IN FINDING LOVE
Deling I

Probabilmente, non si sarebbe mai abituata alla sensazione di svegliarsi accanto a lui.

Era ancora in un vago dormiveglia, per cui non riusciva ad aprire gli occhi, ma sentiva distintamente tutto quello che accadeva intorno a lei; lui che la stringeva a sé da dietro, intrecciava le loro mani e le posava piano sul suo grembo, mescolava la tenerezza di una carezza che sapeva quasi di sacro alla sensualità di un sentiero di baci lungo il collo che terminava in morsi leggeri del suo lobo.

Si accorse che le lenzuola erano più pesanti; ricordò che lui si era alzato durante la notte e aveva steso una coperta in più sul letto. Il cielo coperto della sera prima aveva portato un po' di pioggia e anche la finestra sembrava chiusa, non sentiva più l'aria fresca sfiorarla.

Sarebbe sempre stato così, pensò mentre lui continuava ad abbracciarla, accarezzarla e baciarla, nel tentativo di strapparle qualcosa più di un sorriso assonnato e inconscio? Si sarebbe svegliata ogni mattina, nuda nel caldo delle coperte e di lui che le si premeva contro, e avrebbe continuato a stupirsi della familiare estraneità di quelle sensazioni?

Erano passati quattro anni da quella prima mattina in cui si era svegliata ai suoi baci e alle sue carezze, e ancora non si era abituata ad aprire gli occhi accolta da lui. Poteva davvero supporre che sarebbe stato così sempre?

Si sentì premuta più forte contro Squall, la sua schiena che aderiva in ogni centimetro al petto di lui; in un caldo sospiro pieno di sorrisi, lui le mormorò, "lo so che sei sveglia...apri gli occhi..."

Non lo ingannava mai. Per quanto cercasse di prolungare la magia di quel risveglio così stupefacente, estraneo e familiare, lui la smascherava e la richiamava a sé. Si voltò mugolando una falsa insoddisfazione, lasciandosi coccolare ancora un po' prima di aprire gli occhi e incontrare il suo viso.

"Buongiorno."

"Buongiorno..." mormorò lei stiracchiandosi contro di lui e strappandogli un sorriso. Lasciò scivolare una gamba contro quella di lui, lentamente, mentre rimanevano a fissarsi per lunghi minuti; e poi, quando le sembrò di essersi completamente sciolta nel suo sguardo tenero, abbassò la testa contro il suo petto con un sorriso, tornando ad ascoltare il battito del suo cuore, la melodia che la accompagnava nel sonno la sera e la riportava alla vita la mattina.

Chissà se lui si rendeva conto di quanto lei dipendesse da quel suono regolare e profondo?

Forse anche lui dipendeva dal suo battito, se ogni mattina la spingeva a coricarsi sulla schiena e poi adagiava la testa tra i suoi seni.

Forse era nel battito del cuore che ogni rito trovava la sua conclusione; fare l'amore, svegliarsi, addormentarsi, finivano sempre con un battito regolare che scandiva i pochi minuti rimasti in cui si potevano sentire i brividi scivolare languidi sul corpo, la coscienza che si allentava e lasciava il posto al sonno, la sensazione delle coperte e del corpo dell'altro sulla pelle nuda.

Ora che ci pensava, amava dormire nuda perché era come se nulla la separasse da lui. Poteva sentirlo sempre e dovunque, le sembrava la sensazione più naturale del mondo; e forse era il motivo per cui anche lui aveva imparato un poco alla volta a dormire senza vestiti.

E intanto, la mano di lui vagava lungo il suo fianco e le si fermava di nuovo in grembo.

L'avrebbe fatto, se avesse saputo che pensieri le turbinavano in testa quando sentiva le sue carezze tenere sfiorarla in quel punto?

Non ricordava bene quando aveva iniziato a pensare di avere dei figli da Squall. Era stato anche quello un evolversi naturale dello stare insieme a lui? Le sembrava quasi di aver iniziato a fantasticarci da quella prima mattina in cui le loro mani intrecciate si erano sistemate sul suo grembo e lei aveva sentito quella carezza come sacra.

Una protezione per una vita che avrebbe potuto sbocciare proprio in quel punto, una carezza ad un esserino grande quanto un nocciolino eppure già così amato.

