardo.

Solo una vera sorella (e forse neanche quella) si sarebbe sentita così tranquilla vicino a Milo, pur senza vederlo da molti anni e senza essere a contatto con lui su base giornaliera.

Dopo aver trascorso il resto della giornata in loco, in compagnia della signorina Nia Vardalos (che potrà testimoniare, se ve ne sarà il bisogno), siamo stati ospiti dell'orfanotrofio per quella notte.

Nia ha insistito perché dormissimo lì, e visto che non c'erano altri piani per la giornata, siamo rimasti.

Ci pensò un attimo, poi cancellò l'ultima riga.

Troppo personale.

Dopo pochi secondi di ulteriore riflessione, cancellò anche il resto del paragrafo e lo riscrisse.

Dopo aver trascorso il resto della giornata in loco, in compagnia della signorina Nia Vardalos (che potrà testimoniare, se ve ne sarà il bisogno), siamo stati ospiti dell'orfanotrofio per quella notte.

Nia ha insistito perché dormissimo lì, e visto che non c'erano altri piani per la giornata, siamo rimasti.

Abbiamo trascorso il resto della giornata ad Atene e non è accaduto niente di rilevante.

Come sapevate, Milo era malato ormai da tempo, e molto debole. Durante quel primo giorno, comunque, non ebbe alcuna ricaduta del suo male e riuscì a trascorrere del tempo in tranquillità.

Già.

Una giornata praticamente perfetta.

Nia li aveva coinvolti in una specie di piccola festa che aveva organizzato per uno dei bimbi dell'orfanotrofio.

Assegnava a ogni bambino che veniva lasciato all'orfanotrofio, se era troppo piccino per ricordarsi quello vero, un giorno in cui festeggiare il compleanno.

Poi, lo segnava su un gigantesco tabellone appeso a una parete della mensa e si ricordava di fare una piccola festa per ognuno di loro.

I bambini non erano molti, ma lei aveva cura di dare a ognuno di loro un giorno diverso.

Per dei bambini a cui mancava tutto, avere un giorno tutto per sé, solo per sé e per la propria festa, non era che un piccolo regalo…eppure una grande gioia!

I bambini erano stati fantastici come solo loro sanno essere e i due giovani avevano in parte dimenticato ciò che li preoccupava.

Milo sembrava a suo agio, e non più debole del solito.

Mu lo osservava con attenzione, sperando con tutto il cuore che non si sentisse male proprio lì, in quel momento di pace e divertimento.

Un gruppetto di bambini vocianti lo distolse dalla sua analisi fin troppo clinica del comportamento di Milo.

C'era un ragazzino molto piccolo, biondo come un campo di grano, che teneva testa al resto del gruppetto, raccontando loro qualcosa con aria molto sdegnosa, come se si sentisse superiore.

Un ragazzino forse della stessa età, ma più alto e decisamente più massiccio, continuava a sbuffare e a mostrarsi annoiato, ma comunque non si allontanava dal gruppetto e restava vicino al biondino.

Gli altri aspettavano che il biondino continuasse a parlare, e quando evidentemente il racconto terminò, si allontanarono.

Soltanto il ragazzo più alto rimase col piccolo.

Intanto, non vista, Nia si era avvicinata a Mu e, seguendo la direzione dello sguardo, aveva individuato il gruppetto.

"Quello biondo si chiama Alexis, quello bruno Francesco." Disse, senza che Mu gliel'avesse chiesto.

"Dove c'è l'uno c'è sempre anche l'altro. Francesco protegge Alexis da ogni cosa, lo aiuta quando ne ha bisogno. A volte lo sgrida se lo vede troppo debole."

"Di cosa soffre Alexis?" disse Mu ad un tratto, cogliendo Nia alla sprovvista.

"Come fai a saperlo?" mormorò Nia, fissandolo negli occhi sospettosamente.

Mu si strinse nelle spalle.

"Studio medicina," mentì.

