Capitolo 5
Fantasmi dal passato
Tavington fermò la sua avanzata su una collina, dietro una macchia di vegetazione. Prese il cannocchiale e scrutò il piccolo accampamento che si apriva nella radura.
-Non dovrebbero essere in molti- osservò Bordon, fermo col cavallo alla sua sinistra.
Tavington emise un piccolo sbuffo ironico: -Se questo è un accampamento, io sono la nonna di Cornwallis-
-Signore, siamo pronti per attaccare- si fece avanti Wilkins, alla sua destra.
-Voi sarete pronti quando lo dico io- ribattè Tavington freddamente, e Wilkins ammutolì.
-Dev'essere una trappola- disse Bordon -Non è possibile che lo "Spettro" viva in un mucchio di capanne come questo-
Tavington ripose il cannocchiale e volse uno sguardo al cielo plumbeo sopra di loro.
-Non è detto, maggiore- disse lentamente -Spesso i ribelli di maggior rilievo sono barboni, che vivono sulle strade... ed in effetti, anche quelle marmaglie che si ostinano a chiamare "esercito" provengono più o meno dalle fogne-
Era mattina tarda, e Tavington e la sua unità erano giunti nel luogo dove, secondo quello che diceva la lettera trovata alla piantagione dei Rosewell, erano accampati Edward e i suoi uomini. L'accampamento era un agglomerato di tende molto piccolo, costituito da una dozzina scarsa di padiglioni circondati dalla vegetazione selvaggia.
Tavington riprese il cannocchiale e lo puntò di nuovo verso il basso, in cerca di segni di vita: ad un tratto vide una guardia armata di fucile far capolino da dietro una tenda, ma non sembrava averli visti. Tavington ripose il cannocchiale ancora una volta e sospirò:
-Prepararsi alla carica-
Sentì i Dragoni dietro di lui animarsi e tirare fuori spade e pistole.
-CARICA!!!!-
Il suo urlo echeggiò nel silenzio mattutino. La guardia vicino all'accampamento, che si rivelò essere accompagnata da altri due uomini, si guardò intorno allarmata e così fecero i suoi compagni. Altri soldati uscirono dalle tende, mezzi vestiti e spettinati, caricando il fucile il più velocemente possibile.
Tavington scese sulla radura per primo, ed infilzò il soldato che si trovava più vicino. Quello cadde a terra e il suo fucile rotolò via. Ben presto i Dragoni si ritrovarono a combattere contro i pochi volontari che abitavano l'accampamento.
-Ci arrendiamo, ci arrendiamo!!!- gridarono gli ultimi quattro rimasti, buttando le armi altrove.
Bordon, che puntava la pistola contro questi ultimi, si voltò verso Tavington.
-Signore?- chiese.
Tavington sentì una voce parlargli nella testa.
Alle truppe che si arrendono si concede quartiere. Le vostre brutali tattiche debbono cessare.
-Prendeteli prigionieri- disse, risoluto.
Bordon obbedì e si occupò di legare i prigionieri. Tavington li osservò attentamente, ma nessuno di loro gli ricordò Edward Rosewell.
-Dove si trova Edward Rosewell?- chiese ad uno dei quattro uomini.
Quello lanciò uno sguardo ai compagni e disse: -Tra noi non c'è nessun Edward Rosewell-
Tavington si rivolse a Wilkins: -Capitano, tagliategli la gola-
Wilkins impallidì di colpo e disse, in un soffio: -Sissignore-
Tavington decise di non assistere. Scese dal cavallo, lo affidò ad un Dragone e tirò fuori la pistola, con l'intenzione di dare un'occhiata in giro. Edward doveva essere lì, era lì, lo sentiva...
I suoi uomini stavano controllando le tende, prelevando ciò che ritenevano utile. A parte qualche munizione, non trovarono nulla d'importante. Persino le cartine erano grossolane e imprecise.
Parola mia, non sono mai stato in un accampamento peggiore, pensò Tavington, aggirando il gruppo di tende e volgendo lo sguardo verso la cresta delle colline lì intorno. Diamine, Edward doveva essere fuggito passando per di là. Gli occhi di Tavington scrutarono tra la vegetazione ma non scorsero nulla d'insolito. Furioso ma rassegnato, ritornò nel luogo dove alcuni suoi Dragoni stavano ammassando i cadaveri.
-Quanti sono?- chiese Tavington a una recluta.
-Signore, ne abbiamo uccisi quindici- rispose quello, pronto. Proprio in quel momento giunse un urlo dall'altra parte del campo e Tavington seppe che Wilkins aveva fatto il suo dovere.
-Ehm... sedici- disse la recluta -I vivi sono tre, signore-
Un Dragone arrivò e aggiunse il corpo dal collo sanguinante del sedicesimo ribelle alla catasta di morti.
Tavington si mosse tra i cadaveri, osservandoli con attenzione. Doveva essergli sfuggito qualcosa, un uomo non può sparire così...
-Soldato, qui ci sono quindici cadaveri- osservò, rivolto alla giovane recluta che li aveva contati.
-Signore, deve anche contare quello nuovo- disse quello, cauto.
-L'ho contato- rispose Tavington con voce dura. Lui e la recluta si guardarono.
Tavington gli si avvicinò, la mascella irrigidita dalla rabbia: -Soldato, devo credere che non siete capace a contare?-
Il giovane scosse la testa: -S-signore, io sono convinto che erano sedici, con quello nuovo. Quando ho contato, prima che il sedicesimo morisse, era sicuro che i cadaveri fossero quindici, lo giuro su mia madre-
-E allora ci dev'essere stata un cadavere che non era un cadavere!!!!- gridò Tavington rabbioso -Chi era responsabile dei morti??-
-I-io, signore- disse la recluta, esitante.
-Siete sicuro che un corpo non sia strisciato via mentre voi non guardavate?- lo interrogò.
-No, signore-
-E ALLORA COSA ASPETTATE A CERCARLO?????-
I Dragoni impugnarono immediatamente le armi e si misero a perlustrare i dintorni della radura.
Tavington era furioso: era convinto che se fosse venuto da solo ad attaccare quel piccolo accampamento, se la sarebbe cavata meglio. Alcuni dei suoi uomini erano talmente idioti... e si erano lasciati sfuggire Edward Rosewell da sotto il naso. Ma lui l'avrebbe trovato, eccome se l'avrebbe trovato, quel delinquente...
Sentì un fruscio, come qualcosa che venisse trascinato sull'erba al di là della collina. Avanzò in quella direzione con passo sicuro e vide un uomo strisciare sul terreno. Quello voltò la testa e gemette. Tavington vide che cercava di accelerare l'andatura e rise.
-Buongiorno, Edward- gli disse, camminando verso di lui.
L'altro gemette e continuò a strisciare, facendosi forza sulle braccia.
Tavington notò che sputava sangue dalla bocca, e aveva una grave ferita al petto. Sfoderò la pistola e colpì il giovane alla gamba. Quello gridò e fu costretto a fermarsi.
Tavington avanzò lentamente fino a trovarsi davanti a lui.
Sì, era proprio Edward. I suoi capelli neri erano più lunghi di quelli che aveva tre anni prima, ed ora gli stavano appiccicati sulla fronte e sul collo per il sudore. Il suo respiro affannoso e stentato usciva in grandi nuvolette bianche dalla sua bocca sanguinante e dal naso lungo e sottile.
-Sai, non sembra che la tua brillante idea di arruolare volontari abbia avuto molto successo- disse Tavington, beffardo. Indicò con il pollice la radura dietro la collina -E quello sarebbe un accampamento militare?-
-Brucia all'Inferno- disse Edward a stento.
Tavington scoppiò a ridere: -Perché prima non ci vai tu e mi dici com'è, mmm?-
Tavington tirò fuori la spada e l'appoggiò sulla casacca marrone scuro sporca di sangue che ricopriva la schiena di Edward.
-Sai, ho fatto una visitina a casa tua, l'altro giorno- disse Tavington lentamente -Detto tra noi, credo che tua sorella sia veramente una bella ragazza, non trovi anche tu? Me la farei un'altra volta, se solo fosse ancora viva-
A queste parole Edward fece un movimento brusco, come se cercasse di colpirlo: -Figlio di puttana... Pagherai, Tavington... tu... pa...-
-Uh uh, ti ricordi anche il mio nome- disse Tavington -Hai delle doti ammirabili, veramente. E ora, dimmi...-
Spinse leggermente la punta della spada contro la schiena di Edward.