E la sensazione aveva continuato a crescere, poco alla volta, con ogni rito del risveglio che si consumava, con ogni carezza con cui lui cercava di lenire i dolori del suo ciclo, con ogni bacio che le sembrava più delicato quando le sfiorava il grembo.

Lui, che solo pochi giorni prima aveva fatto finta di non sentire la parola 'figli', avrebbe continuato a regalarle quell'emozione così calda, se avesse saputo a quali pensieri girava intorno la sua mente?

Forse l'aveva sempre pensato. Forse era stato un suo desiderio fin dall'inizio, nascosto in fondo all'animo con la scusa di essere troppo giovani, troppo fragili, di avere ancora così tanto per pensarci...ma poi le era sembrato che tutto si ingrandisse ad una velocità vertiginosa, da quella prima notte trascorsa insieme; lui che era sembrato non riuscire più a trattenere le parole 'ti amo', lui che da allora era sembrato non riuscire più a trattenere le sue emozioni e gliele sussurrava smarrito mentre lei ascoltava il suo cuore tornare a calmarsi.

E più tutto si ingrandiva e lui sembrava perso in quelle emozioni nuove, più lei si sentiva sicura, riusciva a rassicurare lui, e nutriva le sue speranze ad ogni risveglio.

Sapeva che lui aveva paura. Un bambino, un essere così totalmente suo da amarlo senza neppure sapere perché. Ed era un amore incondizionato di cui lui aveva disperato bisogno e disperata paura, che non riusciva a concepire senza l'abbandono che aveva subito, terrorizzato dall'idea di non saper essere un padre perché non aveva un padre come punto di riferimento.

Lui stesso era stato il suo punto di riferimento per diciassette anni, prima che arrivasse lei con il suo carico d'amore a sconvolgergli l'esistenza. Aveva scoperto di essere un punto di riferimento traballante e fasullo, e non voleva essere per i suoi figli l'essere ermeticamente chiuso che era stato per anni.

Se per lei quell'amore era arrivato come una spiaggia assolata per una nave da giorni in balia di una furiosa tempesta, per lui era stato un uragano che aveva sconvolto i suoi punti fermi e lo aveva fatto vacillare sotto alle sue sicurezze, che gli si sgretolavano ai piedi mentre tentava disperatamente di mantenerle salde.

E poi le cose erano cambiate, lei lo aveva sentito nei suoi modi che si erano fatti più dolci, lo aveva sentito nel modo in cui lui aveva iniziato a comportarsi con gli altri. L'uragano era finito e lui si era ritrovato sbalzato in un mondo in cui le persone potevano amarsi, anche se erano lontane. E in quel mondo lui era a disagio, ma aveva cercato di abituarsi alla sensazione di essere amato.

E piano piano, aveva iniziato ad essere una parte attiva di quel mondo.

E allora erano iniziati i gesti che l'avevano scombussolata di emozione e commozione; lui che la invitava a dormire insieme a lui, lui che faceva l'amore con lei, lui che poi era perso come un bambino nella consapevolezza di provare tutto quello che aveva sempre disprezzato, e glielo confessava in sussurri appena percettibili che per i suoi sensi erano come grida d'amore.

Prima o poi, lei lo sapeva, sarebbe arrivato anche il grido che lei sentiva dentro di sé ogni volta che lui si accoccolava tra i suoi seni e la accarezzava.

E avrebbe aspettato, per lui.

Lasciò scivolare le dita della mano che lui non stava stringendo tra i suoi capelli, come per rassicurarlo; lo sentì risalire con una scia di baci fino alla sua bocca, che le sfiorò appena quando mormorò, "devi chiamare tuo padre..."

Era un sospiro così intriso di piacere che il suo cervello impiegò qualche secondo per registrare cosa lui le avesse detto; corrugò la fronte e mormorò con fare da gattina capricciosa, "oh, ancora un minuto..."

Lui sapeva che si sarebbe aggrappata a lui nel tentativo di convincerlo a rimanere lì con lei invece che alzarsi e iniziare la giornata. Sorrise mentre lei gli cingeva il collo con le braccia, mugolando piano; le accarezzò piano la schiena prima di mormorarle di nuovo, "non puoi rimandare ancora, saremo a Deling oggi pomeriggio..."

Ma lei sentiva già di averlo in pugno; gli accarezzava le gambe con le sue, scuotendo via l'ultimo torpore del sonno e richiamando l'attenzione dei suoi sensi su se stessa e sul corpo che sembrava avvolgerlo come spire. Spinse il bacino contro il suo, strusciandosi lenta mentre si sistemava comodamente tra le sue braccia; e poi in un mormorio mescolato a baci leggeri e sospiri, rispose, "stiamo qui ancora un po'..."