Nia si rilassò leggermente, mentre i suoi occhi azzurro-verde si riempivano di tristezza.

"Ora ha sette anni, me l'hanno portato quando non ne aveva neanche uno. Nessuno pensava che avrebbe vissuto a lungo, perché è molto debole di costituzione, anche un semplice raffreddore può diventare molto grave. Il medico che si prende cura dei nostri bambini non ha in effetti trovato nulla di strano in lui…è una debolezza congenita. Quando l'ha visitato ha scosso la testa, e ha detto che non poteva fare nulla, che dipendeva tutto dalla volontà di vivere del bambino."

Nia alzò lo sguardo, nei suoi occhi sfavillava una spavalda risoluzione.

"Per quattro anni ho lottato in ogni modo per dargli un minimo di voglia di vivere, per incoraggiarlo e proteggerlo e poi…e poi un giorno mi sono ritrovata Francesco sulla soglia e meno di due ore dopo Alexis rideva. Lui, che non aveva mai sorriso."

Insieme restarono a guardare i due bambini.

Ora Francesco sorrideva e non si mostrava più annoiato o scontento.

Mu capì che doveva essere geloso, quando gli altri distoglievano l'attenzione di Alexis da lui.

Offriva al suo amico un appoggio incondizionato, ma quando Alexis sembrava legare con qualcun altro si mostrava scontroso e annoiato.

Un piccolo prezzo da pagare per la sua continua compagnia, per il suo supporto e la sua protezione.

Dormirono all'orfanotrofio, quella notte ad Atene.

Nia non aveva voluto sentire ragioni e li aveva sistemati in una camerata momentaneamente sgombra.

"Sui due lati ci sono le stanze dei bambini," li avvertì Nia con un sorriso malizioso mentre i due deponevano i bagagli e si predisponevano al riposo.

"Non fate troppo rumore, altrimenti vi scopriranno, buonanotte!" disse, e chiuse la porta.

Mu e Milo si fissarono, sorpresi.

"Cosa ha in mente?" mormorò Mu, e Milo di rimando sfoderò il suo sorriso migliore, quello che fondeva le ginocchia e costringeva a sedersi, in cerca di un appoggio che le gambe non potevano più dare.

"E tu, cosa hai in mente? Quello che pensavi ieri?"

Ieri.

Ieri sembrava già lontanissimo.

Ieri, il tentativo fallito, l'ennesima distruttiva crisi di Milo, il risvegliarsi con le ossa rotte per non essersi mosso neanche una volta, per non svegliarlo.

Accidenti.

Il rossore che stava per comparire sul viso di Mu venne risucchiato, lasciando posto a un tetro pallore.

"Non so più cosa penso." Disse, più a sé stesso che a Milo, ma Milo lo sentì ugualmente.

Milo, che sedeva sul bordo di uno dei lettini, si stese del tutto, osservando il soffitto, dove una crepa partiva dalla giunzione con la parete e correva in moto ondivago verso lo spigolo opposto.

C'era anche una ragnatela, nello spigolo opposto, con un ragnetto innocente che si dondolava a un filo di seta.

"Vedi quel ragno?" disse ad un tratto.

Mu alzò lo sguardo, colto alla sprovvista.

Milo era sempre imprevedibile, malattia o non malattia.

La sua debolezza non intaccava quella che era una mente lucidissima.

"Sì" disse.

"Se Nia lo vedesse, potrebbero succedergli due cose. Potrebbe ucciderlo con la scopa, oppure catturarlo e liberarlo in giardino."

Mu non rispose.

Non avrebbe saputo cosa dire.

Milo si voltò a guardarlo, come per controllare che gli stesse prestando attenzione.

I suoi occhi chiari ardevano, ma non erano annebbiati dalla febbre che su tutto stende un velo confuso e soffocante.

"Io sono come quel ragno."

"Cosa?"

Milo sorrise.