-Quali saranno le tue ultime parole?-
-Tu... morirai, Tavington... morirai-
-Sicuro- rispose Tavington -Salutami tua sorella-
Detto questo, Tavington affondò la spada nella schiena del ribelle e, con un ultimo gemito, quello spirò.
Tavington ghignò al cadavere immobile sul terreno, quindi ritornò dai suoi uomini, con la sensazione liberatoria di aver vendicato le venti giubbe rosse uccise due giorni prima.
-Signore, nessuna traccia dello "Spettro"- disse Bordon, venendo verso di lui trafelato
-Abbiamo cercato tutt'intorno, ma sembra proprio che...-
-Lo "Spettro" non esiste più, Bordon- disse Tavington con un ghigno -E' finito prima ancora di iniziare-
Senza rispondere allo sguardo attonito si Bordon, Tavington diede l'ordine di ripartire e nel giro di pochi minuti lasciarono l'accampamento deserto.
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Essersi liberato del problema "Spettro" nel giro di così poco tempo procurò a Tavington una gran dose di buon umore. Era ancora arrabbiato con Johnson, la recluta che non aveva visto un cadavere strisciare via imperterrito, ma a parte questo si sentiva molto orgoglioso di sé e dei suoi uomini.
Il pomeriggio trascorse senza grandi avvenimenti: lui e la sua unità svolsero molti sopralluoghi e bruciarono diverse case uccidendo vari ribelli con le loro famiglie, il che si tradusse in una montagna di resoconti da stendere.
Quella sera, Tavington se ne stava seduto alla sua scrivania, al forte di Camden, sorseggiando brandy. Le ispezioni alle piantagioni dei ribelli avevano avuto luogo nelle prossimità del forte e così, per sua grande fortuna, non aveva impiegato molto tempo a tornare a Camden. Tavington era molto stanco: erano le sette di sera e il solito, familiare baccano saliva dal piano di sotto. Bevve in un sorso il resto del bicchiere e cercò di concentrarsi sul foglio bianco che aveva davanti. Stappò il calamaio con i denti e intinse la piuma nell'inchiostro nero. Scrisse la data e incominciò la relazione con qualche parola confusa. Mentre la punta della penna scricchiolava sul foglio, Tavington sentiva troppo bene che la sua mente era altrove: era nel cortile di una casa immersa nell'ombra, e teneva una ragazza tra le sue braccia... la bocca di lei era sulla sua, e le sue labbra si chiudevano su quelle dolci e morbide di lei... Tavington respirava a fondo il suo profumo, e lo inebriava... sentiva la guancia liscia di Karen strisciare contro la sua...
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...e lei era stretta tra le sue braccia, che la proteggevano... le sue mani ferme e appoggiate saldamente sulla sua schiena... i suoi occhi azzurri che cercavano di dirle cosa lui provava per lei...
Karen aprì gli occhi e concluse la melodia con una nota bassa e solenne. Sospirò. Era circa la centesima volta, quel giorno, che rievocava la sera prima.
Suo padre non le aveva rivolto più la parola dopo la ramanzina che le aveva fatto appena William se n'era andato. Karen assunse un'aria depressa nel ricordarla.
-Non provare mai più avvicinarti a lui, Karen! Il solo pensiero di te che vai da sola a chiamarlo mi fa rabbrividire! Si può sapere che cosa hai in testa a rivolgerti a lui?? Per una questione così personale, per di più... tu non capisci cosa ha per la testa quell'uomo! Karen, è un assassino! Tu non hai idea della sua reputazione...-
-Al diavolo la sua reputazione!- aveva gridato lei, infuriata come non mai -Qui si parla della mia vita, padre, non della vostra! Io non amo il Generale O'Hara, nè l'amerò mai... e non m'importa cosa si dice sul Colonnello Tavington, io...-
-Tu cosa, Karen? Cosa?-
Non era stata capace di dire a suo padre cosa provava per William. Lei credeva a quello che lui le aveva detto la notte prima, sul fatto che le voci sulla sua reputazione erano tutte menzogne, sul fatto che fossero solo voci, e niente di più. Ma non aveva potuto evitare che il dubbio l'assalisse, dopo quello che le aveva detto suo padre. Ora non sapeva più cosa ne sarebbe stato della sua vita. Il barone era stato irremovibile: lei avrebbe sposato O'Hara alla fine di marzo. Quella prospettiva ora pareva inevitabile, e si avvicinava minacciosa, imponente, mentre il mese di febbraio cominciava. Karen non si era mai sentita tanto distrutta in tutta la sua vita. Era come se qualcuno volesse punirla per avere passato ventott'anni nella felicità e nella spensieratezza. Il che non era neppure totalmente vero.
Karen Honey era nata e cresciuta a Londra. La sua famiglia era di sangue nobile, e i suoi primi tredici anni di vita li aveva trascorsi laggiù, in Inghilterra. Poi sua madre era rimasta incinta di un secondo bambino e suo marito, il padre di Karen, aveva pregato a lungo che nascesse maschio per poterlo designare come erede. Dopo nove mesi, la madre di Karen, Lady Jane Honey, diede alla luce Priscilla, con gran disappunto del barone. Il parto non fu regolare, e sua madre soffrì molto. Morì circa un mese dopo, ancora in preda al dolore. Ciò causò un grande vuoto nella piccola Karen, un vuoto che si sarebbe colmato solo molti anni dopo quando, da adulta, avrebbe finalmente accettato ciò che il destino le aveva riservato. Suo padre era distrutto dall'intera situazione: era sposato con sua moglie da sedici anni, e Karen non poteva neanche immaginare quanto e quale dolore dovesse essere stato per lui doverla abbandonare così, di punto in bianco. Dopo la morte di Jane, la famiglia Honey continuò a vivere a Londra per altri cinque anni, ma dopo quel tempo l'atmosfera era diventata troppo pesante e suo padre aveva deciso di trasferirsi nel Nuovo Mondo. Karen aveva diciotto anni e Priska cinque, e nessuna delle due aveva fiatato quando il padre aveva comunicato loro la sua decisione. Così, si erano stabiliti nelle colonie, dove il barone Honey era riuscito ad accumulare molto denaro e a fare fortuna, sfruttando anche il buon nome della famiglia. Da lì non si erano più mossi, e anche se Karen ricordava gli anni passati a Londra con sua madre con grande nostalgia, lei e Priska si erano adattate bene al nuovo ambiente. L'unica cosa che era cambiata in lei era la passione per la musica. Sua madre era una pianista, e l'aveva istruita ad arte quanto lei, Karen, era poco più di una bambina. All'inizio la piccola Karen era rimasta colpita e affascinata dal suono dolce dello strumento, ma col passare degli anni, oltre a dimenticare gli insegnamenti della madre, aveva perso interesse. In seguito al trasferimento nelle colonie, però, Karen aveva rispolverato quello che ricordava su quanto le aveva insegnato la madre sulle note, le armonie e le melodie, e aveva colmato le lacune create dal tempo con i suoi propri sentimenti, con le proprie emozioni, mettendo sempre qualcosa di nuovo in ciò che suonava. La musica era diventata, col passare del tempo, meravigliosamente liberatoria; era stato il pianoforte a insegnarle ad accettare la morte di sua madre, il cui dolore era stato, fino a quel momento, vivo e insistente dentro di lei. Karen non avrebbe mai potuto abbandonare il suo strumento, non ora che sapeva cosa si sarebbe persa se lo avesse fatto: era a quei tasti che lei doveva la sua felicità. Karen era andata avanti suonando, e aveva attraversato quei dieci anni in South Carolina con una serenità mai provata prima. Era strano, ma era talmente felice che non aveva mai preso in considerazione che tutta quella tranquillità fosse destinata a crollare. Ed ora invece stava lì, presa da mille preoccupazioni e dubbi, senza più essere sicura di nulla. Il rancore bruciava in lei e la consumava come il fuoco divora la paglia: sentiva che se qualcuno non lo avesse spento in fretta, quell'incendio, lei sarebbe stata bruciata viva insieme a quello che rimaneva della sua vita. Se solo O'Hara non si fosse invaghito di lei, quello sciocco arrogante... perché doveva tormentarla così? Se lei ne avesse avuto la possibilità, gli sarebbe andata a parlare, gli avrebbe detto che lei non voleva assolutamente sposarlo... ma il generale era lontano, probabilmente con quell'altro generale, il primo generale, il nobile Lord... Willis, o qualcosa del genere... Karen non sarebbe mai riuscita ad andare a parlargli.