Ma lui non intendeva cedere. Era stata una sua idea andare a trovare i loro padri e voleva che se ne assumesse le responsabilità fino in fondo. Lei stessa lo aveva detto, sarebbe stato difficile e lei lo sapeva; implicava chiamarli prima di piombare in casa loro, implicava parlare con loro senza il supporto dell'altro, implicava affrontare i propri demoni da soli.

E lui voleva starle vicino mentre lei affrontava i suoi, per quanto quello che poteva fare fosse limitato al ricordarle cosa doveva fare.

Si sentiva già cadere nella sua rete di seduzione, dannazione, lei sapeva cosa fargli e come farlo. Eppure doveva resistere e strapparle una promessa, prima di darle quello che desideravano entrambi. Sapeva che era un altro dei modi di Rinoa di fargli capire che aveva bisogno di lui; ma proprio perché lei aveva bisogno di lui, voleva cedere solo dopo averla costretta, per il suo bene, a fare qualcosa che rimandava da giorni.

Affondò la testa tra i suoi capelli, tornando a rovesciarle baci sul collo, risalendo fino all'orecchio per dirle, "promettimi che lo chiamerai..."

"Squall..."

Si allontanò da lei per guardarla negli occhi, per vedere la ragazzina spaventata che aveva paura di fare il primo passo; sorridendo di tenerezza le accarezzò una guancia, mormorando, "io ci sarò comunque, Rinoa. Ma devi farlo..."

La osservò chiudere gli occhi, tirare un profondo sospiro; e poi vide scomparire la paura dal suo sguardo per essere sostituita dalla determinazione. Era forte la sua Rinoa, era forte forse più di lui. Semplicemente non lo sapeva. O voleva essere rassicurata. O riusciva a fare in modo, con i suoi sotterfugi e gli sguardi da seduttrice, che lui dicesse quello che lei voleva sentirsi dire. O forse era perché lui la amava e non poteva fare altro che intenerirsi davanti a lei, ed eccitarsi davanti a lei, e sciogliersi e tornare ad innamorarsi di lei sempre daccapo, sempre di più, sempre più a fondo.

Con un sorriso malizioso, lei lasciò scivolare le mani sul suo petto, inarcandosi leggermente sotto di lui, quanto bastava per permetterle di premere più forte il bacino contro il suo e sentirlo tremare contro il calore avvolgente in cui voleva accoglierlo. Lui riconobbe subito il luccichio che aveva negli occhi; mescolato all'espressione dolce e innocente che aveva assunto, sembrava renderla per lui solo più desiderabile e adorabile. "D'accordo," mormorò lei con voce suadente, "come vuoi...prometto che dopo lo chiamo..."

Lui sorrise, accarezzandola di nuovo; "e adesso vieni qui...", mormorò attirandola a sé, prima di lasciarsi cadere di nuovo nella sua rete.


Ah, i riti del mattino.

Coccolare Rinoa -a volte fare l'amore con lei, mentre fuori pioveva e il giorno invitava a prolungare la magia della notte; alzarsi, farsi una doccia calda, prendere un caffè bollente, leggere il giornale...e sempre con lei accanto.

Lei era entrata in ogni piccolo gesto della sua quotidianità; nella colazione, nel lavoro, nella cena, nei fine settimana trascorsi insieme davanti ad un film o con un libro o sotto le coperte, nelle serate con gli amici, nella gioia più tranquilla che potesse donargli. Era una presenza costante in grado di calmarlo quando era infuriato, di rilassarlo quando era teso per il lavoro, di prendersi cura di lui quando gli impegni gli prendevano troppo tempo. Era lei che aveva creato ogni singolo rito della loro vita, dai pasti da consumare insieme ai minuti che lei lo costringeva a prendersi per se stesso. Anche se voleva dire massacrare Grat nel centro addestramento.

