Capitolo 2
Lo "Spettro"
[La mattina dopo, William Tavington cavalcava in testa ad una trentina di Dragoni. Dovevano raggiungere la fattoria dei Martin, dove avevano avuto notizia che si fossero rifugiati i feriti della scaramuccia della notte prima. Le indicazioni su dove si trovasse la piantagione erano state accurate: il Tenente Scott era già giunto sul posto, e aveva mandato un messaggero a Camden alle prime luci del mattino. William non sapeva esattamente cosa aspettarsi da quell'ispezione. Qualche volta gli era capitato di udire il nome di Benjamin Martin, ma non sapeva molto su di lui, tranne che aveva combattuto per gli Inglesi un tempo, e si era macchiato di qualche crimine nella guerra contro i Francesi. A quanto pare non sono l'unico ad avere qualche scheletruccio nell'armadio, pensò, mentre continuava a condurre la sua pattuglia verso est. Era difficile dire come si sentisse: in effetti era un po' diverso da com'era normalmente. Si sentiva insieme spossato e stanco di tutto più che mai, ma era come se qualcosa in più brillasse in lui, come una nuova determinazione. Un viso continuava a balenargli in mente, una musica gli risuonava nelle orecchie, ma lui continuava a scacciare entrambi. Era arrabbiato con se stesso, e la voglia di sfogarsi su qualcuno era viva dentro di lui, e ardeva. Non vedeva l'ora di arrivare alla piantagione, ma d'altra parte non vedeva l'ora di lasciarla e dedicarsi ad altro. Perché sentiva che era ad altro che doveva dedicarsi, in quel momento. Sperò che sarebbe stata una cosa breve, quell'affare. A poco a poco, la piantagione apparve davanti ai loro occhi. Era circondata da campi di grano, praterie, e qualche scarsa macchia di vegetazione. Tavington immaginò che il raccolto di quell'anno promettesse bene. Non che gli importasse più di tanto, ma era sempre meglio assicurarsi che quei dannati coloni continuassero a svolgere bene il loro lavoro, così, nel caso un giorno le provviste dall'Inghilterra avessero cessato di arrivare, non sarebbero morti di fame. Tavington ghignò al pensiero di prendere proprietà di tutti quei campi fruttuosi. Il ghigno si spense sulle sue labbra nonappena maggiori particolari della fattoria gli saltavano all'occhio. Il cortile era pieno di gente: schiavi, uomini a terra coperti di sangue, e soldati in giubba rossa che pattugliavano. La casa, un basso edificio di modeste dimensioni dalle pareti in legno pitturate di bianco, aveva un portico altrettanto affollato. Tavington scorse dei civili --anche dei bambini-- guardarlo con aria preoccupata da sotto la veranda. Immaginò si trattasse della famiglia Martin. Poi notò qualcosa che non gli piacque: diverse giubbe blu erano sedute a terra, mentre schiavi dalla pelle color dell'ebano portavano loro acqua e fasciature. No, così non và, pensò, mentre continuavano ad avvicinarsi. Arrivato al cortile, gli occhi di tutti i presenti erano già puntati su di lui. Volti sporchi, insanguinati, seriamente ansiosi. Tavington alzò una mano per fermare l'avanzata. Udì i cavalli arrestarsi alle sue spalle. Il Tenente Scott gli corse incontro da sotto la veranda e, giunto in prossimità del suo cavallo, fece un breve inchino. -Tenente- disse Tavington, mentre il suo fiato si condensava in una nuvoletta per il freddo di gennaio -Fate portare i nostri feriti dai chirurghi a Winnsboro- -Sissignore- rispose quello. Tavington rivolse lo sguardo agli altri soldati in rispettosa attesa e disse, a voce più alta: -Incendiate la casa e le stalle- I bambini ai lati di Benjamin Martin guardarono il padre, sconvolti. Tavington immaginò che si aspettassero che lui facesse qualcosa per impedirlo. Provaci, pensò, prima di rivolgersi a quest'ultimo: -Che si sappia, se date ricetto al nemico, perderete la vostra casa- Martin lo guardò, serio. Era un uomo di bassa statura, con lunghe braccia abbronzate, i capelli disordinatamente legati dietro il collo e due occhi azzurro chiaro. Doveva avere sui quarant'anni. Visto che non aveva niente da ribattere, Tavington decise di dire qualche parola anche agli schiavi. Ne individuò un gruppo alla sua sinistra e disse, con un'ombra di sorriso: -Per ordine permanente di Sua Maestà Re Giorgio tutti gli schiavi americani che combatteranno per la corona saranno dichiarati uomini liberi, alla nostra vittoria- Un giovane uomo di colore con un cappello di paglia disse, in tono incerto: -Signore, siamo stati liberati. Lavoriamo questa terra, ma... non siamo schiavi- Tavington voltò la testa e sospirò, irritato. Cristo, tutti a me devono capitare questi imbecilli...? -Bene, allora siete uomini liberati che avranno l'onore e il privilegio di combattere nel regio esercito, sono stato chiaro?- L'uomo deglutì e abbassò lo sguardo. Un soldato raggiunse Tavington. -Dispacci dai ribelli, signore- disse, porgendogli un foglio di carta. Tavington lanciò un'occhiata ai dispacci, quindi domandò, continuando a leggere: -Chi li ha portati?- Nessuno rispose. Tavington alzò gli occhi verso il tenente. Lui apriva e chiudeva la bocca senza parlare, gettando qualche occhiata imbarazzata verso il portico. Ora però Tavington si stava davvero arrabbiando. -CHI LI HA PORTATI??- urlò, rivolgendosi al muto cortile intorno a lui. -Io, signore- giunse una voce dalle veranda. Tavington voltò lo sguardo giusto in tempo per vedere un giovane ragazzo biondo scendere le scale verso di lui. La rabbia di Tavington non potè che aumentare vedendo il giovane indossare proprio in quel momento una giubba blu. -Ero ferito, queste persone mi hanno curato- disse, indicando i civili sotto il portico. Martin scese alcuni gradini, senza staccare gli occhi dalla scena. -Non hanno niente a che fare con i dispacci- continuò il giovane. Tavington sospirò mentre riponeva il foglio: -Portatelo a Camden, è una spia. Che sia impiccato sulla pubblica piazza- Due uomini immobilizzarono immediatamente il giovane prima che lui potesse muovere un solo muscolo. Benjamin Martin si fece avanti calorosamente: -E' una staffetta e la borsa è d'ordinanza- Tavington lo ignorò: -Distruggete il bestiame. Tenete i cavalli per i Dragoni- disse, dando una pacca affettuosa al suo destriero. -Colonnello- lo chiamò Martin. Tavington ghignò e gli rivolse uno sguardo di superiorità. -E' una staffetta e la borsa è d'ordinanza. Non potete trattenerlo come spia- Il ghigno di Tavington si allargò: -Ma non lo tratterremo. Lo impiccheremo soltanto- Martin abbassò lo sguardo e diede in un breve sospiro: -Colonnello...- -Padre- disse il ragazzo biondo, ancora tenuto fermo dai due soldati. Gli occhi di Tavington brillarono di una luce di comprensione. -Ahh, ecco. E' vostro figlio- disse, rivolgendo un ghigno al ragazzo, che ora abbassava lo sguardo, arrabbiato con se stesso per essersi tradito. -Forse avreste dovuto insegnarli un minimo di fedeltà- -Colonnello, vi imploro di voler riflettere- continuò Martin -Secondo il codice di guerra...- Quello era troppo. Che cosa diamine ne poteva sapere quel contadino, quell'imbecille, del codice di guerra??? Chi cazzo era per venire a insegnare il codice di guerra a lui, al Colonnello William Tavington???? -Il codice di guerra- disse a denti stretti, la rabbia che montava in lui. Tirò fuori la pistola, la caricò con un gesto e la puntò su Martin. -Volete una lezione, signore, sul codice di guerra?- L'uomo lo guardò senza ribattere, sottomesso. Deciso a vederlo impaurito, Tavington voltò la pistola verso i bambini radunati sotto il portico. -O devo darla ai vostri figli?- Con una certa soddisfazione, Tavington vide Benjamin correre davanti ai bambini a allargare le braccia davanti a loro, guardandolo implorante. -No signore, non è necessaria- Tavington ghignò e ripose la pistola. -Signore- lo chiamò il tenente -Cosa ne facciamo dei ribelli feriti?- Tavington non potè fare a meno di cogliere l'esitazione nella sua voce. Vide molte giubbe blu ferite alzare lo sguardo verso di lui, in attesa della risposta. -Uccideteli- ordinò Tavington freddamente. Il Tenente Scott abbassò lo sguardo; pareva sconvolto. Tavington rimase sul suo cavallo a vedere gli altri eseguire i suoi ordini. Lanciò un'occhiata a Martin per vedere come avrebbe reagito. Stava radunando i suoi figli sotto la veranda, mentre il ragazzo biondo veniva trasportato altrove da due soldati perché gli legassero le mani. Accadde in un attimo. Un ragazzo dai capelli castani, un adolescente sui quindici anni, spiccò una corsa da sotto il portico e si precipitò verso il giovane biondo. Diede una spallata alle guardie che lo trattenevano e gridò: -Vai, Gabriel, scappa!- Martin prese a correre verso di lui gridando: -NO! Thomas, FERMO!!!- Già prima di ricaricare la pistola, William sapeva che Martin non sarebbe arrivato in tempo. Sparò alla schiena del ragazzino dai capelli scuri, che cadde sulle ginocchia. Il padre lo raggiunse e lo prese tra le braccia. Il cortile assisteva alla scena, in silenzio. Lo sparo risuonava ancora sulla scena attonita. Benjamin alzò gli occhi verso Tavington. Lui lo guardò con disprezzo. -Stupido bamboccio- Martin riabbassò lo sguardo sul figlio morente. Tavington alzò un sopracciglio e disse, riponendo la pistola: -Capitano...- Cominciò a cavalcare via, e i Dragoni lo seguirono. Aggirarono la fattoria; da lontano si sentivano le torce rompere le finestre della casa, le fiamme che cominciavano ad avvolgere il legno; pianti di bambini, soffocati dagli ordini del Tenente Scott e dagli spari che stroncavano la vita dei soldati americani feriti... musica per le orecchie di William Tavington. Rivolse un ultimo sguardo sprezzante alla casa, quindi cominciò a cavalcare, seguito dalla sua pattuglia, verso le colline brulle intorno alla piantagione. ]