"Non sono impazzito, pensaci. Mi dondolo tranquillamente sul mio filo di seta, sottilissimo e fragile, e attendo il momento in cui la forbice delle Parche lo troncherà. Che accada oggi o tra due mesi, non cambia molto, solo il modo in cui vivrò il tempo che mi rimane. Come quel ragno. Per cui, ti dico, stringiamo un patto."

"Che tipo di patto?"

Milo si mise a sedere.

"Da questo momento in poi, io e te non penseremo più né ai Saint, né ad Atena, né al Grande Tempio, né alla mia malattia. Io, dalla mia parte, mi impegno a non assillarti con i miei pensieri deprimenti e oppressivi. Li scaccerò non appena mi sorgono in mente. Lo farò finché mi sarà possibile. Voglio che questi giorni siano degni di essere ricordati."

Mu dovette distogliere lo sguardo da quello di Milo.

Nonostante il suo tono leggero e casuale, il modo in cui esponeva i termini del patto, Mu non poteva non pensare che quel patto si sarebbe sciolto soltanto quando Milo fosse morto.

Il ricordo di quei giorni sarebbe stato soltanto suo, perché Milo non avrebbe potuto più ricordare nulla.

Ora, però, era il suo turno di dire qualcosa, qualsiasi cosa.

"E da parte mia?"

Milo sospirò.

"Da parte tua, devi dimenticare la tua arte. Non devi guardarmi con l'occhio del medico. Me ne accorgo. Se io posso dimenticare, puoi, devi farlo anche tu. Per me. Devi dimenticare quanto è giovane la nostra amicizia. Credi di poterlo fare?"

Non poteva esitare ancora, se avesse ancora trattenuto la domanda che gli bruciava in gola difficilmente avrebbe potuto sostenere ancora sinceramente lo sguardo di Milo, senza sentirsi uno sporco approfittatore della buona fede altrui, della debolezza altrui.

"Milo, e Camus?"

Seppe d'aver sbagliato nel momento stesso in cui le parole ebbero lasciato le sue labbra, scottandogliele.

Milo impallidì paurosamente, e chiuse gli occhi, come provando un dolore troppo forte per essere espresso altrimenti, un dolore che sopraffaceva, rendeva inutile persino piangere e disperarsi.

Neppure mesi di malattia l'avevano reso così sofferente.

Quando parlò, la sua voce risuonò fragile, un sussurro appena percepibile.

"Cosa vuoi sapere di lui?"

"Niente. Mi sento in colpa nei suoi confronti. Era lui il tuo amico."

L'aveva detto finalmente.

Da quando il rapporto medico-paziente con Milo era diventato un rapporto d'amicizia, viveva ogni giorno nel senso di colpa nei confronti di Camus, l'unico vero amico di Milo.

Milo si stese nuovamente, ogni forza prosciugata.

"L'amicizia che c'era fra noi non potrà mai morire, sopravvivrà ad entrambi. Quando anche io sarò morto, resterà comunque nell'aria. Un legame del genere non si spezza con la morte. Lui è sempre con me, ogni giorno, ogni minuto. Con ogni respiro."

Inaspettatamente, Milo sorrise.

"Perciò non sprecare tempo ed energia a sentirti in colpa. Il patto che voglio stringere è con te. Accetti?"

Dopo un'ultima, breve, esitazione, Mu acconsentì.

Il giorno seguente, 30 luglio, ci recammo al Pireo, per imbarcarci sulla nave passeggeri diretta a Brindisi, Italia.

Dopo aver brevemente discusso tra di loro e con Nia, avevano scelto di prendere la nave, piuttosto che l'aereo.

Né Milo né Mu ne avevano mai preso uno, e, anche se si erano promessi di non parlare delle condizioni di salute di Milo, entrambi sapevano quali fossero e non potevano prevedere gli effetti che un viaggio di quel genere avrebbe avuto.

E poi, la bellezza di un viaggio per mare era di molto superiore, ai loro occhi, a quella di un brevissimo, incolore viaggio in aereo, al di sopra delle nubi, senza poter vedere nulla dello splendido mondo che li circondava.