E ora che era seduto al tavolo dell'albergo con la colazione davanti e il caffè da bere, voleva solo aspettare che lei tornasse dalla sua telefonata per celebrare il loro piccolo rito del giornale letto insieme. Come era cambiata la sua vita, in quegli anni; tutto quello che avrebbe disprezzato prima gli sembrava ora così naturale che non poteva essere in un altro modo...anche se si trattava solo di aspettarla per colazione. Era naturale essere insieme, naturale litigare e fare pace dopo cinque minuti, naturale amarla per come era anche se era completamente diversa da come la sua 'donna ideale' avrebbe dovuto essere. Rinoa non era metodica, non era ordinata, non era...incasellata. Era libera e felice, capace di gettarsi sotto la pioggia e trascinarci pure lui, spontanea e piena di vita, piena di gioia e d'amore, capace di piangere a dirotto per un tramonto o per una sua frase.

Rinoa era il suo opposto e forse era per questo che lui era così attirato da lei. Forse erano attirati l'uno dall'altra in una specie di legge d'amore che doveva somigliare molto alla legge di gravità. Lei era la luna, splendida signora della notte e delle stelle, luminosa e bianca, che si lasciava divorare dal buio solo per risplendere di nuovo, nella sua completezza.

E lui?

Cosa era lui? Era la notte che la accoglieva? Era il sole che la inondava di luce? Era la terra intorno a cui gravitava?

A lui non importava poi tanto. A nessuno importa che la luna brilli di luce riflessa; tutti la guardano e vedono la sua luce in grado di rigenerarsi ogni mese, tutti la guardano e non pensano al sole, quando la vedono maestosamente stagliata contro il velluto blu del cielo.

Vedono solo la Luna. La sua luce pallida e stupefacente che la rende centro di tanti miti e credenze degli uomini, la maestosità della sua corte di stelle.

Che c'è di più magico di un cielo notturno?

Rinoa era la luna; e quello che lui era, quando era con lei, contava ben poco.

Bastava che lei ci fosse.

La vide avvicinarsi, mentre si passava una mano nei lunghi capelli neri, con l'aria stanca e provata di chi ha appena terminato un lavoro al di là delle sue possibilità. La osservò con un sorriso mentre si sedeva accanto a lui e cercava subito il suo petto per abbandonarvisi contro; le cinse le spalle con un braccio, mentre lei si nascondeva contro di lui, e domandò, "allora...?"

Lei rimase in silenzio per qualche secondo, prima di alzare lentamente la testa e rispondere, "quando arriveremo noi lui non ci sarà, dovrà partire per Dollet e tornerà solo dopodomani. Noi dormiremo a casa sua, non sono riuscita a convincerlo a lasciarci dormire in albergo." Alzò gli occhi con un sospiro, sollevando una mano per scostargli una ciocca di capelli dagli occhi, "va bene, per te?"

Lui sorrise, accarezzandole il naso in un gesto di tenerezza, "se va bene a te, va bene anche per me..."

C'era qualcosa nel sorriso di Squall che sapeva sempre scioglierla. Cominciava a pensare che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa e poi sorriderle e lei gli avrebbe perdonato tutto; sentendosi più tranquilla, affondò di nuovo il viso contro la sua giacca di pelle e mormorò, "credo sarà più dura del previsto..."

L'aveva detto così sommessamente che lui faticò a sentire; e per l'ennesima volta si ritrovò a chiedersi cosa fosse successo tra Rinoa e suo padre per farle concepire un disprezzo celato a fatica e un fastidio che non sconfinava in odio anche se si avvicinava molto a quel sentimento. Lui non aveva mai chiesto, così come lei, quando lui e Laguna avevano avuto la loro chiacchierata, non lo aveva mai incoraggiato o rimproverato. Lo aveva semplicemente aiutato a capire se stesso e a perdonare almeno Ellione con la sua confortante presenza silenziosa.

Le accarezzò la testa per qualche momento, incerto se chiedere o meno, insicuro su quale aiuto avrebbe potuto trarne lei parlandone, indeciso su cosa fare; lei sembrava tranquilla, aveva allungato una mano a prendere un po' di succo di frutta che beveva ancora appoggiata a lui, con aria pensierosa; la osservò posare il bicchiere, fermarsi a guardarlo un attimo e aprire la bocca come per dire qualcosa, prima di chiudere gli occhi scuotendo appena la testa. Lei tornò a rifugiarsi contro di lui; e lui con un sorriso complice e un abbraccio stretto le mormorò tra i capelli, "c'è qualcosa che vuoi dirmi?"

"Sì...", mormorò lei, senza aggiungere altro. Lui comprese che aveva bisogno che le venisse chiesto, come se avesse paura di non essere ascoltata, di pesare troppo su di lui; e stringendola un poco di più, posandole un bacio sulla testa, domandò, "che è successo con tuo padre, Rinoa?"