Quella sera, Tavington era seduto alla sua scrivania. Il pomeriggio stava morendo a ovest, e il tramonto cadeva sull'accampamento del Santee. Era un agglomerato di circa centocinquanta tende, situato tra i boschi sulla riva del fiume. Tavington aveva una tenda lì, e ci trascorreva le notti in cui non faceva in tempo a tornare a Camden. Comunque, preferiva di gran lunga tornare al forte, nel suo appartamento. Si stava più comodi. Si strofinò gli occhi all'idea di passare la notte lì anche quel giorno. Era stanchissimo. Stava scrivendo un rapporto dettagliato della giornata, soffermandosi su quanto era successo alla piantagione dei Martin. La sua vita sarebbe stata più facile se non avesse avuto quei fogli da riempire ogni santo giorno. Tanto sapeva che il generale non li avrebbe neanche degnati di uno sguardo, sarebbero stati dimenticati in un archivio a prendere la polvere. Ma doveva farlo lo stesso. Tutta quella stupida burocrazia. Intinse la penna nel calamaio e l'appoggiò sul foglio ancora una volta. Mentre la punta scricchiolava nel relativo silenzio della tenda, entrò qualcuno. William alzò lo sguardo e si ritrovò a fissare gli occhi chiari e incassati di Mark Bordon. -Maggiore?- disse Tavington, rivolgendogli un cenno del capo. Era piuttosto seccato dall'interruzione, visto che stava cercando di finire di stendere il rapporto prima che facesse buio. Bordon sospirò: -Signore, l'unità di soldati che trasportava Gabriel Martin è stata attaccata- disse, esitante. Tavington sbuffò. Ripose la penna nel calamaio e disse, alzando lo sguardo: -Cosa è successo?- -Sono incappati in un'imboscata. Dovevano essere in molti, gli assalitori, poiché le giubbe rosse incaricate sono morte tutte. E' morto anche il Tenente Scott. I Cherokee stanno portando qui i cadaveri. Ho pensato vi avrebbe interessato dargli un'occhiata- A volte Tavington avrebbe preferito che Bordon pensasse un po' meno. Sospirò rassegnato e disse: -Andiamo, allora- Uscirono dalla tenda e si incamminarono verso il fondo dell'accampamento. Qua e là, Dragoni a riposo gli rivolsero rispettosi cenni di saluto, che Tavington liquidò con un veloce cenno del capo. Lui e Bordon entrarono in una tenda rivolta verso il fiume. Era molto spaziosa, e occupata per lo più da lunghi tavoli sui quali Cherokee e giubbe rosse stavano riponendo i cadaveri reduci dall'imboscata. -Chi li ha trovati di voi?- domandò Tavington agli indiani. Bordon, che conosceva la loro lingua, tradusse per loro. Un giovane uomo dal viso rosso si fece avanti e disse qualcosa, inchinandosi a Tavington. -Signore, è stato lui- disse Bordon -Dice che non c'era traccia del prigioniero- Tavington annuì: -Continuate a interrogarlo. Voglio sapere tutto nei minimi dettagli- -Sissignore- rispose Bordon rispettosamente, prima di allontanarsi con il giovane indiano. Gli altri salutarono Tavington ed uscirono dopo di loro. Tavington mosse qualche passo tra i tavoli. Era una carneficina: i corpi erano massacrati, colpiti nei punti più impensabili da violente... dovevano essere coltellate. No, ma erano orizzontali. Colpi d'ascia. Tavington si domandò se i Cherokee non avessero per caso deciso di voltare le spalle agli alleati inglesi. Era strano che fossero stati i ribelli, loro preferivano fucili e baionette ad asce e mannaie: quindi doveva pensare a un tradimento degli indiani? Se fossero stati loro non ci avrebbero portato i cadaveri, riflettè Tavington. Giunse all'ultimo corpo e arricciò il naso. No, non erano stati i Cherokee. Tavington, sebbene non conoscesse alla perfezione le popolazioni native dell'America, sapeva che, almeno i Cherokee, avevano un gran rispetto per la vita e la natura... uccidevano solo quando si sentivano costretti, non erano carnefici. Si trovava davanti ad un corpo interamente coperto di sangue. Il volto era irriconoscibile, il petto e la schiena erano stati squartati con violenza da almeno una ventina di colpi decisi, molto forti... Tavington si domandò cosa avesse fatto di male quell'uomo per meritarsi una tale morte. L'odio che provava per i ribelli ribollì in lui più forte che mai. Avrebbero pagato, eccome... Si voltò e vide Bordon entrare di corsa nella tenda. -Signore- disse -C'è qualcosa che dovreste vedere- Tavington lo seguì fuori ancora una volta, e Bordon lo condusse in una delle tende adiacenti. [Entrò nella capanna e si trovò davanti ad una branda sulla quale era steso un uomo. Aveva il viso coperto di sangue, e il petto fasciato. -Signore, abbiamo il soldato che le guide Cherokee hanno portato qui- lo introdusse Bordon. Tavington mosse qualche passo verso il poveretto. Era ansioso di ricevere risposte e illuminazioni su quanto era accaduto, ma preferiva non fare pressioni esagerate. L'uomo sembrava ferito molto gravemente. Tavington si chiese se sapesse in che condizioni erano i suoi compagni. -Soldato?- disse, le mani dietro la schiena, cercando di attirare l'attenzione dell'uomo. Quando lui non si voltò, disse più delicatamente: -Soldato- Il ferito girò lentamente la testa ed incontrò i suoi occhi. Tavington notò che era molto giovane. -Colonnello William Tavington, Dragoni Verdi- si presentò, in risposta allo sguardo confuso del giovane -Cos'è successo? Chi è stato?- L'uomo spalancò gli occhi e cercò di tirarsi a sedere: -Ehm... - mormorò. Parlava a fatica. -E' stato un Inferno- ansimò leggermente. Cercò nuovamente di tirarsi a sedere. Tavington gli si avvicinò ulteriormente e appoggiò le mani sul lettino sul quale giaceva, invitandolo a restare disteso. -Calmati- gli disse -Calmati, soldato. Venti soldati di Sua Maestà sono morti, e io devo sapere... come- Il Maggiore Bordon, in piedi di fianco all'entrata della tenda, mosse un passo avanti e disse: -Ha detto che c'era...- -Voi c'eravate?- lo interruppe Tavington, seccato. Il Maggiore ritornò nell'ombra. -E allora lasciatelo parlare- continuò il colonnello, stizzito. Cambiò tono e si rivolse al ferito: -Fa con calma e raccontami. Quanti uomini erano? Erano volontari o erano regolari?- -Non me lo ricordo quanti fossero- l'uomo gemette e William attese che continuasse. -Forse uno- Tavington alzò le sopracciglia. Cominciava a dubitare della sanità mentale di quell'individuo. Magari aveva battuto la testa, o era ancora scioccato... in fondo stava perdendo molto sangue. Decise di nascondere il suo scetticismo e disse: -Un solo uomo?- un breve sorriso illuminò le sue labbra mentre parlava -Sul serio?- -L'avevamo di fianco- gemette l'uomo con voce tremula -Tutto intorno a noi. In mezzo a noi. Si vedeva appena, prima c'era poi svaniva...- -Bè, ma come "svaniva"?- domandò William con calma. Sorrise con condiscendenza. -Si direbbe più uno spettro che un uomo- -Sì, era uno spettro- disse il soldato accoratamente -Era proprio uno spettro- Il sorrise svanì lentamente dalle labbra di Tavington. -Ho capito- mormorò. Fissò con sguardo vacuo un punto di fronte a sé, riflettendo sul da farsi. Era una versione credibile quella che il soldato gli aveva appena raccontato? E' l'unica versione dei fatti che abbiamo, si disse. Decise di prenderla per buona. Dovevano fare qualcosa a proposito. Dovevano agire. Se tutta quella storia era vera, questo "Spettro" poteva rivelarsi piuttosto pericoloso... -Bordon, prendete una pattuglia- ordinò, voltandosi -Vediamo di catturare questo "Spettro" prima che le sue imprese si diffondano. Chi è costui?- In piedi di fianco a Bordon c'era un uomo molto alto, con ricci capelli scuri, occhi azzurro confetto ed un mento molto pronunciato. Indossava una divisa da Dragone. Tavington non lo aveva mai visto prima. -Signore, questo è il Capitano Wilkins, era con la milizia coloniale lealista... ho pensato che potrebbe esserci utile- spiegò Bordon. Tavington squadrò l'uomo con malcelato disprezzo. Non gli erano mai piaciuti i traditori, e nemmeno gli americani erano tra le sue simpatie più sfrenate. -Un altro coloniale...- commentò a mezza voce, deliberatamente. Alzò un sopracciglio e domandò, in tono formale: -Ditemi, capitano, a chi concedete il vostro lealismo?- -Al re e alla patria, signore- rispose Wilkins prontamente. Sembrava molto ansioso di essere giudicato da Tavington. Bè, William non aveva certo intenzione di dargli il benvenuto. -Perché dovrei fidarmi di un uomo che tradisce i suoi vicini?- domandò freddamente. Il Capitano Wilkins sembrò spiazzato dalla domanda. Rispose, in tono non del tutto deciso: -Questi miei vicini che si ergono contro l'Inghilterra meritano di morire da traditori- Tavington capì che stava solo recitando frasi imparate a memoria. Sarà divertente metterlo alla prova, si disse. -Vedremo- disse con un sospiro scettico, prima di uscire velocemente dalla tenda, seguito da Bordon.] Il sole era già tramontato del tutto, e lui aveva ancora molto lavoro da fare. Si diresse velocemente verso la sua capanna e radunò i fogli sulla sua scrivania. Avrebbe finito di stendere il rapporto una volta giunto a Camden; non gli andava proprio di restare lì. Dopo aver preso le sue cose, Tavington si diresse verso la stalla. Vi trovò Bordon. -Ti convince?- chiese Mark senza tanti preamboli. Era curioso come cambiasse il registro delle loro conversazioni, quando erano in servizio e quando non lo erano. Tavington montò in sella al suo cavallo e si allacciò il caschetto sotto il mento: -Affatto- -Bè, neanche a me- rispose Bordon, salendo sul suo destriero -Tutti questi lealisti continuano a venirci tra i piedi. Ma una spia è sempre utile- Tavington alzò le spalle: -Non vedo l'ora di fargli le ossa- Bordon rise: -Ce l'hai proprio con i novellini, Tav- -Ce l'ho con i coloni- lo corresse Tavington. Ghignò: -Ma anche con i novellini, sì- Salutò Bordon e iniziò a cavalcare verso i campi ormai bui.