Dio, allora non c'era speranza?
La sera prima, quando William si era dichiarato a lei con un tale candore, Karen aveva capito che dal momento che anche lui provava qualcosa per lei, quello era destino. Si amavano a vicenda, e lei non poteva aspettare di baciarlo di nuovo, di sentirsi stretta al suo petto forte... sapeva che non sarebbe stata felice con O'Hara, non avrebbe mai potuto esserlo, non ora che finalmente aveva capito cosa voleva dalla vita...
E no, al momento la reputazione di Tavington non aveva alcuna importanza per lei. Karen credeva in lui, voleva credergli, perché era assurdo che un uomo come lui potesse fare delle cose del genere... come aveva detto William, erano tutte stupidaggini, e lei non avrebbe creduto a cosa dicevano quelle voci...
Sfrutteremo il nostro tempo al meglio, te lo prometto.
Sì, l'avrebbero sfruttato. Se veramente l'attendeva un'intera vita con O'Hara, lei avrebbe avuto il ricordo di quei due magici mesi trascorsi con lui, William Tavington, il primo ed ultimo uomo per cui lei avesse provato un puro e segreto amore. E quel ricordo le sarebbe rimasto per sempre.
Sospirando, Karen chiuse il pianoforte ed uscì dal salotto, diretta in camera sua.
Salì le scale, la mente ancora immersa nelle preoccupazioni, ed entrò nella sua stanza. Neppure la vista del suo costante disordine le metteva più allegria, ormai. Si buttò sul letto e appoggiò la testa sul cuscino. Lo strinse forte, raggomitolandosi, come faceva da piccola quando era triste per qualcosa. Aveva voglia di lui, aveva voglia di William. Ora la sua presenza le sembrava indispensabile, voleva così tanto rivederlo... Si alzò a sedere, presa da un'idea. Forse poteva rivederlo...
Che ore erano? Era appena tramontato il sole, dovevano essere le sei o le sette. Suo padre non sarebbe tornato prima delle otto e mezza, era andato ad una delle sue "riunioni importanti"... sì, certo. In realtà Karen sapeva benissimo dove andava, ma nessuno sapeva che lei sapeva. Neppure suo padre l'avrebbe mai immaginato. La verità era che il barone Honey aveva un'amante, Reneé Russell, e andava da lei ogni volta che nella sua villa si annoiava o non trovava nulla da fare, cosa che succedeva molto di frequente. Karen l'aveva scoperto un paio di anni prima, leggendo una lettera che suo padre aveva lasciato con troppa imprudenza sullo scrittoio del suo studio. Karen non ci poteva credere, e mossa dallo sconvolgimento aveva guardato nei cassetti della scrivania, solo per trovarli pieni della corrispondenza tra suo padre e questa Reneé. Karen non sapeva molto su di lei, ma non le stava particolarmente simpatica. Dal punto di vista di una figlia, rimpiazzare la propria madre sarebbe sempre stato impossibile, e così era anche per Karen. Non aveva intenzione di rompere il precario equilibrio tra lei e suo padre, comunque, così non aveva detto nulla a nessuno su quelle lettere. Ma sentiva qualcosa roderle dentro ogni volta che suo padre le diceva che usciva, perché sapeva che lui le stava deliberatamente mentendo. Comunque, per la prima volta in due anni, Karen non se ne curò affatto che suo padre fosse ancora da Reneé. Anzi, per la prima volta ne fu addirittura felice. Ciò le dava la possibilità di uscire di nascosto e cavalcare più veloce che poteva verso William. Lo avrebbe cercato in quell'accampamento in cui era andata ieri, quello del Santee... e se non lo avesse trovato lì, lo avrebbe cercato a Camden, dove lui le aveva raccontato che aveva una stanza.
Con il sorriso di nuovo sulle labbra, Karen Honey aprì la porta della sua camera ed uscì.
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Tavington era seduto su un trono e reggeva uno scettro nella mano destra.
-Portate i prigionieri- disse con un ghigno, mentre un servo ubbidiva e faceva entrare due uomini. Tavington li guardò mentre i due si inchinavano a lui.
-Colonnello Tavington, mi dispiace per tutto quello che ho detto su di voi- mormorò uno.
-Silenzio, Cornwallis!- abbaiò Tavington.
Scese dal trono e camminò verso di lui: -Molto bene, e qui c'è anche il Generale O'Hara, vero? Chi è che volevate sposare, voi, eh?-
O'Hara alzò il viso e tremò sotto lo sguardo di Tavington: -Colonnello...-
-Io non sono nessun colonnello!!!- gridò Tavington, sbattendo lo scettro sulla testa di O'Hara -Io sono il re, adesso-
-Maestà!- lo pregò O'Hara, in ginocchio -Risparmiateci!-
Tavington rise mentre lo scettro che teneva in mano si trasformava in una spada, la sua spada, che quel giorno aveva ucciso Edward Rosewell...
Tavington infilzò il parrucchino di O'Hara e lo gettò nel fuoco del camino. Sotto il parrucchino O'Hara era pelato e Tavington scoppiò a ridere.
Qualcuno arrivò alle sue spalle e gli baciò la base del collo. Tavington si voltò e vide Karen, con indosso niente più che una leggera tunica semi-trasparente. Tavington lasciò perdere la spada e strinse forte Karen, la sua regina. L'abbracciò e la baciò con forza.
-William...- gli sussurrò lei a voce molto bassa, le labbra che sfioravano le sue mentre mormorava il suo nome.
D'un tratto la stanza, il trono, Cornwallis e O'Hara sparirono. Solo Karen rimaneva, era ancora tra le sue braccia, e loro si trovavano in una stanza da letto con un fuoco acceso. Tavington accarezzò le spalle di lei sotto la stoffa della leggera tunica che indossava, e le fece scendere il vestito lentamente, scoprendola a poco a poco. Lei sorrise mentre lui tornava a baciarla.
-William, fammi tua, è tutto ciò che voglio- sussurrò lei, stringendosi a lui sempre di più.
Tavington la condusse sul letto, e una volta che lei si fu stesa, lui continuò a farle scendere il vestito. Lei gli sorrideva amabilmente mentre la tunica scendeva, scendeva... Tavington era così impaziente di vederla nuda davanti a lui, di toccarla...
-Colonnello Tavington! Colonnello Tavington!-
Tavington aprì gli occhi bruscamente, solo per trovarsi nella sua stanza, con la guancia destra appoggiata sul resoconto che aveva appena scritto. Raddrizzò immediatamente la testa e scoprì di essersi procurato un bel torcicollo. Fantastico. Detestava addormentarsi quando non avrebbe dovuto farlo, anche se doveva ammettere che il sogno che aveva fatto non era stato niente male...
-Colonnello Tavington! State bene? Ci siete?-
La voce di Bordon proveniva ancora da dietro la porta, accompagnata da costanti colpi. Tavington si alzò in piedi e disse, stiracchiandosi: -Sì, arrivo-
Aprì la porta e si ritrovò davanti Bordon. Alle sue spalle c'era Karen, che gli sorrise in segno di saluto. Tavington li guardò sorpreso.
-La signorina Honey chiedeva di voi- disse Bordon con fare indifferente -Io vado, eh-
-Sì, grazie, Bordon- disse Tavington, chiedendosi se per caso stesse ancora sognando. Il maggiore se ne andò rivolgendogli un occhiolino prima di girare l'angolo. Tavington alzò gli occhi al cielo e si rivolse a Karen.
-Ehi- le disse -Cosa ci fai qui?-
Lei alzò le spalle: -Avevo una voglia matta di vederti- gli disse con semplicità -Posso entrare?-
-Ehm... certo- rispose lui, facendosi da parte.