Sulla nave Milo sembrò rinato.

Apparentemente immune al mal di mare, trascorreva le ore sul ponte, appoggiato alle balaustre, a guardare il mare, a meditare su chissà cosa.

Chissà cosa?

Mu non si ingannava: meditava sulla morte, sul fatto che quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio.

Aveva detto addio alla sua terra natia quel mattino, quando la nave – la Olympia – si era staccata dal porto e si era via via allontanata, e il porto stesso era diventato minuscolo, e le altre imbarcazioni non più di giocattoli.

Gli si avvicinò titubante, non volendo turbare in alcun modo il suo stato pensieroso e assorto, ma desiderando di poter restare ancora accanto a lui.

Ancora.

Sempre, senza alcun bisogno di stare all'erta, di calibrare parole o toni di voce.

Desiderava che Milo fosse in salute per poter essere in grado di infuriarsi con lui per uno scherzo andato oltre, che fosse in salute per poter, all'occorrenza, avere con un lui un contatto che gli non facesse temere di mandarlo in frantumi al minimo tocco, con la minima parola.

Era una sensazione che raramente Mu aveva provato per qualcuno…quella di desiderare la sua compagnia il più a lungo possibile…di sentirne la mancanza se lui non era vicino.

Dopo qualche secondo, appoggiato alla ringhiera accanto al Saint silenzioso, Mu capì che Milo l'aveva 'addomesticato', come il piccolo principe un giorno addomesticò una volpe…e fu da lei addomesticato.

Il vero significato di ciò gli fu chiaro quando Milo spostò leggermente la mano sulla ringhiera metallica e le loro dita si toccarono: un brivido, una scossa elettrica partirono dal punto di quel contatto e percorsero il suo corpo.

Alchimia.

Mirabile piccola scintilla, che per prima accese la vita milioni di anni fa.

Nessuno dei suoi pensieri trovò sbocco verso la superficie, solo uno trovò la via del suono, e lo fece parlare.

"Perché mi hai baciato, l'altra notte?"

Milo non rispose subito, continuando a fissare gli spruzzi schiumosi e la scia bianca tracciata dalla nave nei flutti.

Quando si voltò verso Mu il suo viso era sorridente, ma non nel modo sdegnoso che gli era proprio.

Un breve sorriso sincero, appena appena scherzoso.

"Un po' volevo provocarti, un po' volevo soltanto baciarti."

Mu deglutì, cercò le parole con cui ribattere, ma Milo fu più lesto.

Lo fece voltare delicatamente e lo baciò di nuovo, con lenta, determinata dolcezza.

Mu lasciò la penna sulla scrivania, lo sguardo fisso sul foglio parzialmente scritto, ma non messo a fuoco.

Non sarebbe riuscito a rileggere ciò che aveva scritto, neanche se avesse voluto, perché le lacrime gli velavano gli occhi.

Quel bacio sulla nave per Brindisi era stato l'inizio di tutto.

O forse la fine di tutto.

L'inizio della fine, la fine dell'inizio.

Qualunque cosa fosse stato, ora che non poteva avere più quei baci, cosa gli restava? Soltanto il ricordo di quel tiepido contatto sulle labbra fredde.

Quello stesso giorno arrivammo a Brindisi e restammo in zona fino al 3 agosto, senza che Milo soffrisse ulteriormente.

Quelle poche parole dicevano ben poco dell'intero mondo che avevano scoperto, delle sensazioni che avevano provato e della vita che per qualche attimo li aveva lasciati in pace…dell'assenza di preoccupazioni.

Il mese era giovane e non c'era più da temere i fantasmi del passato.

Era stato il paradiso.

A Brindisi avevano visitato la città, col lungomare sempre animato, le luci e i negozi, poi, giusto perché gli era stata descritta alquanto entusiasticamente, avevano preso il treno ed erano andati ancora più a Sud, per vedere l'espressione moderna di quell'antica Rudiae di cui era perso quasi ogni ricordo, e che aveva affondato le sue incerte radici nell'antichità greco-romana.