Tavington cavalcava verso ovest. Aveva percorso circa un miglio, ma Camden ancora non si vedeva. Era molto distante dall'accampamento sul Santee. Lui si sentiva più stanco che mai. L'oscurità s'infittiva intorno a lui, e una pallida luna era apparsa nel cielo; i grilli cantavano, e i loro versi riuscivano a raggiungerlo nonostante lo scalpitio degli zoccoli del cavallo; nonostante fosse gennaio e la temperatura fosse gelida, non nevicava. C'era stata una bufera i primi di dicembre, ma poi si era placato tutto. D'altra parte, il South Carolina non era particolarmente a rischio di precipitazioni che non fossero pioggia e grandine. Gli inverni degli anni passati erano stati di gran lunga peggiori, però: dal momento che Camden era una cittadina dal suolo collinare, aveva nevicato molto abbondantemente, e a lungo, negli inverni del '78 e del '79. Nell'80 erano stati più fortunati, ebbero solo qualche bufera alla fine della stagione fredda; quell'anno, poi, si presentava relativamente tranquillo. Almeno per quanto riguardava il clima. Per la guerra un po' meno, dal momento che Spagna e Olanda si erano alleate ultimamente con gli Americani. Chi diavolo gli ha detto di mettersi in mezzo?, pensò irritato, mentre spronava il cavallo ad andare avanti. Gli Inglesi dovevano vincere quella guerra, dovevano. Lui aveva consacrato la sua vita a quell'unico scopo, non aveva intenzione di buttare all'aria vent'anni di addestramento. Ricordò in un lampo il momento in cui aveva deciso di diventare un Dragone. Ma no, preferiva non pensare al passato. Non ci pensava più. Tavington sospirò, e il suo respiro si condensò. Proprio mentre tornava con il pensiero al sopralluogo alla piantagione dei Martin quel mattino, vide un sagoma lontana. Qualcuno a cavallo. Galoppava nella direzione opposta alla sua. Può essere un ribelle, si disse, preparando la pistola. Doveva sparargli ora? No, e se poi era un inglese? Cavalcò più veloce, deciso a raggiungerlo. Dopo qualche minuto, gli giunse alle spalle. -Fermatevi- ordinò, accellerando e ponendosi davanti allo sconosciuto. Quello fermò il cavallo e abbassò il cappuccio della mantella. Tavington guardò incredulo Karen Honey ricambiare il suo sguardo, le guance arrossate dal freddo e un sorriso sulle labbra: -Uh, scusate, vi assicuro che non sono armata- gli disse, notando la pistola nella mano di Tavington. Lui la ripose, sentendosi sempre più stupido. Ma chi era lei per farlo sentire tanto imbarazzato? -Che cosa ci fate qui a cavalcare tutta sola, di notte, per giunta?- domandò Tavington, continuando a bloccarle la strada. -Sto andando in una base di coloni a riferire delle importanti informazioni. Peccato che mi abbiate scoperta- disse lei, gli occhi che brillavano di una luce canzonatrice. -C'è poco da scherzare- ribattè Tavington, gelido -E' pericoloso aggirarsi per queste contrade di notte. Siete pazza? Non sapete che c'è una guerra in corso?- La ragazza alzò gli occhi al cielo: -Ho già mio padre che mi fa questo genere di prediche. Stavo solo facendo una cavalcata prima di cena. Non credevo fosse proibito- -Dovrebbe esserlo, per voi- ribattè Tavington -Vi accompagno a casa- Karen scoppiò a ridere: -Con voi sono proprio al sicuro, non è vero? Chi mi dice che non ve ne approfitterete di me?- Tavington aggrottò le sopracciglia e un brillio malizioso attraversò i suoi occhi: -Non ve lo dice nessuno, in effetti- Karen risollevò le redini: -Bè, se avete finito di interrogarmi, immagino che potrò riprendere a cavalcare- Tavington le bloccò ancora la strada: -Insisto per accompagnarvi, miss Honey- Lei lo fissò, come se stesse valutando la sua proposta. Sospirò e disse, sorridendo: -Bè, non sembra che abbia molta scelta, colonnello...- -Infatti- rispose Tavington. Spostò il cavallo di fianco a quello di lei e ripresero a cavalcare insieme, ma lentamente, in modo da poter fare conversazione. Tavington si sentiva più sicuro ora che la stava accompagnando. Non che fosse una cosa a che fare con sentimenti e roba del genere: era solo il suo dovere di colonnello, aiutare le persone in pericolo... sì, stava facendo il suo dovere. Stava lavorando. -Dove abitate?- le chiese Tavington dopo qualche minuto. -Avete presente la Black Swamp? Qualche miglio più a nord- rispose lei. Lui non potè fare a meno di notare il suoi capelli incorniciarle il viso, svolazzare nella brezza... le sue guance arrossate dal gelo, i suoi occhi più brillanti che mai... -E' piuttosto lontano da qui- osservò distrattamente, continuando a lanciarle fugaci occhiate -Cavalcavate da molto, quindi- Lei annuì: -Adoro questi luoghi. Un ottimo diversivo al caos di Londra- -Londra?- -Già, vivevo laggiù fino a... nove, dieci anni fa. Ancora non mi sono abituata a questi meravigliosi paesaggi... La Carolina del Sud è stupenda- -Come mai vi siete trasferita nelle colonie?- volle sapere Tavington. Lei sorrise: -Avete intenzione di scrivere la mia biografia, colonnello?- Tavington rise. Era molto che non gli capitava di farlo. -Comunque...- proseguì Karen -Ci trasferimmo qui perché mia madre morì e mio padre non voleva più rivedere l'Inghilterra... credo gli ricordi troppo lei- Tavington distolse lo sguardo. Per qualche secondo nessuno dei due aprì bocca. Poi Karen sospirò e gli chiese: -E voi? Dove stavate andando quando mi avete sorpresa?- -Tornavo al forte- rispose Tavington asciutto -Si trova nei dintorni di Camden- -Dovrebbe essere lontano...- disse lei. -Già- rispose Tavington. -Cosa avete fatto oggi?- domandò Karen. Tavington sospirò. Aveva ucciso un ragazzo quindicenne, almeno una dozzina di soldati feriti, aveva dato fuoco ad una piantagione, costretto degli schiavi liberati a combattere per la Corona... -Ho lavorato- rispose -Come sempre- -Dev'essere un'occupazione molto impegnativa, la vostra- ribattè lei -Cosa vi ha spinto a diventare un Dragone?- Tavington sorrise e la guardò negli occhi: -Ora la biografia su di me la volete scrivere voi- Karen rise. La galoppata proseguì senza grandi avvenimenti e nel giro di mezz'ora Villa Honey apparve davanti ai loro occhi. Era una costruzione in pietra bianca verniciata e levigata, a due piani, con colonnine in marmo rosa e oro che fiancheggiavano ogni finestra. Il giardino si stendeva rigoglioso e colorato davanti all'entrata: bassi labirinti di cespugli, fontanelle che zampillavano allegramente, fiori di ogni genere. Un sentierino di ghiaia conduceva verso la villa, le cui molte, altezzose finestre, brillavano di una luce aranciata che allungava ombre calde sul cortile esterno. Tavington immaginò che il Barone Honey dovesse essere molto ricco. Giunsero nel giardino e si voltarono l'uno verso l'altra. Tavington scese da cavallo e le porse una mano per aiutarla a fare lo stesso. Lei accettò l'aiuto con un sorriso e si trovò in piedi, davanti a lui. -Bè, grazie della vostra protezione, colonnello- sussurrò, a voce molto bassa. Tavington non riusciva a staccare gli occhi da quelli magnetici di lei. -E' stato un piacere, miss Honey- rispose, un vago ghigno sulle labbra. -Volete venire a cena da noi?- lo invitò la ragazza -Temo che avere ospiti in casa sia l'unica cosa che mi potrà salvare dalla bella ramanzina che mi farà mio padre- Tavington valutò l'offerta. Ricordò il resoconto che doveva ancora terminare e scosse la testa: -Ho del lavoro che mi aspetta, al forte- Karen inclinò la testa da un lato: -Sarà per un'altra volta, allora. Ci vediamo- -Sì- rispose Tavington -Ci vediamo, miss Honey- Lei gli fece un ultimo sorriso e si incamminò verso casa. Quando fu entrata, Tavington rimase a fissare la porta chiusa per un tempo interminabile, prima che riuscisse a ricordarsi del lavoro che aveva da fare e rimontasse a cavallo, rimproverandosi ogni volta che il suo pensiero volava, inesorabile, a Karen Honey.