La felicità nel rivederla era incontenibile, ma lasciava comunque spazio ad una strana sensazione di imbarazzo: a parte le prostitute del forte, non aveva mai ricevuto una donna nella sua stanza e sapeva che quello non era il momento migliore per cominciare. Si ricordò dei resoconti sulla sua scrivania e, appena lei mise piede nella stanza, lui si affrettò a nasconderli nei cassetti mentre lei si guardava in giro. Tavington rivolse uno sguardo critico allo stato della sua camera: il letto era in disordine con le lenzuola ammonticchiate, e diversi vestiti giacevano sparsi qua e là. Santo cielo, chissà che impressione aveva adesso lei di lui. Sperò che non spuntasse all'improvviso qualche capo intimo che le varie prostitute potevano aver nascosto nella sua stanza per indurlo a sceglierle per un'altra notte. Si lanciò un'occhiata allo specchio e vide che era abbastanza in ordine, nonostante si fosse appena addormentato sulla scrivania: la coda teneva e la giacca era abbottonata e stirata.
A quel punto guardò Karen, ricordando subito il sogno che aveva fatto su di lei e desiderando che divenisse realtà. La ragazza stava osservando il tutto affascinata, con un sorriso sulle labbra. Era bellissima, quel giorno indossava un vestito bianco molto stretto, e i capelli le ricadevano sulla schiena come al solito.
-Scusa il disordine- le disse -Ma non ti aspettavo-
Lei si voltò verso di lui e gli sorrise. Tavington non riusciva a staccare lo sguardo dai suoi occhi meravigliosi.
-Non importa- disse lei -Piuttosto... non posso stare molto, perché mio padre tornerà a casa presto e... bè, anche perché chissà cosa penserà il tuo amico se rimango troppo qui-
Tavington sorrise mentre lei arrossiva: -Bordon è un po' malizioso, a volte- ammise, avvicinandosi a lei. Le prese il viso e la guardò negli occhi: -Come stai?-
Lei sospirò profondamente: -Cerco di cavarmela. Mio padre non mi rivolge la parola-
Tavington provò un'improvvisa fitta di rabbia sentendo questo. Era già stato abbastanza umiliante che il barone si fosse infuriato con lui, ma non doveva farne pagare le conseguenze anche a Karen. Per un attimo l'idea di tornare dal barone a dirgli di lasciare Karen fuori da tutta la faccenda attraversò la mente di Tavington, ma fu subito accantonata. Avrebbe solo peggiorato le cose, anche se William francamente non riusciva a vedere come sarebbero potute andare peggio di così.
-Credo che sia colpa mia- mormorò, prendendole le mani e appoggiandosele sul petto -Io non volevo incrinare il rapporto tra te e tuo padre...-
-Ehi...- sussurrò lei -Sbaglio o te l'ho chiesto io?-
-Sì, ma forse non avrei dovuto perdere la calma-
-Se fossi venuta qui per discutere di questo, te lo direi- sussurrò Karen. Tavington non potè fare a meno di cogliere l'intonazione sensuale della sua voce.
-Sono venuta qui solo per vederti. Non voglio parlare di mio padre, non voglio parlare neppure di O'Hara...-
-Non avevo intenzione di parlare anche di lui, credimi- disse Tavington con un ghigno.
-Voglio solo...- continuò lei, avvicinandosi ancora a lui -Voglio solo che stai zitto e che mi baci-
Tavington sorrise lievemente mentre le posava un leggero bacio sulla fronte.
-Non potremo continuare così per sempre, lo sai- disse lui, quasi esitante, mentre le accarezzava i capelli.
Lei alzò lo sguardo: -Credevo di averti detto di stare zitto-
-Ai vostri ordini, baronessa- rispose lui, prima di baciarla profondamente sulle labbra. Le loro bocche si incontrarono e si posarono l'una sull'altra, accarezzandosi e esplorandosi a vicenda, con passione; entrambi avevano voglia di soddisfare quel crescente, scandaloso desiderio che ardeva in loro, che li stava torturando senza tregua, che martoriava nei loro pensieri, che sembrava non estinguersi mai e che in quel momento era più importante di qualsiasi altra cosa. Le braccia di Tavington la strinsero, tenendola chiusa in una dolce prigione dalla quale lei non sarebbe riuscita ad uscire neanche se avesse voluto. Era impossibile pensare ad altro, era impossibile guardare altrove, o evitare di soccombere all'amore che li univa.
Quando si staccarono, Karen aveva il fiatone e Tavington la stava guardando come non aveva mai guardato nessun'altra prima di quel momento.
Lei appoggiò la testa al suo petto mentre riprendeva fiato e chiuse gli occhi.
-Vorrei non andarmene più via- mormorò -Non ti conosco che da tre giorni, ma so che ora che ti ho visto, ora che... ora che ho provato la sensazione di stare con te, di essere amata da te, ho capito che la mia vita non ha mai avuto senso prima di incontrarti. Oh, se solo esistesse un modo, uno qualunque per evadere da questa situazione, ti giuro che lo farei... perché io voglio stare con te, William. Voglio stare con te-
Tavington le accarezzò la testa amorevolmente, mentre il candore e l'affetto di quelle parole gli scaldava il cuore. Sì, lui la voleva, voleva la leggiadra creatura che teneva stretta, la desiderava più di ogni cosa al mondo. In guerra non aveva mai perso una battaglia, ed ora che si sentiva davanti alla battaglia più difficile della sua vita sapeva di non poter vincere. I suoi minuti --i loro minuti-- erano contati. Non c'era modo per evitarlo, ed entrambi lo sapevano bene. Ecco perché quel loro incontro era così amaro, ecco perché ogni bacio e ogni abbraccio sapeva di sconfitta... A Tavington sarebbe piaciuto sfoderare la spada e combattere O'Hara in un duello, ma ciò poteva succedere solo nei sogni. E loro non stavano sognando, quella era la dura realtà. Per un attimo Tavington desiderò di non averla mai incontrata, di non aver mai seguito quella musica arcana e irreale, di non essersi mai incappato nel destino che ora si stava facendo beffe di lui negandogli ciò che più desiderava avere. E se il destino, in quei due mesi, non si fosse dato una mossa regalandogli un aiuto... bè, in quel caso per lui e Karen non ci sarebbe stata più alcuna speranza.
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-Dove sei stata?- chiese il barone scontrosamente.
Karen gli rivolse un'occhiata arrogante: -Non sono affari vostri. E comunque...- lo guardò stringendo gli occhi -Potrei farvi la stessa domanda, padre-
Il barone Honey impallidì impercettibilmente, ma il suo tono autoritario e la sua espressione ostile non vennero meno: -Non rivolgerti a me con quel tono, signorina-
-E voi non porgetemi domande inutili!- disse Karen, alzando la voce. Salì le scale di corsa e si chiuse in camera sua sbattendo la porta. Il barone se ne andò in cucina borbottando.
Karen si buttò sul letto e pianse disperatamente. No, no, cosa stava succedendo... la sua vita stava andando in frantumi e lei non riusciva a ricomporla. Perché, perché proprio a lei?
Qualcuno bussò alla porta.
-Karen! Posso entrare?-
Era Priska. Karen non voleva farsi vedere così da lei, ma non voleva neanche cacciarla via.
-Un attimo- disse, asciugandosi le lacrime più velocemente che poteva. Andò ad aprire, e tirò Priska dentro, quindi chiuse la porta con decisione.
Karen quindi si buttò sul letto e la invitò a fare altrettanto.
-Allora, cosa mi racconti?- chiese, sforzandosi di mantenere un tono di voce normale.
Priska sospirò: -Karen, mi dispiace-
Karen si voltò verso di lei: -Ti dispiace per cosa?-
Lei le si avvicinò: -Mi dispiace che tu abbia litigato con nostro padre, e... e mi dispiace che tu sia costretta a sposarti con quell'imbecille-
Karen rise, ma era una risata per metà amara. Sospirò, e disse: -Sono adulta, Priska. E gli adulti devono accettare anche quello che non gli piace-
Ora le sembrava di parlare come suo padre.