Lei rimase in silenzio alcuni istanti, prima di tirare un grosso sospiro e rispondere, "il giorno in cui mia madre morì, avevo sentito una loro discussione nello studio di mio padre. Non capii di cosa si trattasse, ero troppo piccola; ma poi sentii mia madre uscire con la macchina. Ed ebbe l'incidente..."

Lui rimase in attesa, limitandosi a darle il suo supporto silenzioso, fatto di strette e baci leggeri sui capelli. Dopo qualche secondo di silenzio, lei continuò, "da quel giorno mio padre non fu più lo stesso. Si rinchiudeva nel suo studio la mattina presto e ne usciva la sera tardi...io non lo vedevo praticamente mai, passavo il mio tempo con la donna che assunse per prendersi cura di me. Passarono dieci anni a questo modo..."

Un nodo in gola le impedì di continuare; prima che lui avesse il tempo di dire o fare qualcosa, lei afferrò di nuovo il bicchiere del succo di frutta e ne trangugiò il contenuto tutto d'un fiato. Poi disse di nuovo, con voce ferma, "poco dopo il mio quindicesimo compleanno, mio padre partì per un viaggio, lasciandomi a casa con Elinor. Io decisi che volevo sapere cosa era successo, e aspettai che lei s'addormentasse per prendere la chiave dello studio dalla stanza dei miei genitori ed entrare. Trovai dei documenti..."

Un altro groppo alla gola; lui la strinse più forte, riempiendole il bicchiere con la mano libera nel caso avesse sentito di nuovo il bisogno di tranquillizzarsi bevendo.

Lo scroscio della pioggia, fuori, fu l'unico rumore che si sentiva nella stanza; fino a quando Rinoa, trovando ancora un po' di coraggio e inghiottendo il nodo che le serrava la gola, continuò, "trovai dei documenti. Non capivo molto il linguaggio militare, ma capii chiaramente che mio padre era a capo delle truppe che erano a Timber il giorno del massacro. Capii anche che lui divenne colonnello proprio grazie a quello che successe quel giorno. Teneva queste carte nascoste, forse si vergognava di quello che era successo o di quello che aveva ottenuto...io non lo so, insomma...era tutto così improvviso che mi sentii girare la testa e credo di essere svenuta per un po' di tempo, perché non ricordo nulla...ricordo solo che quando mi svegliai controllai di nuovo, e mi accorsi di non essermi sbagliata...mio padre era a capo di quel massacro, capisci?"

Squall non disse nulla, si limitò a stringerla un po' più forte, appoggiandole la testa contro la sua in un silenzioso conforto che non trovava parole. Lei si lasciò coccolare da quell'abbraccio caldo e consolante prima di terminare, "trovai anche una fotografia; mia madre, accanto ai padri di Zone e Watts, erano compagni di scuola...per questo quel giorno discussero. Mia madre aveva scoperto quelle cose -mia madre aveva scoperto che era stato mio padre ad ordinare che i suoi migliori amici fossero uccisi. Io...io non riesco nemmeno ad immaginare cosa possa aver provato mia madre quel giorno, quando scoprì che la sua città, tutto quello in cui aveva vissuto, tutto...tutto quello che era stata prima di arrivare a Deling City era stato distrutto da lui -lui che l'aveva consolata...non riuscii a rimanere in quel posto un minuto di più. Presi tutto quello che potevo prendere di mio, scappai e arrivai a Timber. Sapevo già a chi rivolgermi, e così arrivai da Zone e Watts. E poi, lo sai..."

"Sì," mormorò lui, anche se non serviva; era più un modo di rassicurarla, di farle capire che non c'era più bisogno che dicesse altro -che bastava così; che tutto quello che poteva servire a lei dire era bene accetto, ma tutto il resto era solo un superfluo corollario della loro intimità di parole.

Fuori pioveva e lei osservava, dal suo rifugio contro il petto di lui, cullata dal battito che la accompagnava in ogni istante della sua vita, l'acqua che il cielo rovesciava sulla terra; affascinata dai luccichii sparsi che brillavano ancora di più contro il grigio che faceva da sfondo a Timber, quel giorno. Eppure tutto sembrava vivo, tutto sembrava pulsante e vibrante, non c'era nulla di diverso rispetto al giorno prima se non i colori, quei colori intensi e vividi che sua madre aveva alimentato con i racconti, che i suoi poteri avevano dipinto con la fantasia, che i suoi occhi avevano finalmente visto.