Erano quasi le dieci di sera quando Tavington varcò finalmente i cancelli di Camden. Diverse sentinelle erano posizionate strategicamente, e Tavington notò che erano molto all'erta. Immaginò che ciò fosse dovuto al fatto che ultimamente, con l'attacco al carro che portava prigioniero Gabriel Martin, i ribelli fossero diventati particolarmente attivi, e gli inglesi si dovessero organizzare per tenere sotto controllo la situazione e proteggere il più possibile i forti e gli accampamenti più a rischio, come Camden e Fort Carolina. Tavington consegnò il suo cavallo a Gram, lo schiavo addetto alla stalla, e si affrettò a salire i gradini di pietra che precedevano l'entrata del palazzo. L'ingresso era immerso nella penombra: solo qualche candelabro era appeso ai muri e lunghe ombre inquietanti si allungavano sulle pareti. Una luce più forte proveniva da un grande portone spalancato alla sua sinistra: lì c'era il salotto, ed un intenso rumore di chiacchiere e risa gli disse che i Dragoni si erano attardati a bere e a giocare a carte davanti al camino. Il suo primo pensiero fu quello di raggiungerli, ma il suo senso del dovere lo trattenne. Alla fine decise di andare nel suo appartamento a finire quella dannata relazione, così salì l'imponente ma spoglia scalinata che si apriva al centro dell'atrio. Giunto al corridoio del primo piano, lo percorse e si ritirò nella sua stanza. Dopo aver chiuso la porta dietro di sé, vide che qualcuno stava occupando il suo letto. -Katie!- sospirò, vedendo due occhi neri brillare nella scarsa luce fornita dalle candele. -Esatto, tesoro- disse quella, stendendosi sul letto ma continuando a guardarlo -Perché non vieni qui con me? Ti ho aspettato apposta- Tavington accese il candelabro per avere maggiore illuminazione e la guardò, esasperato. -Come diavolo hai fatto ad entrare?- le chiese, appoggiando il caschetto da cavalcata sul mobile della toletta. -Avevi lasciato la porta aperta...- disse lei vagamente -Ora vieni qui, non costringermi a trascinarti- Lui si tolse gli stivali: -Sono stanco, Katie. Stanchissimo... ho avuto una giornata pesante- -Anche la mia giornata è stata pesante- trillò lei. Abbassò la voce in un tono sensuale: -Non ho mai smesso di pensare a te e al tuo...- -Katie- ripetè lui in tono fermo -Vattene. Non fartelo ripetere o potrei arrabbiarmi- Lei scese dal letto, profondamente delusa, e si avviò di malavoglia verso la porta. Si voltò verso di lui e lo guardò fisso negli occhi. Gli si avvicinò e prese a slacciargli la giacca. Sfilò il primo bottone. -Nessun ripensamento?- gli sussurrò. Tavington la maledì, perché lo stava facendo eccitare alla pazzia. Aveva del lavoro arretrato, e la mattina dopo avrebbe avuto una battaglia... non poteva permettersi di andare con lei... e poi forse non aveva neanche abbastanza soldi. La allontanò da sé piuttosto bruscamente: -Vattene- Lei sbuffò, aprì la porta e sgusciò via veloce. Tavington immaginò che sperasse di abbordare qualche altro Dragone prima dell'alba. Alzò le sopracciglia, cercando di calmarsi. Chiuse la porta e si mise al lavoro. La relazione stava venendo pessima, ma non gli importava. In fondo era solo un resoconto, e lui voleva andare a dormire. Avrebbe dovuto pensare a come organizzarsi per la battaglia del giorno dopo. Era mezzanotte quando fece finalmente la sua firma alla fine del rapporto, piegò con cura il foglio e lo ripose in un cassetto della scrivania. Assicuratosi che la porta fosse ben chiusa, si tolse la giacca, la camicia e i pantaloni, si sciolse i capelli e si infilò nel letto, dopo aver spento tutte le luci. La stanza era immersa nella penombra. Dal piano di sotto giungeva un consistente brusio di voci e urla ubriache. Avrebbe tanto voluto che quegli idioti filassero a dormire, ma non aveva voglia di scendere a ordinarlo. Sapeva che gli avrebbero obbedito ciecamente, ma d'altra parte non voleva disturbarli. I suoi uomini avevano bisogno di rilassarsi almeno quanto lui.
Si stese a pancia in giù e si tirò le lenzuola sulla schiena nuda. Rivolse un'occhiata alla finestra, dalla quale erano visibili le grandi distese di pianure, boschi e colline che si perdevano a vista d'occhio aldilà dei confini del forte. Il suo sguardo salì al cielo notturno. Era blu velluto, con una meravigliosa mezzaluna che brillava lassù, piena di candore. La sua luce proiettava ombre argentate sul pavimento di pessimo legno della camera. Tavington chiuse gli occhi mentre si girava sull'altro fianco. Anche se aveva gli occhi chiusi, un viso gli balenò immediatamente davanti. Karen Honey. La vedeva solo con le pupille della mente, se apriva gli occhi era sparita. Perché lo tormentava così? Ricordò la sua voce melodiosa, le sue occhiate ammiccanti e infinitamente graziose, quegli occhi così da bambina, quei modi educati ma sensuali... Si stese sulla schiena e si mise un braccio dietro alla testa. Ora la vedeva anche se teneva gli occhi aperti. Era china su di lui, nuda, lo stava baciando appassionatamente... Tavington voltò la testa bruscamente. No, non stava pensando di nuovo a lei. Karen Honey gli era rimasta dentro tutto il giorno. Non riusciva a liberarsi di lei. Se non l'avessi incontrata oggi probabilmente ora me la sarei già dimenticata... Non ne era così convinto. Perché anche quando era alla piantagione dei Martin, un martello aveva continuato a battergli nella testa... era lei. Ancora lei, ancora una volta. Gli sembrava impossibile di averla conosciuta solo la sera prima, a quel ballo. Era come se lei fosse sempre stata lì, nei suoi pensieri. E ancora la vedeva, la sognava ad occhi aperti, sognava le sue dita sottili e curate slacciarsi il vestito di fronte a lui... sognava le sue morbide labbra accarezzare le sue ancora una volta... William Tavington ghignò. In fondo non doveva spaventarsi, o chiedersi perché la pensasse tanto. Era solo una bella, giovane donna, tutto qui. E lui aveva una gran voglia di portarsela a letto. William era sicuro che lei non potesse neppure lontanamente immaginare quanto sarebbe stato felice il benedetto giorno in cui sarebbe riuscito a farla sua... E non c'era altro, comunque. Solo voglia di sesso, voglia di lei. Finiva tutto lì, e non ci sarebbe stato altro. Non sarebbe venuto altro, oltre a quello. Rassicurato, chiuse gli occhi e concesse alla sua mente di continuare quella fantasia... Dopo pochi minuti, il sonno cadde su di lui.
Karen Honey guardava la luna fuori dalla finestra aperta. Il suo riflesso bianco ondeggiava sulla superficie del piccolo stagno nella parte posteriore del giardino. Karen si sporse sul davanzale e chiuse gli occhi mentre una brezza leggera e frizzante le scorreva sul viso. Sorrise, respirando a fondo l'aria pulita. C'era qualcosa di diverso nell'aria, lo sentiva... o forse c'era qualcosa di diverso in colei che la respirava. Karen chiuse la finestra e rivolse lo sguardo alla sua camera. Il suo letto, il suo scrittoio e il suo armadio erano immersi in quello che suo padre definiva "un insopportabile disordine": vestiti e libri giacevano sparsi ovunque, tanto che le cameriere avevano rinunciato a metterli a posto. Karen rise di fronte alla camera vuota. Adorava il suo disordine, la faceva sentire viva. Che stanza era una stanza in perfette condizioni? Quella di una locanda, poteva essere così. Una stanza dove la gente và, vi lascia le proprie cose per un paio di notti e poi le toglie di nuovo. E la camera torna immacolata e impersonale, come se non ci fosse stato mai nessuno. Ma lì, nella stanza di Karen, c'era qualcuno. E lei voleva che fosse chiaro. Si buttò sul letto e lasciò come unica illuminazione la debole candela fiammeggiante sul comodino. Si voltò verso di essa, seguendo il moto ondulante e tremolante della fiamma. Le invocava tanti pensieri... Sentiva che c'era una fiamma che ardeva in lei, quella notte. La poteva sentire battere costantemente e incessantemente nel suo petto... perché le avvolgeva il cuore. Si infilò sotto le coperte e se le tirò fino al mento. Adorava quel letto, quella sensazione così confortevole, quel calore rassicurante... Pensò che tra qualche tempo avrebbe dovuto abbandonare casa sua per sempre. Sarebbe dovuta andare a vivere con O'Hara, probabilmente in una villa immensa e ordinata, senza niente fuori posto... Con un uomo al suo fianco, per di più. Chissà come dormiva il Generale O'Hara. Sperò che non russasse. Per un attimo se lo immaginò con la papalina da notte e scoppiò a ridere. No, era troppo irreale... ma probabilmente un giorno non troppo lontano l'avrebbe visto proprio così. Il sorriso morì lentamente sulle sue labbra. Uffa, doveva proprio sposarlo? Suo padre lo desiderava così tanto... voleva il meglio per lei... Ma era davvero il generale il meglio che le potesse capitare? Karen non lo sapeva, così decise di non pensarci. Il suo pensiero volò ad un certo colonnello che l'aveva accompagnata a casa quella sera. Un sorrisino malizioso apparve nuovamente sulle sue labbra. Era molto bello... lui di certo non russava, a letto. E non dormiva neppure con la papalina. Rise ancora, talmente forte che dovette affondare la testa nel cuscino. Si accorse di avere le guance bollenti. Era diventata rossa. Guardò il soffitto, e le sembrò di rivivere per filo e per segno i due incontri con lui... Quando aveva alzato lo sguardo e se l'era trovato lì, con gli occhi chiusi, un bicchiere di vino in mano... Sembrava totalmente immerso nella musica. Karen non aveva mai visto una tale dedizione. Cioè, a dirla tutta l'aveva vista solo in una persona: lei. Suo padre si limitava a dirle di "smettere di strimpellare continuamente". Priska la trattava con ammirazione, ed era ansiosa di imparare a suonare come lei. Karen sapeva che un giorno quella ragazza sarebbe diventata molto più brava della sua sorella maggiore e la cosa la fece sorridere. Ma non aveva mai visto un coinvolgimento così totale come quello del colonnello. Quando l'aveva visto, si era sentita strana. Come se lei si trovasse sul fondo dell'oceano, un oceano di musica, note, accordi... un luogo dove nessuno riusciva a raggiungerla... quando all'improvviso si era tuffato anche lui, e si erano trovati insieme. Uniti da quella melodia. Era piuttosto strano come uomo, però, il Colonnello Tavington. Così sicuro di sé... sembrava convinto che lei sarebbe caduta ai suoi piedi. Com'è che le aveva detto?
"L'ho fatto con donne che conoscevo molto meno. Donne alle quali bastava che rivolgessi uno sguardo"
Sembrava davvero offeso. Karen non lo riusciva a capire, ma del resto, lei aveva avuto ben pochi contatti con uomini che non fossero stati suo padre o quelli che suo padre le faceva conoscere, quindi era difficile catalogare il Colonnello Tavington. Per ora l'unica parola che stava a pennello su quell'uomo era "buffo". Karen non aveva mai incontrato una persona più divertente. Lui era così convinto di essere il padrone del mondo... così evidentemente scontroso con il Generale O'Hara... Karen riflettè che non doveva avere dei buoni rapporti neppure con l'altro generale, quel... quel... Wally, Willis, o come cavolo si chiamava. Si lanciavano occhiate di fuoco, ma le scintille volavano soprattutto tra lui e O'Hara. Sicuro, tra i due lei certo preferiva Tavington... Perché? Bè, la risposta era semplice... Di certo non portava la papalina.