Priska scosse la testa: -Tu non l'hai accettato. Dì la verità-
Karen sospirò e guardò il soffitto: -No- ammise, -Non l'ho accettato affatto. Ma non c'è modo di impedire che certe cose accadano-
-Forse dovrei andare a parlare con nostro padre- disse Priska lentamente -Forse a me darebbe ascolto...-
-No, Priska... grazie dell'aiuto, ma è inutile-
-Ne sei sicura?- chiese Priska speranzosa -Perché mi dispiace vederti così. E mi dispiace anche pensare che tra un paio di mesi tu te ne andrai via-
-Dispiace anche a me, sorellina- mormorò Karen, mentre le lacrime le tornavano agli occhi -Ma... mi sembra che tutto non abbia più senso, adesso-
-Quel generale è insopportabile- borbottò Priska -E' così arrogante!-
-Già- annuì Karen -E comunque tu non l'hai mai conosciuto-
-Lo capisco da come ne parli tu- ribattè Priska -E da come ne parla nostro padre-
Karen sorrise nel vedere l'indignazione di sua sorella. D'un tratto desiderò di averle dedicato più tempo, ultimamente. In fondo Villa Honey era piuttosto in periferia, e Priska, costantemente chiusa in casa, non era riuscita a farsi nessun amico. Era sempre da sola, e Karen si era promessa di farle compagnia il più possibile, chiacchierando con lei e insegnandole a suonare.
-Priska, io... credo di doverti delle scuse- disse Karen -Credo di averti un po' esclusa, negli ultimi tempi-
-Oh, no, che dici- la ragazzina sorrise, un sorriso quasi rassegnato. Abbassò la testa e mormorò: -E poi... avevi altro a cui pensare... o sbaglio?-
Karen rivolse lo sguardo al soffitto e disse, in tono sognante: -Sì, credo di aver pensato molto, ultimamente-
-Riesco ad immaginare molto bene l'oggetto dei tuoi pensieri- disse Priska.
Karen voltò la testa verso di lei: -Uh-uh, sento come un'amarezza nella tua voce-
Priska abbassò lo sguardo ancora una volta: -No, cosa dici, sono solo... contenta per te- fece una pausa, quindi aggiunse -Molto contenta-
-Io invece non sono contenta per me stessa- disse Karen -E' tutto così ingiusto...-
-Dillo a me- mormorò Priska. Si alzò dal letto e disse: -Bè, adesso credo che andrò a mangiare. Tu non vieni?-
Karen scosse la testa.
-Bè, allora ci vediamo domattina- rispose Priska -Buonanotte-
-Buonanotte- la salutò Karen, agitando leggermente la mano nella sua direzione.
Priska chiuse la porta alle sue spalle, lasciando Karen sola con i suoi pensieri.
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Tavington era sceso in salotto per bere qualcosa prima di tornare al suo lavoro, e adesso si ritrovava seduto su una poltrona immersa nel fumo proveniente dalle molte pipe accese intorno a lui: aveva un bicchiere pieno di brandy in una mano, e una prostituta seduta sulle ginocchia: gli stava dicendo qualcosa. Era piuttosto confuso, perché non aveva la più pallida idea di come fosse finito lì. Non provava molte emozioni, a parte un vago disgusto per il fumo che gli passava intorno, una voglia bruciante di brandy e l'impressione che qualcosa in mezzo alle sue gambe si stesse indurendo per via della puttana che ora gli stava passando una mano sotto la camicia... chi era poi?
Ah, doveva essere quella Katie... già... bè, era un po' che non andava a letto con una di loro... Comunque doveva essere molto tardi, fuori dalle finestre era buio pesto... i Dragoni si stavano ubriacando intorno a lui, Bordon era paonazzo dal ridere, rideva per qualcosa... eheheheh, chi se ne frega per cosa rideva Bordon! L'importante era che lui, William, non si ubriacasse, infatti non era ubriaco, no...
Bevve in un sorso il resto del bicchiere e la testa gli girò per un attimo, ma solo per un attimo... Poi tornò completamente lucido, lucidissimo, stava ragionando con grande lucidità e prontezza di spirito... era completamente, indubbiamente sobrio.
-Vieni di sopra, bellezza- disse alla prostituta, che emise un gridolino tutta soddisfatta e lo prese per mano, conducendolo di sopra. Uscirono dal salotto ed entrarono nell'atrio... era quella la sua camera? Ma allora dov'era il letto? Diamine, chi gli aveva rubato il letto? E adesso dove poteva farlo, se non aveva il suo letto?
Ahahah, no quello era l'atrio. Nessuno gli aveva rubato il letto, era solo l'atrio. Già.
Salirono le scale, William aggrappandosi al corrimano, quindi entrarono in una stanza. Lei si ricordava dov'era la sua stanza, lui non molto bene. La camera era nel disordine più completo, ma chi se ne importava?? Almeno il suo letto c'era, sì, eccolo lì, che lo aspettava...
Tavington fece per sciogliersi i capelli, ma si accorse che erano già sciolti. Se li era già sciolti prima, allora, ha! Giusto, lui li scioglieva sempre quando scendeva da basso, perché stava più comodo... più comodo... sì.
Tavington guardò con sguardo offuscato la sua scrivania... era una sua impressione o stava ondeggiando? Era come se fossero sul ponte di una nave... ah, già, una nave! Da quant'era che non saliva su una nave? Da quando era venuto lì nelle colonie, sì, quando era piccolo e c'era suo padre... già, quel brutto stronzo, quel brutto stronzo, se lo avesse avuto lì, su quel ponte della nave che ondeggiava, l'avrebbe subito buttato in mare! Eccome se l'avrebbe fatto, eccome! Ma non c'era brandy sulla scrivania, no, niente brandy! L'avevano portato tutto di sotto, quei maledetti bastardi... era stato suo padre a rubarlo, William era sicuro. Suo padre adorava il brandy, era la sua passione più sfrenata... eh, già, proprio così.
Tavington guardò la prostituta che ora si stava spogliando davanti a lui, e sentì l'improvviso bisogno di portarsela a letto... ma sì, stava per portarla a letto, c'era un letto proprio lì dietro... Tavington la buttò sul letto, e iniziò a baciarla freneticamente. Anche lei lo stava baciando, e gli aveva circondato la vita con le gambe... caspita, era davvero tutta nuda, lui invece era ancora un po' vestito... forse doveva togliersi la camicia... ma prima perché non la baciava, dai, così si faceva prima, vero? Certo che sì. Ora che non aveva più brandy, doveva cercare di sfogare qualche altro suo bisogno, il bisogno assoluto di portarsi a letto una donna... solo che... lei stava gemendo, ma Tavington al momento non riusciva a provare alcun piacere... no, decisamente quella puttana non era molto brava. Bè, ora lei gli stava sfilando i pantaloni, quindi lui non poteva scendere di sotto tutto nudo a scegliere un'altra puttana, no? E... se poi fosse venuta Karen... già, Karen. Siamo sicuri che non fosse lei quella donna sotto di lui?? No, Karen non lo baciava così, Karen lo faceva davvero eccitare, perché lei non era una puttana, ma una persona molto più dolce, con dei sentimenti... già, dei sentimenti. I sentimenti che stava provando... mmm... Ah, ecco, questo gli piaceva. Lei gli stava leccando il petto --dov'era finita la sua camicia?-- sentiva la punta della sua lingua sfiorargli la pelle, e questo lo eccitava... sì, sì, lo eccitava. Ma adesso era il momento di... o no? Lei gli aveva preso la testa e la stava spingendo verso i suoi seni nudi. Tavington respirò a fondo sulla sua pelle e la sentì gemere ancora. Perché diavolo faceva quei versi??
Tavington non lo sapeva ma sapeva che era il momento di agire. Agire, sì. Doveva gridare la carica... no? O doveva aspettare l'ordine di Lord Cornwallis? Tavington si guardò in giro, ma Lord Cornwallis non c'era in quella stanza... chissà dov'era, forse era in battaglia e Tavington doveva essere là, invece era qui a sbattersi questa puttana... no, era il momento di agire. Tavington la penetrò con forza, e i muri della stanza quasi crollarono in seguito all'urlo che mandò la prostituta... Lui chiuse gli occhi con sopportazione, non gli piacevano le donne che urlavano, no, soprattutto se erano delle puttane come lei... Però aveva un bel corpo, lo doveva ammettere... sì, e infatti lo ammetteva. Chi aveva detto che non lo ammetteva? Nessuno, nessuno... Tavington era il Re, dopotutto... già, il suo sogno!!! Chissà se era stato davvero un sogno... Tavington non lo sapeva. No, proprio non chiedetelo a lui che lui non ne ha idea. Forse quello che stava facendo adesso era un sogno, il resto era tutta la realtà... allora lui era il Re! Sì, lui era il Re e Karen era la regina... O'Hara era solo un servo, e lui ben presto gli avrebbe fatto tagliare la testa... sì, proprio così, la testa di O'Hara che rotolava, rotolava giù, e nessuno la fermava... nessuno la fermava... nessuno... la...