Era un po' casa.

Forse.

Il clima era simile a quello della Grecia: molto caldo, ma anche umido.

C'erano monumenti interessanti da visitare e Milo non si era fatto illudere dai negozi e dalla fiera che, da tempo immemore, si snodava per tutta la città.

Di lì a due settimane sarebbe stata la festa del santo protettore della città. Loro se la sarebbero persa, ma c'era già nell'aria l'anticipazione.

C'erano anche molti turisti, con il loro stesso aspetto curioso e attento al minimo dettaglio.

Gli abitanti del luogo, è risaputo, attraversano ogni giorno una piazza, una strada, un quartiere d'arte, e non notano più la finezza con cui una mano antica forgiò la pietra, il marmo o il ferro.

Notano soltanto i difetti del luogo in cui risiedono e si muovono poi alla volta di altri lidi d'arte, per magnificarne la bellezza…trascurando le proprie origini.

Quei giorni trascorsi nella città d'antica origine che si fregiava – non del tutto a torto, ma di certo non a ragione – del titolo altisonante di 'Firenze del Sud', erano stati forse i più tranquilli, i più dolci dell'intero mese.

Milo si guardava intorno con lo sguardo ingenuo del bambino che scopre che le proprie mani gli appartengono, che le piccole dita tenere si muovono per sua volontà.

Mu non sapeva se lasciarsi ingannare, o se restare vigile. Una parte di sé voleva fortemente che Milo si sentisse bene davvero; ma l'altra, spietata, voleva che, qualora egli non si fosse sentito al meglio, non lo dimostrasse.

Perché ogni suo malore gli faceva male al cuore…lo lacerava a poco a poco, stillandone ogni dolorosa goccia di sangue.

Era un triste sentimento quello che lo spingeva a pensare così, a desiderare un tocco di salutare, vitale ipocrisia.

Si era reso conto che il tempo che avrebbe potuto trascorrere con Milo in quel modo sarebbe stato poco, pochissimo. Doveva sfruttarlo al massimo, prima che il male tremendo che l'affliggeva se lo portasse via, per sempre.

Il culmine della visita a quella città ricca di storia e arte fu raggiunto da una lunga, lenta e pienamente assaporata visita al Duomo, la chiesa madre che sorgeva in un punto nevralgico della città vecchia, sede di intenso traffico turistico e di una fitta rete di stradine strette e tortuose, ancora lastricate di basalti originali, con i balconcini in ferro battuto e – qui e là – scorci degni di un quadro o di un trompe l'oeil d'autore.

Appena entrati nella chiesa, ne percepirono immediatamente l'atmosfera sottilmente mistica, estranea alle comuni, quotidiane preoccupazioni.

La luce pomeridiana che entrava lenta dalle finestre istoriate creava quell'effetto, ma forse non era solo quello.

Anche se entrambi appartenevano a una religione diversa dal Cristianesimo, e gli ideali del Santuario, con la fede dovuta ad Atena, avevano ormai sbiadito e cancellato le ultime vestigia delle loro religioni natie, era quasi impossibile non 'sentire' qualcosa, mettendo piede tra quelle mura sacre.

La navata principale si stendeva perpendicolarmente al portone, in una fuga di snelle colonne che portavano all'altare centrale, circonfuso di luce.

"Erano molti anni che non entravo in una chiesa" mormorò Milo, facendo cenno a Mu perché lo seguisse.

Si diresse verso i banchi, prendendo posto in uno degli ultimi.

Nella posa del perfetto visitatore di chiese – seduto sul banco col capo all'indietro e il naso per aria, per ammirare la fattura squisita del soffitto – con i capelli neri inondati di pigra luce solare, Milo aveva le parvenze di un angelo.

Mu smise ancora di scrivere, lasciando cadere la penna e piegando e distendendo le dita, contratte da un crampo crudele.

Uno spasmo che non attanagliava soltanto quei tendini e quei muscoli, ma affliggeva soprattutto il suo cuore.