Lo "Spettro"
[La mattina dopo, William Tavington cavalcava in testa ad una trentina di Dragoni. Dovevano raggiungere la fattoria dei Martin, dove avevano avuto notizia che si fossero rifugiati i feriti della scaramuccia della notte prima. Le indicazioni su dove si trovasse la piantagione erano state accurate: il Tenente Scott era già giunto sul posto, e aveva mandato un messaggero a Camden alle prime luci del mattino. William non sapeva esattamente cosa aspettarsi da quell'ispezione. Qualche volta gli era capitato di udire il nome di Benjamin Martin, ma non sapeva molto su di lui, tranne che aveva combattuto per gli Inglesi un tempo, e si era macchiato di qualche crimine nella guerra contro i Francesi. A quanto pare non sono l'unico ad avere qualche scheletruccio nell'armadio, pensò, mentre continuava a condurre la sua pattuglia verso est. Era difficile dire come si sentisse: in effetti era un po' diverso da com'era normalmente. Si sentiva insieme spossato e stanco di tutto più che mai, ma era come se qualcosa in più brillasse in lui, come una nuova determinazione. Un viso continuava a balenargli in mente, una musica gli risuonava nelle orecchie, ma lui continuava a scacciare entrambi. Era arrabbiato con se stesso, e la voglia di sfogarsi su qualcuno era viva dentro di lui, e ardeva. Non vedeva l'ora di arrivare alla piantagione, ma d'altra parte non vedeva l'ora di lasciarla e dedicarsi ad altro. Perché sentiva che era ad altro che doveva dedicarsi, in quel momento. Sperò che sarebbe stata una cosa breve, quell'affare. A poco a poco, la piantagione apparve davanti ai loro occhi. Era circondata da campi di grano, praterie, e qualche scarsa macchia di vegetazione. Tavington immaginò che il raccolto di quell'anno promettesse bene. Non che gli importasse più di tanto, ma era sempre meglio assicurarsi che quei dannati coloni continuassero a svolgere bene il loro lavoro, così, nel caso un giorno le provviste dall'Inghilterra avessero cessato di arrivare, non sarebbero morti di fame. Tavington ghignò al pensiero di prendere proprietà di tutti quei campi fruttuosi. Il ghigno si spense sulle sue labbra nonappena maggiori particolari della fattoria gli saltavano all'occhio. Il cortile era pieno di gente: schiavi, uomini a terra coperti di sangue, e soldati in giubba rossa che pattugliavano. La casa, un basso edificio di modeste dimensioni dalle pareti in legno pitturate di bianco, aveva un portico altrettanto affollato. Tavington scorse dei civili --anche dei bambini-- guardarlo con aria preoccupata da sotto la veranda. Immaginò si trattasse della famiglia Martin. Poi notò qualcosa che non gli piacque: diverse giubbe blu erano sedute a terra, mentre schiavi dalla pelle color dell'ebano portavano loro acqua e fasciature. No, così non và, pensò, mentre continuavano ad avvicinarsi. Arrivato al cortile, gli occhi di tutti i presenti erano già puntati su di lui. Volti sporchi, insanguinati, seriamente ansiosi. Tavington alzò una mano per fermare l'avanzata. Udì i cavalli arrestarsi alle sue spalle. Il Tenente Scott gli corse incontro da sotto la veranda e, giunto in prossimità del suo cavallo, fece un breve inchino. -Tenente- disse Tavington, mentre il suo fiato si condensava in una nuvoletta per il freddo di gennaio -Fate portare i nostri feriti dai chirurghi a Winnsboro- -Sissignore- rispose quello. Tavington rivolse lo sguardo agli altri soldati in rispettosa attesa e disse, a voce più alta: -Incendiate la casa e le stalle- I bambini ai lati di Benjamin Martin guardarono il padre, sconvolti. Tavington immaginò che si aspettassero che lui facesse qualcosa per impedirlo. Provaci, pensò, prima di rivolgersi a quest'ultimo: -Che si sappia, se date ricetto al nemico, perderete la vostra casa- Martin lo guardò, serio. Era un uomo di bassa statura, con lunghe braccia abbronzate, i capelli disordinatamente legati dietro il collo e due occhi azzurro chiaro. Doveva avere sui quarant'anni. Visto che non aveva niente da ribattere, Tavington decise di dire qualche parola anche agli schiavi. Ne individuò un gruppo alla sua sinistra e disse, con un'ombra di sorriso: -Per ordine permanente di Sua Maestà Re Giorgio tutti gli schiavi americani che combatteranno per la corona saranno dichiarati uomini liberi, alla nostra vittoria- Un giovane uomo di colore con un cappello di paglia disse, in tono incerto: -Signore, siamo stati liberati. Lavoriamo questa terra, ma... non siamo schiavi- Tavington voltò la testa e sospirò, irritato. Cristo, tutti a me devono capitare questi imbecilli...? -Bene, allora siete uomini liberati che avranno l'onore e il privilegio di combattere nel regio esercito, sono stato chiaro?- L'uomo deglutì e abbassò lo sguardo. Un soldato raggiunse Tavington. -Dispacci dai ribelli, signore- disse, porgendogli un foglio di carta. Tavington lanciò un'occhiata ai dispacci, quindi domandò, continuando a leggere: -Chi li ha portati?- Nessuno rispose. Tavington alzò gli occhi verso il tenente. Lui apriva e chiudeva la bocca senza parlare, gettando qualche occhiata imbarazzata verso il portico. Ora però Tavington si stava davvero arrabbiando. -CHI LI HA PORTATI??- urlò, rivolgendosi al muto cortile intorno a lui. -Io, signore- giunse una voce dalle veranda. Tavington voltò lo sguardo giusto in tempo per vedere un giovane ragazzo biondo scendere le scale verso di lui. La rabbia di Tavington non potè che aumentare vedendo il giovane indossare proprio in quel momento una giubba blu. -Ero ferito, queste persone mi hanno curato- disse, indicando i civili sotto il portico. Martin scese alcuni gradini, senza staccare gli occhi dalla scena. -Non hanno niente a che fare con i dispacci- continuò il giovane. Tavington sospirò mentre riponeva il foglio: -Portatelo a Camden, è una spia. Che sia impiccato sulla pubblica piazza- Due uomini immobilizzarono immediatamente il giovane prima che lui potesse muovere un solo muscolo. Benjamin Martin si fece avanti calorosamente: -E' una staffetta e la borsa è d'ordinanza- Tavington lo ignorò: -Distruggete il bestiame. Tenete i cavalli per i Dragoni- disse, dando una pacca affettuosa al suo destriero. -Colonnello- lo chiamò Martin. Tavington ghignò e gli rivolse uno sguardo di superiorità. -E' una staffetta e la borsa è d'ordinanza. Non potete trattenerlo come spia- Il ghigno di Tavington si allargò: -Ma non lo tratterremo. Lo impiccheremo soltanto- Martin abbassò lo sguardo e diede in un breve sospiro: -Colonnello...- -Padre- disse il ragazzo biondo, ancora tenuto fermo dai due soldati. Gli occhi di Tavington brillarono di una luce di comprensione. -Ahh, ecco. E' vostro figlio- disse, rivolgendo un ghigno al ragazzo, che ora abbassava lo sguardo, arrabbiato con se stesso per essersi tradito. -Forse avreste dovuto insegnarli un minimo di fedeltà- -Colonnello, vi imploro di voler riflettere- continuò Martin -Secondo il codice di guerra...- Quello era troppo. Che cosa diamine ne poteva sapere quel contadino, quell'imbecille, del codice di guerra??? Chi cazzo era per venire a insegnare il codice di guerra a lui, al Colonnello William Tavington???? -Il codice di guerra- disse a denti stretti, la rabbia che montava in lui. Tirò fuori la pistola, la caricò con un gesto e la puntò su Martin. -Volete una lezione, signore, sul codice di guerra?- L'uomo lo guardò senza ribattere, sottomesso. Deciso a vederlo impaurito, Tavington voltò la pistola verso i bambini radunati sotto il portico. -O devo darla ai vostri figli?- Con una certa soddisfazione, Tavington vide Benjamin correre davanti ai bambini a allargare le braccia davanti a loro, guardandolo implorante. -No signore, non è necessaria- Tavington ghignò e ripose la pistola. -Signore- lo chiamò il tenente -Cosa ne facciamo dei ribelli feriti?- Tavington non potè fare a meno di cogliere l'esitazione nella sua voce. Vide molte giubbe blu ferite alzare lo sguardo verso di lui, in attesa della risposta. -Uccideteli- ordinò Tavington freddamente. Il Tenente Scott abbassò lo sguardo; pareva sconvolto. Tavington rimase sul suo cavallo a vedere gli altri eseguire i suoi ordini. Lanciò un'occhiata a Martin per vedere come avrebbe reagito. Stava radunando i suoi figli sotto la veranda, mentre il ragazzo biondo veniva trasportato altrove da due soldati perché gli legassero le mani. Accadde in un attimo. Un ragazzo dai capelli castani, un adolescente sui quindici anni, spiccò una corsa da sotto il portico e si precipitò verso il giovane biondo. Diede una spallata alle guardie che lo trattenevano e gridò: -Vai, Gabriel, scappa!- Martin prese a correre verso di lui gridando: -NO! Thomas, FERMO!!!- Già prima di ricaricare la pistola, William sapeva che Martin non sarebbe arrivato in tempo. Sparò alla schiena del ragazzino dai capelli scuri, che cadde sulle ginocchia. Il padre lo raggiunse e lo prese tra le braccia. Il cortile assisteva alla scena, in silenzio. Lo sparo risuonava ancora sulla scena attonita. Benjamin alzò gli occhi verso Tavington. Lui lo guardò con disprezzo. -Stupido bamboccio- Martin riabbassò lo sguardo sul figlio morente. Tavington alzò un sopracciglio e disse, riponendo la pistola: -Capitano...- Cominciò a cavalcare via, e i Dragoni lo seguirono. Aggirarono la fattoria; da lontano si sentivano le torce rompere le finestre della casa, le fiamme che cominciavano ad avvolgere il legno; pianti di bambini, soffocati dagli ordini del Tenente Scott e dagli spari che stroncavano la vita dei soldati americani feriti... musica per le orecchie di William Tavington. Rivolse un ultimo sguardo sprezzante alla casa, quindi cominciò a cavalcare, seguito dalla sua pattuglia, verso le colline brulle intorno alla piantagione. ]