... La battaglia infuriava attorno a lui. Sentiva un dolore acuto al braccio, ma non se ne curava affatto. Non lo aveva colpito, non gli aveva sparato al petto, non lo aveva ucciso... era ancora vivo, sentiva solo quel dolore. Per il resto stava abbastanza bene: aveva un graffio, uno squarcio vicino alla sua spalla destra, ma era superficiale... era stata un'ascia a sferzarlo... era stata un'ascia. Sentiva di avere la bocca umida, le labbra bagnate da qualcosa che non doveva essere lì... sangue. Era caduto, ed era rotolato via, per questo sentiva alcune ossa dolergli... ma non era niente di grave. Quello che contava davvero era che lui era lì. L'uomo che doveva uccidere era lì, in ginocchio davanti a lui... e gli dava le spalle. Sarebbe morto, eccome se sarebbe morto, quel bastardo... quel brutto figlio di puttana... Tavington stringeva una spada nella sua mano destra. La sua divisa era coperta di pagliuzze --alcune gli si erano infilate sotto la divisa, e a contatto con la schiena gli davano fastidio, ma non importava, al momento-- la coda in cui teneva legati i capelli si stava sciogliendo, la testa gli girava un po'. Faceva freddo, ma il sole batteva forte, molto forte. C'era un gran fracasso intorno a lui, ed era la musica della battaglia, la battaglia che lo circondava. Solo che adesso quella musica non era più fatta dallo sferragliare delle spade e dallo scoppio di pistole, fucili e cannoni... erano grida. Grida di trionfo, di vittoria... c'era una bandiera che un uomo teneva alta nella luce del sole, e Tavington riusciva a vedere benissimo che bandiera fosse. Ma neanche questo importava, adesso. Tutto quello che importava era finire il suo avversario poi, e solo poi, si sarebbe preoccupato della battaglia. Il suo sguardo tornò sulla massa disordinata di capelli di fronte a lui. Tavington disse qualcosa, ma non riusciva a udire le sue stesse parole, in mezzo a tutti quei rumori... significava che non erano importanti. Non era questo quello che lui era venuto a vedere. Tavington levò la spada e fece forza con tutto il corpo... la sua lama doveva tagliare una testa, e ciò richiedeva un colpo forte e deciso... e la testa sarebbe rotolata via, sprizzando sangue sul terreno secco, innaffiando di morte l'aria fredda che puzzava di polvere da sparo... Ora doveva colpire. Tavington sferzò il nulla con la sua spada, mentre si avvicinava sempre più al collo che doveva mozzare... eccolo, c'era quasi... ma no, invece non c'era... ma...? Cos'era successo?
Le dita di Tavington lasciarono cadere la spada e si strinsero automaticamente sulla ferita che l'uomo che doveva uccidere gli aveva inferto... si era voltato di scatto, e lo aveva infilzato... Tavington sentì il metallo di quell'arma contundente e appuntita penetrargli nella carne dello stomaco, e fermarsi a metà strada. Metà dentro e metà fuori. Era gelida, freddissima contro le sue interiora calde... E dolorosa. Molto dolorosa. L'uomo che aveva davanti aveva il viso sfocato. Tavington strinse gli occhi, ma non riuscì a metterlo a fuoco comunque. Aveva raccolto qualcosa da terra e gli stava dicendo delle parole, delle parole che sapevano di rabbia e rancore... Gli puntava quel qualcosa contro la gola e Tavington provò un improvviso picco di calore... Quella cosa era bollente, sembrava uno spillo di fuoco... E poi venne il dolore più grande che avesse mai provato. Quel caldissimo qualcosa gli era entrato in gola... gli aveva infilzato il collo... Qualcuno lo aveva infilzato con rabbia nella sua gola... Un rivolo di sangue uscì dalle sue labbra semiaperte. I suoi occhi diventarono attoniti, vitrei. Se provava a respirare sentiva quel qualcosa bloccargli la gola... uscì altro sangue. E ad un tratto, l'arma gli venne strappata via, e William cadde in ginocchio. Ora respirava più facilmente, ma il dolore gli impediva di prendere fiato. Dio, quanto sangue... stava scendendo a fiotti verso il terreno, imbrattandolo. Anche la ferita allo stomaco faceva male, ma la mente di Tavington era concentrata sul collo. Con uno sforzo, riuscì a portarsi una mano sulla ferita e vide, con la vista che gli si appannava sempre di più, che la mano era tutta sporca di sangue... I rumori della battaglia si erano annullati intorno a lui, la sua mente sembrava imbevuta del sangue che lo stava affogando, invadendogli la gola e la bocca... Ad un tratto sentì come una forza, un qualcosa, che gli fece raddrizzare la testa... ma com'era possibile che riuscisse ad alzare la testa? Era ferito! Eppure ci riusciva, c'era una volontà superiore che glielo consentiva... Tavington guardò dritto davanti a sé e vide qualcosa... qualcuno... stava avanzando verso di lui. La battaglia si era fermata, tutto si era gelato ed era diventato grigio. Tavington riusciva ancora a scorgere le sagome dei soldati nell'atto di festeggiare la vittoria, ma ora erano tutti immobili come statue. Gli occhi di Tavington non riuscivano a staccarsi dalla figura che avanzava verso di lui. Man mano che si faceva più vicina, Tavington riusciva a scorgerne i tratti... era una donna. La sua bellezza e la sua purezza gli mozzarono il fiato. Avanzava verso di lui. Aveva un viso latteo, senza età; sembrava tanto gioconda e giovane quanto saggia e solenne. I suoi capelli erano lunghissimi, biondi e ondulati, ed ondeggiavano in una brezza inesistente che muoveva lievemente anche i suoi abiti bianchi e leggeri. In tutto quel candore che emanava come un'aura di quiete attorno a lei, emergevano i suoi occhi: due perle turchesi e cristalline, profonde come l'oceano e altrettanto lontane e remote. William la vedeva avvicinarsi, ma i suoi passi non facevano rumore sul terreno e neppure sembravano calpestarlo.
E mano a mano che quella figura si faceva più vicina, William cominciò a capire, cominciò a riconoscerla... i tratti di quel viso gli erano familiari, ma erano stati dimenticati da tempo...
La donna si fermò davanti a lui e gli sorrise con indulgenza. Gli era così vicina, eppure William sapeva che se avesse allungato una mano non sarebbe mai riuscito a toccarla...
William alzò lo sguardo verso di lei ed improvvisamente sentì qualcosa di caldo rigargli le guance.
-Madre...- mormorò, senza riuscire a credere ai suoi occhi.
Lei gli sorrise ancora. William ricordava il suo sorriso, anche se non lo vedeva da vent'anni... lo ricordava così bene, era come se fosse sempre stato lì, davanti a lui...
-Sì, William- disse lei. La sua voce era risonante, veniva da lontano... gli faceva venire i brividi.
-Cosa... cosa sta succedendo?- chiese Tavington, senza staccare gli occhi dal volto di sua madre.
Lei lo guardò intensamente: -Non lo hai capito, William?-
Tavington scosse la testa, ma così facendo gli uscì altro sangue dalla bocca e dal collo e il dolore aumentò vertiginosamente.
-Ti prego...- disse, senza fiato -Fa smettere... questo... male-
-Non posso, William- disse lei lentamente. Sembrava addolorata: -Mi dispiace... Ma abbiamo poco tempo... io ho poco tempo... Sono venuta, William, per farti vedere tutto questo-
-Ma... cos'è?- domandò Tavington, a stento -Cos'è tutto questo?-
Sua madre aspettò qualche secondo prima di rispondere. Poi disse, con la stessa voce remota:
-Questa è la tua morte, William-
Tavington si sentì mancare mentre il dolore raggiungeva picche impossibili.
-La... la... mia... morte...?- disse con voce strozzata. Le lacrime accecavano ancora i suoi occhi.
-Madre!- gemette disperatamente -Perché... perché mi stai... facendo questo?-
-Figlio mio... ascoltami-
E il dolore parve placarsi. Tavington alzò la testa e guardò sua madre.