Era difficile. Ogni parola che scriveva, per quanto si sforzasse di renderla neutra e impersonale, gli portava alla memoria le lunghe eppure brevissime giornate di quel mese trascorso nell'eterno pendolo del dolore e dell'angoscia, con impercettibili sprazzi di una felicità a lungo vagheggiata che, nel momento in cui arrivava, era quasi già sciupata, consunta.

Se avesse smesso non avrebbe più ripreso a scrivere, di questo era fin troppo certo.

Ma non osava fidarsi della sua voce, e telefonare in Grecia.

Non avrebbe sopportato la vergogna derivante dall'essersi sciolto in lacrime parlando con la giovane Atena, o con Dauko della Bilancia.

E poi, ora che aveva iniziato a scrivere, provava un certo, perverso piacere nel ripercorrere quelle vicende…era come viverle ancora e ancora, era come se Milo fosse lì, col sorriso un po' storto che gli aveva rivolto quando, nel Duomo, gli si era avvicinato e gli aveva sussurrato: "Sei bello come un angelo".

A quelle parole Milo aveva sorriso leggermente, rialzando il capo.

"Ma non sono un angelo" gli aveva mormorato di rimando.

"Non ti sembra strano, essere qui, in una chiesa. Dopo tanto tempo in Grecia, uno penserebbe che ci fossero solo templi, al mondo…" disse Mu, dopo un poco.

Le parole di Milo gli bruciavano sul viso, sulle guance diventate rosse. Sicuramente contenevano dei sottintesi che non coglieva, ma sapere della loro esistenza era già abbastanza.

Cambiare discorso era un'arma strategica, gli concedeva un po' di tempo.

"Mi sembra molto strano…" iniziò Milo, e Mu tirò un sospiro di sollievo. Forse l'aveva scampata.

Per un po'.

"…che tu possa dirmi una cosa del genere e poi nascondere la mano come il bambino che tira un sasso."

Un mormorio basso e sensuale, proprio vicino al suo orecchio.

Quasi sentiva il calore del suo respiro sulla pelle e quel solo pensiero era troppo.

Quando percepì la morbidezza delle sue labbra sulla pelle delicata del collo, poco al di sotto dell'attaccatura dei capelli, non poté trattenere un sospiro concitato…che rimase sospeso nell'aria, mentre la comprensione di quanto stessero facendo lo scandalizzava.

"Milo!" sibilò, allontanandosi a malincuore di qualche centimetro. "Siamo in una chiesa, ti rendi conto?"

Milo si strinse nelle spalle, gli occhi d'acquamarina luccicanti di malizia.

"Non c'è nessuno…"

"Ma potrebbero scoprirci e poi…è pur sempre un luogo sacro!"

Milo sbuffò piano, ma si alzò in piedi.

"Vieni"

"Dove?"

"Zitto e seguimi!" lo incalzò Milo, con l'accenno di un sorriso malizioso sul viso.

Lo condusse fino a una soglia bassa, da una mezza porta con due graziose antine e una tenda color porpora.

Sul momento Mu, che non era esperto di chiese cristiane, pensò che si trattasse di un ingresso per un altro locale della chiesa.

Ma quando fu entrato – e Milo subito dopo di lui a bloccargli la ritirata – si rese conto di trovarsi in uno spazio estremamente confinato, nel quale filtravano flebili raggi di luce, provenienti da una finestrina bucherellata.

"Ma cos'è questo posto?" chiese Mu, leggermente innervosito ma sotto sotto intrigato dalla situazione ai limiti del sacrilegio.

"E' un confessionale" mormorò la voce insinuante di Milo, mentre le sue labbra ritrovavano il percorso abbandonato in precedenza e si facevano più insistenti, più inebrianti, come un vino speziato confonde i sensi e li ubriaca, senza cognizione del poi.