Quella sera, Tavington era seduto alla sua scrivania. Il pomeriggio stava morendo a ovest, e il tramonto cadeva sull'accampamento del Santee. Era un agglomerato di circa centocinquanta tende, situato tra i boschi sulla riva del fiume. Tavington aveva una tenda lì, e ci trascorreva le notti in cui non faceva in tempo a tornare a Camden. Comunque, preferiva di gran lunga tornare al forte, nel suo appartamento. Si stava più comodi. Si strofinò gli occhi all'idea di passare la notte lì anche quel giorno. Era stanchissimo. Stava scrivendo un rapporto dettagliato della giornata, soffermandosi su quanto era successo alla piantagione dei Martin. La sua vita sarebbe stata più facile se non avesse avuto quei fogli da riempire ogni santo giorno. Tanto sapeva che il generale non li avrebbe neanche degnati di uno sguardo, sarebbero stati dimenticati in un archivio a prendere la polvere. Ma doveva farlo lo stesso. Tutta quella stupida burocrazia. Intinse la penna nel calamaio e l'appoggiò sul foglio ancora una volta. Mentre la punta scricchiolava nel relativo silenzio della tenda, entrò qualcuno. William alzò lo sguardo e si ritrovò a fissare gli occhi chiari e incassati di Mark Bordon. -Maggiore?- disse Tavington, rivolgendogli un cenno del capo. Era piuttosto seccato dall'interruzione, visto che stava cercando di finire di stendere il rapporto prima che facesse buio. Bordon sospirò: -Signore, l'unità di soldati che trasportava Gabriel Martin è stata attaccata- disse, esitante. Tavington sbuffò. Ripose la penna nel calamaio e disse, alzando lo sguardo: -Cosa è successo?- -Sono incappati in un'imboscata. Dovevano essere in molti, gli assalitori, poiché le giubbe rosse incaricate sono morte tutte. E' morto anche il Tenente Scott. I Cherokee stanno portando qui i cadaveri. Ho pensato vi avrebbe interessato dargli un'occhiata- A volte Tavington avrebbe preferito che Bordon pensasse un po' meno. Sospirò rassegnato e disse: -Andiamo, allora- Uscirono dalla tenda e si incamminarono verso il fondo dell'accampamento. Qua e là, Dragoni a riposo gli rivolsero rispettosi cenni di saluto, che Tavington liquidò con un veloce cenno del capo. Lui e Bordon entrarono in una tenda rivolta verso il fiume. Era molto spaziosa, e occupata per lo più da lunghi tavoli sui quali Cherokee e giubbe rosse stavano riponendo i cadaveri reduci dall'imboscata. -Chi li ha trovati di voi?- domandò Tavington agli indiani. Bordon, che conosceva la loro lingua, tradusse per loro. Un giovane uomo dal viso rosso si fece avanti e disse qualcosa, inchinandosi a Tavington. -Signore, è stato lui- disse Bordon -Dice che non c'era traccia del prigioniero- Tavington annuì: -Continuate a interrogarlo. Voglio sapere tutto nei minimi dettagli- -Sissignore- rispose Bordon rispettosamente, prima di allontanarsi con il giovane indiano. Gli altri salutarono Tavington ed uscirono dopo di loro. Tavington mosse qualche passo tra i tavoli. Era una carneficina: i corpi erano massacrati, colpiti nei punti più impensabili da violente... dovevano essere coltellate. No, ma erano orizzontali. Colpi d'ascia. Tavington si domandò se i Cherokee non avessero per caso deciso di voltare le spalle agli alleati inglesi. Era strano che fossero stati i ribelli, loro preferivano fucili e baionette ad asce e mannaie: quindi doveva pensare a un tradimento degli indiani? Se fossero stati loro non ci avrebbero portato i cadaveri, riflettè Tavington. Giunse all'ultimo corpo e arricciò il naso. No, non erano stati i Cherokee. Tavington, sebbene non conoscesse alla perfezione le popolazioni native dell'America, sapeva che, almeno i Cherokee, avevano un gran rispetto per la vita e la natura... uccidevano solo quando si sentivano costretti, non erano carnefici. Si trovava davanti ad un corpo interamente coperto di sangue. Il volto era irriconoscibile, il petto e la schiena erano stati squartati con violenza da almeno una ventina di colpi decisi, molto forti... Tavington si domandò cosa avesse fatto di male quell'uomo per meritarsi una tale morte. L'odio che provava per i ribelli ribollì in lui più forte che mai. Avrebbero pagato, eccome... Si voltò e vide Bordon entrare di corsa nella tenda. -Signore- disse -C'è qualcosa che dovreste vedere- Tavington lo seguì fuori ancora una volta, e Bordon lo condusse in una delle tende adiacenti. [Entrò nella capanna e si trovò davanti ad una branda sulla quale era steso un uomo. Aveva il viso coperto di sangue, e il petto fasciato. -Signore, abbiamo il soldato che le guide Cherokee hanno portato qui- lo introdusse Bordon. Tavington mosse qualche passo verso il poveretto. Era ansioso di ricevere risposte e illuminazioni su quanto era accaduto, ma preferiva non fare pressioni esagerate. L'uomo sembrava ferito molto gravemente. Tavington si chiese se sapesse in che condizioni erano i suoi compagni. -Soldato?- disse, le mani dietro la schiena, cercando di attirare l'attenzione dell'uomo. Quando lui non si voltò, disse più delicatamente: -Soldato- Il ferito girò lentamente la testa ed incontrò i suoi occhi. Tavington notò che era molto giovane. -Colonnello William Tavington, Dragoni Verdi- si presentò, in risposta allo sguardo confuso del giovane -Cos'è successo? Chi è stato?- L'uomo spalancò gli occhi e cercò di tirarsi a sedere: -Ehm... - mormorò. Parlava a fatica. -E' stato un Inferno- ansimò leggermente. Cercò nuovamente di tirarsi a sedere. Tavington gli si avvicinò ulteriormente e appoggiò le mani sul lettino sul quale giaceva, invitandolo a restare disteso. -Calmati- gli disse -Calmati, soldato. Venti soldati di Sua Maestà sono morti, e io devo sapere... come- Il Maggiore Bordon, in piedi di fianco all'entrata della tenda, mosse un passo avanti e disse: -Ha detto che c'era...- -Voi c'eravate?- lo interruppe Tavington, seccato. Il Maggiore ritornò nell'ombra. -E allora lasciatelo parlare- continuò il colonnello, stizzito. Cambiò tono e si rivolse al ferito: -Fa con calma e raccontami. Quanti uomini erano? Erano volontari o erano regolari?- -Non me lo ricordo quanti fossero- l'uomo gemette e William attese che continuasse. -Forse uno- Tavington alzò le sopracciglia. Cominciava a dubitare della sanità mentale di quell'individuo. Magari aveva battuto la testa, o era ancora scioccato... in fondo stava perdendo molto sangue. Decise di nascondere il suo scetticismo e disse: -Un solo uomo?- un breve sorriso illuminò le sue labbra mentre parlava -Sul serio?- -L'avevamo di fianco- gemette l'uomo con voce tremula -Tutto intorno a noi. In mezzo a noi. Si vedeva appena, prima c'era poi svaniva...- -Bè, ma come "svaniva"?- domandò William con calma. Sorrise con condiscendenza. -Si direbbe più uno spettro che un uomo- -Sì, era uno spettro- disse il soldato accoratamente -Era proprio uno spettro- Il sorrise svanì lentamente dalle labbra di Tavington. -Ho capito- mormorò. Fissò con sguardo vacuo un punto di fronte a sé, riflettendo sul da farsi. Era una versione credibile quella che il soldato gli aveva appena raccontato? E' l'unica versione dei fatti che abbiamo, si disse. Decise di prenderla per buona. Dovevano fare qualcosa a proposito. Dovevano agire. Se tutta quella storia era vera, questo "Spettro" poteva rivelarsi piuttosto pericoloso... -Bordon, prendete una pattuglia- ordinò, voltandosi -Vediamo di catturare questo "Spettro" prima che le sue imprese si diffondano. Chi è costui?- In piedi di fianco a Bordon c'era un uomo molto alto, con ricci capelli scuri, occhi azzurro confetto ed un mento molto pronunciato. Indossava una divisa da Dragone. Tavington non lo aveva mai visto prima. -Signore, questo è il Capitano Wilkins, era con la milizia coloniale lealista... ho pensato che potrebbe esserci utile- spiegò Bordon. Tavington squadrò l'uomo con malcelato disprezzo. Non gli erano mai piaciuti i traditori, e nemmeno gli americani erano tra le sue simpatie più sfrenate. -Un altro coloniale...- commentò a mezza voce, deliberatamente. Alzò un sopracciglio e domandò, in tono formale: -Ditemi, capitano, a chi concedete il vostro lealismo?- -Al re e alla patria, signore- rispose Wilkins prontamente. Sembrava molto ansioso di essere giudicato da Tavington. Bè, William non aveva certo intenzione di dargli il benvenuto. -Perché dovrei fidarmi di un uomo che tradisce i suoi vicini?- domandò freddamente. Il Capitano Wilkins sembrò spiazzato dalla domanda. Rispose, in tono non del tutto deciso: -Questi miei vicini che si ergono contro l'Inghilterra meritano di morire da traditori- Tavington capì che stava solo recitando frasi imparate a memoria. Sarà divertente metterlo alla prova, si disse. -Vedremo- disse con un sospiro scettico, prima di uscire velocemente dalla tenda, seguito da Bordon.] Il sole era già tramontato del tutto, e lui aveva ancora molto lavoro da fare. Si diresse velocemente verso la sua capanna e radunò i fogli sulla sua scrivania. Avrebbe finito di stendere il rapporto una volta giunto a Camden; non gli andava proprio di restare lì. Dopo aver preso le sue cose, Tavington si diresse verso la stalla. Vi trovò Bordon. -Ti convince?- chiese Mark senza tanti preamboli. Era curioso come cambiasse il registro delle loro conversazioni, quando erano in servizio e quando non lo erano. Tavington montò in sella al suo cavallo e si allacciò il caschetto sotto il mento: -Affatto- -Bè, neanche a me- rispose Bordon, salendo sul suo destriero -Tutti questi lealisti continuano a venirci tra i piedi. Ma una spia è sempre utile- Tavington alzò le spalle: -Non vedo l'ora di fargli le ossa- Bordon rise: -Ce l'hai proprio con i novellini, Tav- -Ce l'ho con i coloni- lo corresse Tavington. Ghignò: -Ma anche con i novellini, sì- Salutò Bordon e iniziò a cavalcare verso i campi ormai bui.