-Tu devi evitare tutto questo. Esiste un modo per evitarlo... tu puoi farlo, William. Puoi fare in modo che tutto questo non accada-
-Come?- gridò Tavington -Come faccio? Come posso fare?-
-Devi salvarla, William- disse sua madre -Salvala e io non ti verrò a prendere, non così presto. Tutto quello che devi fare è... salvarla-
-Salvare chi?- chiese William, ma sua madre si stava già allontanando, si stava dissolvendo nell'aria... un sussurro accompagnava il suo dolce e impercettibile svanire...
-Salvala... salvala...-
-No, madre non andare!!! Non abbandonarmi! Non di nuovo, NO! Chi devo salvare? Dimmelo! Dimmelo, madre, ti prego!!-
Ma ora non c'era nessuno davanti a lui, solo aria. Il dolore crebbe, crebbe ancora, divenne insopportabile tanto che Tavington battè la testa a terra strizzando gli occhi nel desiderio di morire, raggiungere sua madre, porre fine alla sofferenza... stava precipitando giù, giù, stava cadendo nel nero più oscuro, il nero che lo inghiottiva, e il male pulsante delle sue ferite che martellava, martellava... nel suo cervello, nel suo corpo, era tutto dolorante, era un vortice di nulla, un vortice di morte...
Tavington si svegliò di soprassalto.
Si trovava nel suo letto. Era molto buio, doveva ancora essere notte fonda... le lenzuola si erano appiccicate al suo corpo nudo... il letto era vuoto, a parte lui. La puttana doveva essersene andata. Ricordo del brandy, un forte mal di testa gli stava urlando nel cervello.
Tavington si girò su un fianco. Era sobrio, ora. Caspita, si era ubriacato come non faceva da tempo. Doveva essere stato lo stress a spingerlo a bere troppi bicchieri.
La sua mente tornò al sogno che aveva appena fatto. Sua madre... da quant'era che non pensava più a lei? Da quant'era che non ci ricordava più, da quanto non rievocava il suo passato? Tavington lasciò i suoi pensieri scivolare via, precipitare nei ricordi, mentre fissava con sguardo assente i barlumi lunari proiettati sul legno del pavimento...
Narcissa Tavington era sempre stata una brava donna. Molto buona e gentile con tutti, si era innamorata di Alexander Tavington, un giovane e ricco mercante di Liverpool. Nel giro di un anno da quando si erano conosciuti, Narcissa e Alexander avevano coronato il loro sogno d'amore unendosi in matrimonio. Vivevano in una ricca tenuta che i genitori di Alexander avevano donato loro. La stirpe dei Tavington non era nobile, ma il nonno di William, Culbert Tavington, aveva stretto qualche conoscenza con famiglie molto importanti, addirittura con quella dei regnanti d' Inghilterra, quindi i Tavington, anche con il passare degli anni, mantennero il loro buon nome. Anche prima del matrimonio, Alexander era considerato da tutti un grand'uomo, molto onesto e laborioso, e la stima dell'alta società di Liverpool nei confronti della sua famiglia non sembrava diminuire. Tutti convenivano nel dire che Culbert aveva un figlio fantastico, che avrebbe fatto tesoro della ricca eredità che il padre un giorno gli avrebbe lasciato. Quando Narcissa si sposò con Alexander, anche lei fu accettata cortesemente da tutti, genitori dello sposo compresi, e la dinastia sembrò destinata a continuare a brillare a lungo: queste speranze non poterono che aumentare con la nascita del piccolo William, un bambino meraviglioso, sagace, precoce e sveglio. I genitori avevano letteralmente perso la testa per lui, e come loro anche i ricchi amici della giovane e felice coppia. Ma dopo cinque anni dalla nascita di William, il vecchio Culbert, all'epoca ottantenne, morì di vecchiaia in una notte d'inverno, quasi due anni dopo la morte della moglie Anastasia.
Loro figlio Alexander si ritrovò improvvisamente in mano milioni di scellini, e ora William capiva che non era pronto per avere tanto denaro in un colpo solo. I suoi genitori erano sempre stati benestanti, ma mai ricchi. Ora si ritrovavano ad avere uno dei più alti patrimoni di tutta Liverpool, un patrimonio pari a quello di famiglie di sangue nobile. Alexander rimase colpito da questo suo nuovo potere finanziario, e perse la testa. Cominciò a diventare avaro, perché temeva di perdere i suoi averi se solo si fosse lasciato andare; diventò ossessionato da quell'eredità, dall'enorme mole di richieste che riceveva, gente che bussava alla sua porta per mendicare dei soldi... d'un tratto il clima di Liverpool si fece troppo caotico per lui e decise di partire per le colonie, dove sperava di poter vivere senza più alcuna tentazione che lo spingesse a spendere il suo denaro. La moglie Narcissa lo seguì senza protestare: capiva che un cambio d'aria sarebbe servito al marito e forse avrebbe anche potuto aiutare la crescita di William; dopotutto non sarebbe stato bello per lui vivere in un centro affollato e movimentato come Liverpool. La piccola famiglia partì così per le colonie e approdò in South Carolina, dove Alexander comprò una piantagione nei dintorni di Boston. Seguirono un paio di anni di relativa felicità, nei quali Narcissa sentiva che finalmente il marito aveva raggiunto la tranquillità. Col passare del tempo, però, suo padre aveva preso l'abitudine di recarsi in città, forse per rievocare quel trambusto e quell'atmosfera in mezzo alla quale era vissuto. Spariva per ore, ogni notte rincasava molto tardi dopo "essere stato in città". Narcissa, col susseguirsi dei mesi, venne a sapere che il marito si recava in locanda. Inizialmente non era nulla di male, anzi, era contenta che avesse trovato modo per svagarsi --e poi trovava ancora tempo da dedicare alla sua famiglia, ed era quello ciò che più contava. Ma col passare del tempo, Alexander Tavington iniziò a scommettere. In principio scommetteva per scherzo, piccole somme puntate insieme ai suoi nuovi amici bostoniani. Ma le cifre divennero via via più grandi, mentre la scommessa e il gioco d'azzardo cominciavano ad ossessionare la mente suscettibile di Alexander. Da quel momento cominciarono ad arrivare i problemi. Suo padre tornava a casa ogni notte dopo aver perso somme sempre più esasperanti... e il giorno dopo, tuttavia, eccolo di nuovo partire alla volta di Boston, le tasche piene di quell'oro che, sia William che sua madre lo sapevano, al suo ritorno non ci sarebbe stato più. Ma la situazione poteva ancora peggiorare, e peggiorò. Suo padre, amareggiato dalla sfortuna e con ormai pochissimo denaro in cassaforte, iniziò a bere per affogare i suoi dolori. Beveva, beveva, sperperava i pochi soldi rimasti in birra e brandy. Quando rientrava non era raro che picchiasse sua moglie, ma Narcissa cercava di sopportare tutto quello che suo marito le faceva, per il bene di William. Ben presto però Alexander prese a picchiare anche lui... anche ora William, a distanza di vent'anni, ricordava con chiarezza incredibile il terrore che provava vedendo la cinghia saettare nella aria, per poi avvertire il bruciante dolore della frustata che si abbatteva sulla sua schiena, la parte metallica della cintura che gli sferzava il viso... e lui correva via, gridando, ma non riusciva mai a raggiungere la sua stanza... ricordava la paura che lo atterriva quando le mani di suo padre, puzzolenti di fumo e birra, lo agguantavano e lo trascinavano giù... ricordava i suoi denti sbattere forte sul pavimento di casa, ricordava le grida di sua madre, i suoi tentativi di fermarlo... ma poi suo padre picchiava anche lei. E William allora provava rabbia, e forse quello era ciò che ricordava in maniera più nitida, poiché era un sentimento che ancora non lo aveva abbandonato... e non credeva che se ne sarebbe mai andato, in effetti. Comunque, venne una sera in cui suo padre tornò a casa ubriaco fradicio, con una bottiglia in mano e la pipa in bocca. William se lo ricordava come se fosse lì anche il quel momento, davanti ai suoi occhi. La figura di suo padre che avanzava verso il salotto con passo traballante --i suoi passi, Cristo, i suoi passi facevano tremare il pavimento e le pareti, rimbombavano senza tregua nella mente di William, allora un ragazzo di quindici anni-- suo padre che appoggiava una bottiglia di brandy mezza piena sulla pelle del divano e si accendeva un fiammifero --violento e veloce il fruscio del fiammifero, immediata la fiamma, che gli illuminava il viso sporco e sudato-- avvicinava il fiammifero alla pipa e l'accendeva. Lui che tirava delle lunghe boccate e poi se l'appoggiava tra le labbra e afferrava la bottiglia di brandy. Poi svitava il tappo e si attaccava con la bocca al collo di vetro della bottiglia, e William vedeva quel liquido color dell'ambra scorrere giù, giù, dalla bottiglia alla gola di suo padre... poi suo padre che si voltava, mentre gocce di brandy gli colavano nella barba incolta... suo padre che lo guardava e diceva in tono rude:
-Ehi, Will!! Bello di papà, vieni subito qui, siediti vicino al tuo vecchio-
E William, mosso da una forza inspiegabile, obbediva, si sedeva sul divano accanto a lui, mentre lui continuava a bere e fumare. Il fumo non piaceva a William, lo faceva tossire, ma resisteva pur di stare dove gli aveva detto suo padre. E quella sera accadde semplicemente che ad un tratto la bottiglia di brandy cadde per terra e si ruppe. William aveva alzato lo sguardo su suo padre con timore, perché temeva che lo avrebbe picchiato ancora una volta con la cinghia, era convinto che lo avrebbe incolpato per il fatto che la bottiglia era caduta... ma aveva trovato suo padre con la testa all'indietro, la pipa che faceva ancora salire volute di fumo. William aveva pensato che stesse dormendo, ed era rimasto lì, senza dire una parola, mentre il fumo intossicante e insopportabile della pipa ancora gli entrava nelle narici, gli percorreva la gola facendogliela bruciare, gli faceva lacrimare gli occhi per la sua intensità. William Tavington era rimasto lì, a guardare il padre morto ubriaco, a respirare nel fumo, ad osservare quella figura paterna che era come se non avesse mai avuto. Poi era arrivata sua madre, aveva gridato, e lo aveva abbracciato dicendogli che suo padre doveva essere morto per il troppo alcool. William si vergognava di questo, ma non si sentiva spiacente per la morte di suo padre. E aveva colto un qualcosa, nella voce di sua madre, che gli disse che lei stava pensando lo stesso. Lei era sollevata, e anche William era contento di sapere che non avrebbe mai più dovuto temere l'arrivo di suo padre. Madre e figlio si prepararono ad affrontare una vita da soli. Furono tempi difficili per entrambi. Ora erano tutti e due visti molto male dai concittadini: venne fuori che Alexander non aveva soltanto dissipato l'eredità di famiglia, ma aveva anche chiesto enormi quantità di denaro in prestito. Narcissa e William si ritrovavano soli e pieni di debiti, in una parte di mondo che non avevano mai voluto veramente raggiungere. Sua madre trovò lavoro come cameriera in una locanda, ma veniva pagata molto poco e i debiti erano ancora numerosi e consistenti. A un anno di distanza dalla morte di Alexander, accadde un'altra tragedia che segnò per sempre la vita di William, una tragedia che aggiunse rabbia su rabbia, odio su odio, rancore su rancore. Un giorno come tanti altri, quando lui e sua madre stavano tranquillamente cenando in tinello, il vetro della finestra della sala si era rotto all'improvviso e un uomo ne era entrato. Aveva una pistola in mano, e nonostante sua madre avesse cercato di fuggire, ben presto lui era riuscito a prenderla. Le teneva un braccio attorno al collo, e la canna della pistola puntata alla testa. Lui le aveva ordinato di fargli vedere immediatamente dove teneva il denaro e lei gli aveva detto che non avevano nulla, che suo marito l'aveva lasciata senza niente. L'uomo non le credeva e continuava a fargli le stesse domande. William aveva capito che doveva essere pazzo, o estremamente disperato. Lui aveva sedici anni, ma era riuscito a scappare inosservato dal tinello. Ad un tratto aveva sentito un rumore molto forte, ma non ci aveva fatto caso, non ci aveva voluto fare caso. Era corso subito a prendere la pistola che un tempo apparteneva a suo padre e quando l'uomo era avanzato verso di lui, William l'aveva puntata e aveva premuto il grilletto. L'uomo era morto sul colpo. Quindi lui era tornato più in fretta che poteva nel tinello... e aveva trovato sua madre stesa a terra, a faccia in giù, i capelli color platino sparsi sul tappeto, il vestito bianco e semplice che indossava cosparso di sangue, gli occhi pesantemente, inevitabilmente chiusi. Le si era avvicinato cautamente, chiamandola. Il silenzio di morte che avvolgeva la casa fu l'unica risposta che ricevette. E il primo pensiero che gli aveva attraversato la mente quando aveva capito, quando la verità era penetrata in lui era stato...
Mio padre non era qui a proteggerla.
Se suo padre non si fosse dato al bere, a quel punto sua madre sarebbe stata ancora viva. A quel punto suo padre sarebbe morto per lei proteggendola, o avrebbe combattuto contro quell'uomo. William, ora solo e abbandonato, si era recato in città dove aveva visto che alcuni soldati, delle giubbe rosse, stavano cercando un ribelle di nome Meyer. C'era una taglia sulla sua testa. William li condusse a casa sua, e venne fuori che il ribelle Meyer era proprio l'uomo che lui aveva ucciso. Intascò la taglia e abbandonò la casa. Non la vendette, perché temeva che se avesse ricevuto troppo denaro sarebbe impazzito come suo padre. Quello stesso anno si arruolò nell'esercito dei Dragoni Verdi, soldati che combattevano il male, che combattevano uomini come Meyer. William l'aveva ucciso, ma non era stato abbastanza. Voleva ucciderne altri, e altri ancora, per far vedere a tutti cosa aveva passato, per dimostrare con quale crudeltà erano venuti ad uccidere l'unica persona alla quale volesse bene, l'unica persona che gli era rimasta... e uccidendo loro, Tavington sentiva che stava vendicando sua madre per quello che quei mostri le avevano fatto, per quello che suo padre le aveva fatto, perché anche lui si era meritato quel che gli era capitato, eccome... Tavington avrebbe voluto che lui si reincarnasse in un ribelle, così avrebbe potuto ucciderlo, avrebbe potuto frustarlo e farlo soffrire... non aveva avuto una morte abbastanza dolorosa, era solo affogato nell'alcool dopo essersi preoccupato di gettare la sua famiglia nel fango della povertà. Tavington lo detestava con lo stesso odio con cui sparava ai ribelli, con il quale violentava delle giovani ragazze coloniali... tutti dovevano pagare, e tutti avrebbero pagato.
Ed ora c'era sua madre, lì, che gli appariva in sogno. Un effetto del brandy?
Tavington non ne era tanto sicuro, soprattutto perché aveva fatto sogni ben più strani quando era lucidissimo... forse era questo che lo --spaventava??-- sorprendeva. Il fatto che quel sogno non fosse poi molto strano, anzi, era stato estremamente realistico, anche troppo. In un gesto irrazionale, Tavington si passò la mano sul collo ma non vi trovò sangue, nè ferite, e neppure una cicatrice. Era liscio, com'era sempre stato. Liscio e illeso. Ma il dolore era ancora vivo nei suoi ricordi, lo rammentava perfettamente. Ed era grande, bruciante, terribile. Qualcosa gli disse che non aveva fatto quel sogno per caso... c'era stato un motivo per cui lui aveva visto e sentito tutte quelle cose... ma al momento quel motivo gli era oscuro. Sua madre gli diceva che avrebbe potuto evitare tutto questo, se solo l'avesse salvata. Chi William avrebbe dovuto salvare, non ne aveva idea.
Salvala...
Ma dopotutto doveva essere stato un vaneggiamento. Era assurdo che sua madre gli parlasse in sogno per dirgli cose reali. I sogni non erano reali; erano solo visioni notturne.
Questa è la tua morte, William...
Tu... morirai, Tavington... morirai...
Salvala e io non ti verrò a prendere, non così presto... ma devi salvarla.
Salvala... salvala... salvala...
Tavington chiuse gli occhi con decisione. Nel giro di pochi secondi si addormentò, precipitando in un sonno senza sogni.
TO BE CONTINUED...