Senza lo spauracchio dei simboli religiosi di cui la chiesa – come è prevedibile – era abbondantemente cosparsa, forse sottratti all'ira di Colui che era il padrone di quella casa, Mu trovò più facile perdere il controllo, piegarsi e plasmarsi – come cedevole, morbida argilla – contro il corpo di Milo, l'ideale completamento della sua forma originaria, che Zeus, padre di tutti gli dei, invidioso della loro felicità, aveva voluto spezzare per sempre, complici le fedeli saette.

Il primo contatto delle dita sapienti di Milo gli strappò un guaito dolce di cucciolo, ma ben meno innocente.

Era…troppo, era tutto troppo.

Quel confessionale di legno scuro, impregnato di incenso, con la tendina che a tratti tremolava, rischiando di svelare il misfatto; la vicinanza estrema, come se i loro corpi, le loro membra volessero tornare alla forma originaria, fondersi in un unico essere completo, non più capace di soffrire e, quindi, neanche di amare.

Le dita sinistre – in tutti i sensi – di Milo, che scandivano la sequenza dei baci, disperati, che soffocavano altri lamenti, più palesi; si avventuravano in lande sconosciute, suscitando brividi di un piacere mai completamente esplorato; si chiudevano e si aprivano, ben consapevoli di un fine ultimo che rapidamente – ma non troppo – stava per essere raggiunto e…

Luce.

Dopo il buio sciropposo, la fievole luce dell'interno della chiesa bruciava come il pieno mezzogiorno.

Una mano ignara aveva spostato la tendina con intenzioni di certo buone ma, ahimè, imprudenti.

Agli occhi annebbiati di Mu, puntellato contro la parete posteriore del cubicolo e lì intrappolato da Milo, comparve il viso serio, magro e sconcertato di un anziano sacerdote.

Mu accolse con dolore la separazione da Milo, che lottava per districare i propri arti dai suoi, e con vergogna lo sguardo inquisitore del religioso, che non si avventurò per certe chine, ma gli fece sorgere immediatamente la necessità di ricomporsi, e velocemente.

Anche se soltanto una certa cerniera non era nel suo stato più consono, si sentiva troppo esposto, sotto lo sguardo di quei piccoli occhi scuri.

Quando anche Mu emerse dal confessionale, il prete li scrutò ancora, socchiudendo gli occhi miopi.

Senza degnarli di una parola, l'anziano ministro entrò nel confessionale ormai sconsacrato – o forse no – e chiuse con un gesto violento la tendina.

Alcuni fedeli iniziavano a entrare in chiesa per la messa pomeridiana.

Era il caso di andare via.

Uscirono nel cortile ancora inondato di sole, battendo le palpebre per difendere gli occhi da tanto fulgore.

Senza dir nulla, senza neanche guardarsi, si inoltrarono nel centro storico, scegliendo le viuzze più strette e solitarie, in cui l'avanzato stato di abbandono degli edifici suggeriva l'assenza totale di inquilini – a meno di non considerar tali gli eventuali felini e canidi che potessero aver rilevato i locali.

Una parete scalfita funse da appoggio all'impeto ancora trattenuto, alla voglia non sopita.

Nessuno ne disturbò il naturale svolgimento, o ne turbò il culmine estremo.

Nessuna traccia – nessuna traccia visibile – ne testimoniò la riuscita.

Mu alzò la penna dal foglio, sconcertato.

La violenza con cui la scena del Duomo gli era tornata alla mente, completa di suoni, luce e odori, l'aveva stordito.

Non importava quanto fosse triste, addolorato, distrutto: il ricordo di quel momento avrebbe conservato la sua potenza per anni a venire…il ricordo della 'prima volta'.

Il 3 agosto, constatate le buone condizioni di salute di Milo, prendemmo l'aereo per Roma. Non sapevamo se potesse nuocergli ma pensammo che, non avendo egli avuto inconvenienti fino a quel momento, non potessero esservi eccessivi problemi. Come dimostra ciò che accadde in seguito, ci sbagliammo completamente.

UBRIS – Il Peccato Mortale – Fine Seconda Parte