Tavington cavalcava verso ovest. Aveva percorso circa un miglio, ma Camden ancora non si vedeva. Era molto distante dall'accampamento sul Santee. Lui si sentiva più stanco che mai. L'oscurità s'infittiva intorno a lui, e una pallida luna era apparsa nel cielo; i grilli cantavano, e i loro versi riuscivano a raggiungerlo nonostante lo scalpitio degli zoccoli del cavallo; nonostante fosse gennaio e la temperatura fosse gelida, non nevicava. C'era stata una bufera i primi di dicembre, ma poi si era placato tutto. D'altra parte, il South Carolina non era particolarmente a rischio di precipitazioni che non fossero pioggia e grandine. Gli inverni degli anni passati erano stati di gran lunga peggiori, però: dal momento che Camden era una cittadina dal suolo collinare, aveva nevicato molto abbondantemente, e a lungo, negli inverni del '78 e del '79. Nell'80 erano stati più fortunati, ebbero solo qualche bufera alla fine della stagione fredda; quell'anno, poi, si presentava relativamente tranquillo. Almeno per quanto riguardava il clima. Per la guerra un po' meno, dal momento che Spagna e Olanda si erano alleate ultimamente con gli Americani. Chi diavolo gli ha detto di mettersi in mezzo?, pensò irritato, mentre spronava il cavallo ad andare avanti. Gli Inglesi dovevano vincere quella guerra, dovevano. Lui aveva consacrato la sua vita a quell'unico scopo, non aveva intenzione di buttare all'aria vent'anni di addestramento. Ricordò in un lampo il momento in cui aveva deciso di diventare un Dragone. Ma no, preferiva non pensare al passato. Non ci pensava più. Tavington sospirò, e il suo respiro si condensò. Proprio mentre tornava con il pensiero al sopralluogo alla piantagione dei Martin quel mattino, vide un sagoma lontana. Qualcuno a cavallo. Galoppava nella direzione opposta alla sua. Può essere un ribelle, si disse, preparando la pistola. Doveva sparargli ora? No, e se poi era un inglese? Cavalcò più veloce, deciso a raggiungerlo. Dopo qualche minuto, gli giunse alle spalle. -Fermatevi- ordinò, accellerando e ponendosi davanti allo sconosciuto. Quello fermò il cavallo e abbassò il cappuccio della mantella. Tavington guardò incredulo Karen Honey ricambiare il suo sguardo, le guance arrossate dal freddo e un sorriso sulle labbra: -Uh, scusate, vi assicuro che non sono armata- gli disse, notando la pistola nella mano di Tavington. Lui la ripose, sentendosi sempre più stupido. Ma chi era lei per farlo sentire tanto imbarazzato? -Che cosa ci fate qui a cavalcare tutta sola, di notte, per giunta?- domandò Tavington, continuando a bloccarle la strada. -Sto andando in una base di coloni a riferire delle importanti informazioni. Peccato che mi abbiate scoperta- disse lei, gli occhi che brillavano di una luce canzonatrice. -C'è poco da scherzare- ribattè Tavington, gelido -E' pericoloso aggirarsi per queste contrade di notte. Siete pazza? Non sapete che c'è una guerra in corso?- La ragazza alzò gli occhi al cielo: -Ho già mio padre che mi fa questo genere di prediche. Stavo solo facendo una cavalcata prima di cena. Non credevo fosse proibito- -Dovrebbe esserlo, per voi- ribattè Tavington -Vi accompagno a casa- Karen scoppiò a ridere: -Con voi sono proprio al sicuro, non è vero? Chi mi dice che non ve ne approfitterete di me?- Tavington aggrottò le sopracciglia e un brillio malizioso attraversò i suoi occhi: -Non ve lo dice nessuno, in effetti- Karen risollevò le redini: -Bè, se avete finito di interrogarmi, immagino che potrò riprendere a cavalcare- Tavington le bloccò ancora la strada: -Insisto per accompagnarvi, miss Honey- Lei lo fissò, come se stesse valutando la sua proposta. Sospirò e disse, sorridendo: -Bè, non sembra che abbia molta scelta, colonnello...- -Infatti- rispose Tavington. Spostò il cavallo di fianco a quello di lei e ripresero a cavalcare insieme, ma lentamente, in modo da poter fare conversazione. Tavington si sentiva più sicuro ora che la stava accompagnando. Non che fosse una cosa a che fare con sentimenti e roba del genere: era solo il suo dovere di colonnello, aiutare le persone in pericolo... sì, stava facendo il suo dovere. Stava lavorando. -Dove abitate?- le chiese Tavington dopo qualche minuto. -Avete presente la Black Swamp? Qualche miglio più a nord- rispose lei. Lui non potè fare a meno di notare il suoi capelli incorniciarle il viso, svolazzare nella brezza... le sue guance arrossate dal gelo, i suoi occhi più brillanti che mai... -E' piuttosto lontano da qui- osservò distrattamente, continuando a lanciarle fugaci occhiate -Cavalcavate da molto, quindi- Lei annuì: -Adoro questi luoghi. Un ottimo diversivo al caos di Londra- -Londra?- -Già, vivevo laggiù fino a... nove, dieci anni fa. Ancora non mi sono abituata a questi meravigliosi paesaggi... La Carolina del Sud è stupenda- -Come mai vi siete trasferita nelle colonie?- volle sapere Tavington. Lei sorrise: -Avete intenzione di scrivere la mia biografia, colonnello?- Tavington rise. Era molto che non gli capitava di farlo. -Comunque...- proseguì Karen -Ci trasferimmo qui perché mia madre morì e mio padre non voleva più rivedere l'Inghilterra... credo gli ricordi troppo lei- Tavington distolse lo sguardo. Per qualche secondo nessuno dei due aprì bocca. Poi Karen sospirò e gli chiese: -E voi? Dove stavate andando quando mi avete sorpresa?- -Tornavo al forte- rispose Tavington asciutto -Si trova nei dintorni di Camden- -Dovrebbe essere lontano...- disse lei. -Già- rispose Tavington. -Cosa avete fatto oggi?- domandò Karen. Tavington sospirò. Aveva ucciso un ragazzo quindicenne, almeno una dozzina di soldati feriti, aveva dato fuoco ad una piantagione, costretto degli schiavi liberati a combattere per la Corona... -Ho lavorato- rispose -Come sempre- -Dev'essere un'occupazione molto impegnativa, la vostra- ribattè lei -Cosa vi ha spinto a diventare un Dragone?- Tavington sorrise e la guardò negli occhi: -Ora la biografia su di me la volete scrivere voi- Karen rise. La galoppata proseguì senza grandi avvenimenti e nel giro di mezz'ora Villa Honey apparve davanti ai loro occhi. Era una costruzione in pietra bianca verniciata e levigata, a due piani, con colonnine in marmo rosa e oro che fiancheggiavano ogni finestra. Il giardino si stendeva rigoglioso e colorato davanti all'entrata: bassi labirinti di cespugli, fontanelle che zampillavano allegramente, fiori di ogni genere. Un sentierino di ghiaia conduceva verso la villa, le cui molte, altezzose finestre, brillavano di una luce aranciata che allungava ombre calde sul cortile esterno. Tavington immaginò che il Barone Honey dovesse essere molto ricco. Giunsero nel giardino e si voltarono l'uno verso l'altra. Tavington scese da cavallo e le porse una mano per aiutarla a fare lo stesso. Lei accettò l'aiuto con un sorriso e si trovò in piedi, davanti a lui. -Bè, grazie della vostra protezione, colonnello- sussurrò, a voce molto bassa. Tavington non riusciva a staccare gli occhi da quelli magnetici di lei. -E' stato un piacere, miss Honey- rispose, un vago ghigno sulle labbra. -Volete venire a cena da noi?- lo invitò la ragazza -Temo che avere ospiti in casa sia l'unica cosa che mi potrà salvare dalla bella ramanzina che mi farà mio padre- Tavington valutò l'offerta. Ricordò il resoconto che doveva ancora terminare e scosse la testa: -Ho del lavoro che mi aspetta, al forte- Karen inclinò la testa da un lato: -Sarà per un'altra volta, allora. Ci vediamo- -Sì- rispose Tavington -Ci vediamo, miss Honey- Lei gli fece un ultimo sorriso e si incamminò verso casa. Quando fu entrata, Tavington rimase a fissare la porta chiusa per un tempo interminabile, prima che riuscisse a ricordarsi del lavoro che aveva da fare e rimontasse a cavallo, rimproverandosi ogni volta che il suo pensiero volava, inesorabile, a Karen Honey.
Erano quasi le dieci di sera quando Tavington varcò finalmente i cancelli di Camden. Diverse sentinelle erano posizionate strategicamente, e Tavington notò che erano molto all'erta. Immaginò che ciò fosse dovuto al fatto che ultimamente, con l'attacco al carro che portava prigioniero Gabriel Martin, i ribelli fossero diventati particolarmente attivi, e gli inglesi si dovessero organizzare per tenere sotto controllo la situazione e proteggere il più possibile i forti e gli accampamenti più a rischio, come Camden e Fort Carolina. Tavington consegnò il suo cavallo a Gram, lo schiavo addetto alla stalla, e si affrettò a salire i gradini di pietra che precedevano l'entrata del palazzo. L'ingresso era immerso nella penombra: solo qualche candelabro era appeso ai muri e lunghe ombre inquietanti si allungavano sulle pareti. Una luce più forte proveniva da un grande portone spalancato alla sua sinistra: lì c'era il salotto, ed un intenso rumore di chiacchiere e risa gli disse che i Dragoni si erano attardati a bere e a giocare a carte davanti al camino. Il suo primo pensiero fu quello di raggiungerli, ma il suo senso del dovere lo trattenne. Alla fine decise di andare nel suo appartamento a finire quella dannata relazione, così salì l'imponente ma spoglia scalinata che si apriva al centro dell'atrio. Giunto al corridoio del primo piano, lo percorse e si ritirò nella sua stanza. Dopo aver chiuso la porta dietro di sé, vide che qualcuno stava occupando il suo letto. -Katie!- sospirò, vedendo due occhi neri brillare nella scarsa luce fornita dalle candele. -Esatto, tesoro- disse quella, stendendosi sul letto ma continuando a guardarlo -Perché non vieni qui con me? Ti ho aspettato apposta- Tavington accese il candelabro per avere maggiore illuminazione e la guardò, esasperato. -Come diavolo hai fatto ad entrare?- le chiese, appoggiando il caschetto da cavalcata sul mobile della toletta. -Avevi lasciato la porta aperta...- disse lei vagamente -Ora vieni qui, non costringermi a trascinarti- Lui si tolse gli stivali: -Sono stanco, Katie. Stanchissimo... ho avuto una giornata pesante- -Anche la mia giornata è stata pesante- trillò lei. Abbassò la voce in un tono sensuale: -Non ho mai smesso di pensare a te e al tuo...- -Katie- ripetè lui in tono fermo -Vattene. Non fartelo ripetere o potrei arrabbiarmi- Lei scese dal letto, profondamente delusa, e si avviò di malavoglia verso la porta. Si voltò verso di lui e lo guardò fisso negli occhi. Gli si avvicinò e prese a slacciargli la giacca. Sfilò il primo bottone. -Nessun ripensamento?- gli sussurrò. Tavington la maledì, perché lo stava facendo eccitare alla pazzia. Aveva del lavoro arretrato, e la mattina dopo avrebbe avuto una battaglia... non poteva permettersi di andare con lei... e poi forse non aveva neanche abbastanza soldi. La allontanò da sé piuttosto bruscamente: -Vattene- Lei sbuffò, aprì la porta e sgusciò via veloce. Tavington immaginò che sperasse di abbordare qualche altro Dragone prima dell'alba. Alzò le sopracciglia, cercando di calmarsi. Chiuse la porta e si mise al lavoro. La relazione stava venendo pessima, ma non gli importava. In fondo era solo un resoconto, e lui voleva andare a dormire. Avrebbe dovuto pensare a come organizzarsi per la battaglia del giorno dopo. Era mezzanotte quando fece finalmente la sua firma alla fine del rapporto, piegò con cura il foglio e lo ripose in un cassetto della scrivania. Assicuratosi che la porta fosse ben chiusa, si tolse la giacca, la camicia e i pantaloni, si sciolse i capelli e si infilò nel letto, dopo aver spento tutte le luci. La stanza era immersa nella penombra. Dal piano di sotto giungeva un consistente brusio di voci e urla ubriache. Avrebbe tanto voluto che quegli idioti filassero a dormire, ma non aveva voglia di scendere a ordinarlo. Sapeva che gli avrebbero obbedito ciecamente, ma d'altra parte non voleva disturbarli. I suoi uomini avevano bisogno di rilassarsi almeno quanto lui.
Si stese a pancia in giù e si tirò le lenzuola sulla schiena nuda. Rivolse un'occhiata alla finestra, dalla quale erano visibili le grandi distese di pianure, boschi e colline che si perdevano a vista d'occhio aldilà dei confini del forte. Il suo sguardo salì al cielo notturno. Era blu velluto, con una meravigliosa mezzaluna che brillava lassù, piena di candore. La sua luce proiettava ombre argentate sul pavimento di pessimo legno della camera. Tavington chiuse gli occhi mentre si girava sull'altro fianco. Anche se aveva gli occhi chiusi, un viso gli balenò immediatamente davanti. Karen Honey. La vedeva solo con le pupille della mente, se apriva gli occhi era sparita. Perché lo tormentava così? Ricordò la sua voce melodiosa, le sue occhiate ammiccanti e infinitamente graziose, quegli occhi così da bambina, quei modi educati ma sensuali... Si stese sulla schiena e si mise un braccio dietro alla testa. Ora la vedeva anche se teneva gli occhi aperti. Era china su di lui, nuda, lo stava baciando appassionatamente... Tavington voltò la testa bruscamente. No, non stava pensando di nuovo a lei. Karen Honey gli era rimasta dentro tutto il giorno. Non riusciva a liberarsi di lei. Se non l'avessi incontrata oggi probabilmente ora me la sarei già dimenticata... Non ne era così convinto. Perché anche quando era alla piantagione dei Martin, un martello aveva continuato a battergli nella testa... era lei. Ancora lei, ancora una volta. Gli sembrava impossibile di averla conosciuta solo la sera prima, a quel ballo. Era come se lei fosse sempre stata lì, nei suoi pensieri. E ancora la vedeva, la sognava ad occhi aperti, sognava le sue dita sottili e curate slacciarsi il vestito di fronte a lui... sognava le sue morbide labbra accarezzare le sue ancora una volta... William Tavington ghignò. In fondo non doveva spaventarsi, o chiedersi perché la pensasse tanto. Era solo una bella, giovane donna, tutto qui. E lui aveva una gran voglia di portarsela a letto. William era sicuro che lei non potesse neppure lontanamente immaginare quanto sarebbe stato felice il benedetto giorno in cui sarebbe riuscito a farla sua... E non c'era altro, comunque. Solo voglia di sesso, voglia di lei. Finiva tutto lì, e non ci sarebbe stato altro. Non sarebbe venuto altro, oltre a quello. Rassicurato, chiuse gli occhi e concesse alla sua mente di continuare quella fantasia... Dopo pochi minuti, il sonno cadde su di lui.
Karen Honey guardava la luna fuori dalla finestra aperta. Il suo riflesso bianco ondeggiava sulla superficie del piccolo stagno nella parte posteriore del giardino. Karen si sporse sul davanzale e chiuse gli occhi mentre una brezza leggera e frizzante le scorreva sul viso. Sorrise, respirando a fondo l'aria pulita. C'era qualcosa di diverso nell'aria, lo sentiva... o forse c'era qualcosa di diverso in colei che la respirava. Karen chiuse la finestra e rivolse lo sguardo alla sua camera. Il suo letto, il suo scrittoio e il suo armadio erano immersi in quello che suo padre definiva "un insopportabile disordine": vestiti e libri giacevano sparsi ovunque, tanto che le cameriere avevano rinunciato a metterli a posto. Karen rise di fronte alla camera vuota. Adorava il suo disordine, la faceva sentire viva. Che stanza era una stanza in perfette condizioni? Quella di una locanda, poteva essere così. Una stanza dove la gente và, vi lascia le proprie cose per un paio di notti e poi le toglie di nuovo. E la camera torna immacolata e impersonale, come se non ci fosse stato mai nessuno. Ma lì, nella stanza di Karen, c'era qualcuno. E lei voleva che fosse chiaro. Si buttò sul letto e lasciò come unica illuminazione la debole candela fiammeggiante sul comodino. Si voltò verso di essa, seguendo il moto ondulante e tremolante della fiamma. Le invocava tanti pensieri... Sentiva che c'era una fiamma che ardeva in lei, quella notte. La poteva sentire battere costantemente e incessantemente nel suo petto... perché le avvolgeva il cuore. Si infilò sotto le coperte e se le tirò fino al mento. Adorava quel letto, quella sensazione così confortevole, quel calore rassicurante... Pensò che tra qualche tempo avrebbe dovuto abbandonare casa sua per sempre. Sarebbe dovuta andare a vivere con O'Hara, probabilmente in una villa immensa e ordinata, senza niente fuori posto... Con un uomo al suo fianco, per di più. Chissà come dormiva il Generale O'Hara. Sperò che non russasse. Per un attimo se lo immaginò con la papalina da notte e scoppiò a ridere. No, era troppo irreale... ma probabilmente un giorno non troppo lontano l'avrebbe visto proprio così. Il sorriso morì lentamente sulle sue labbra. Uffa, doveva proprio sposarlo? Suo padre lo desiderava così tanto... voleva il meglio per lei... Ma era davvero il generale il meglio che le potesse capitare? Karen non lo sapeva, così decise di non pensarci. Il suo pensiero volò ad un certo colonnello che l'aveva accompagnata a casa quella sera. Un sorrisino malizioso apparve nuovamente sulle sue labbra. Era molto bello... lui di certo non russava, a letto. E non dormiva neppure con la papalina. Rise ancora, talmente forte che dovette affondare la testa nel cuscino. Si accorse di avere le guance bollenti. Era diventata rossa. Guardò il soffitto, e le sembrò di rivivere per filo e per segno i due incontri con lui... Quando aveva alzato lo sguardo e se l'era trovato lì, con gli occhi chiusi, un bicchiere di vino in mano... Sembrava totalmente immerso nella musica. Karen non aveva mai visto una tale dedizione. Cioè, a dirla tutta l'aveva vista solo in una persona: lei. Suo padre si limitava a dirle di "smettere di strimpellare continuamente". Priska la trattava con ammirazione, ed era ansiosa di imparare a suonare come lei. Karen sapeva che un giorno quella ragazza sarebbe diventata molto più brava della sua sorella maggiore e la cosa la fece sorridere. Ma non aveva mai visto un coinvolgimento così totale come quello del colonnello. Quando l'aveva visto, si era sentita strana. Come se lei si trovasse sul fondo dell'oceano, un oceano di musica, note, accordi... un luogo dove nessuno riusciva a raggiungerla... quando all'improvviso si era tuffato anche lui, e si erano trovati insieme. Uniti da quella melodia. Era piuttosto strano come uomo, però, il Colonnello Tavington. Così sicuro di sé... sembrava convinto che lei sarebbe caduta ai suoi piedi. Com'è che le aveva detto?
"L'ho fatto con donne che conoscevo molto meno. Donne alle quali bastava che rivolgessi uno sguardo"
Sembrava davvero offeso. Karen non lo riusciva a capire, ma del resto, lei aveva avuto ben pochi contatti con uomini che non fossero stati suo padre o quelli che suo padre le faceva conoscere, quindi era difficile catalogare il Colonnello Tavington. Per ora l'unica parola che stava a pennello su quell'uomo era "buffo". Karen non aveva mai incontrato una persona più divertente. Lui era così convinto di essere il padrone del mondo... così evidentemente scontroso con il Generale O'Hara... Karen riflettè che non doveva avere dei buoni rapporti neppure con l'altro generale, quel... quel... Wally, Willis, o come cavolo si chiamava. Si lanciavano occhiate di fuoco, ma le scintille volavano soprattutto tra lui e O'Hara. Sicuro, tra i due lei certo preferiva Tavington... Perché? Bè, la risposta era semplice... Di certo non portava la papalina.