Era l'unica cosa che riuscisse a strapparle un sorriso, quella mattina, quel contrasto così vissuto che a lei pareva così naturale.

Alzò gli occhi su Squall, osservandolo mentre beveva il suo caffè stringendola piano, con l'aria pensierosa che aveva sempre quando cercava qualcosa che potesse farla sentire amata e protetta; non riusciva a credere, semplicemente, di essere tutto quello di cui lei aveva bisogno quando era scossa, spaventata, triste. Se lui era con lei, non c'era motivo di volere altro. Non c'era bisogno di altro. Con il sorriso che le si allargava sul volto, si alzò prendendogli una mano e sussurrando, "vieni con me..."

Lui si lasciò guidare senza protestare, ancora stava pensando a come confortarla; gli sembrava sempre di fare troppo poco e quando si trattava di Rinoa diventava frustrante stare semplicemente a guardare. Gli ricordava troppo la sensazione di pura impotenza che aveva sentito fin dentro le ossa quando lei era stata stesa immobile e fredda nell'infermeria. Era diventato quasi folle di disperazione, allora, alla ricerca del più piccolo spiraglio di speranza; e non voleva più quella lucida, razionale pazzia che lo aveva condotto lungo un ponte al tramonto, a parlare da solo alla sua principessa dormiente.

Si accorse troppo tardi che lo stava trascinando fuori, sotto la pioggia scrosciante; ebbe il tempo di fermarsi appena un attimo prima di finire sotto il getto poco gradito, e rimase ad osservare lei che gli lasciava la mano e si infilava sotto la sua doccia naturale, con la travolgente risata che aveva sentito per la prima volta il giorno prima. Unica, cristallina e che sapeva di vita fin nella sua nota più acuta, così intensa da spezzare quel poco di ghiaccio che in lui poteva essere rimasto, come il cristallo che si infrange alla potenza del canto più sublime.

Lui non poteva resisterle.

Mentre la guardava così, che volteggiava ridendo a braccia aperte come se stesse accogliendo la pioggia, non poteva fare a meno di pensare che lui non avrebbe potuto resisterle mai. Qualsiasi cosa lui potesse desiderare, lei sapeva esserlo, rendendosi capace della seduzione più sottile e di quella più smaccata; qualsiasi parola lui cercasse per descrivere come lei fosse, non era abbastanza perché lei non era solo quello, era anche il suo contrario -lei era tutto, non c'era nulla che non avesse, nulla che potesse allontanarlo da lei, nulla che lui non amasse ferocemente, nulla che non fosse, per lui, come un terremoto che lo scuoteva violentemente fin dentro l'anima.

Lei ballava sotto la pioggia, rideva come una bambina e si lasciava appiccicare i vestiti umidi sulla pelle delle sue forme di donna, riaccendendo a poco a poco le fiamme mai sopite del suo desiderio per lei, attirandolo nella sua rete fino a farlo impazzire, e si trovava sotto lo scroscio, anche lui, a stringere quel corpo mal nascosto dal sottile tessuto di abiti estivi pregni d'acqua, pregni del suo profumo, pregni di quella viva sensualità che lui vedeva in ogni centimetro di lei.

La sentiva tremare, contro il suo petto, il suo seno che vibrava di un singhiozzo che moriva sulla sua lingua, che lui beveva avidamente e che gli sembrava non potesse stare altrove se non nella sua bocca, come se solo dentro di lui potesse stare il suo pianto, solo contro di lui quel tremore appena accennato e per lui così evidente; mescolava tenerezza e desiderio e lui non voleva fare altro che prenderla per mano, rientrare nella loro camera, gettarla sul letto e riempirla di sé, rivedere di nuovo l'espressione conturbante che le si dipingeva in viso quando, tremante di piacere, si stringeva convulsamente a lui eccitandolo ogni volta come fosse la prima.

Sapeva di...di libertà.

Era sicuro che se mai avesse avuto un sapore, la libertà, probabilmente non sarebbe stato per nulla diverso dal sapore di Rinoa, quella dolcezza che non sapeva paragonare a nulla di conosciuto, quella dolcezza che per quanto cercasse di accomunare a qualcosa, poteva avvicinare solo a Rinoa. Lei non sapeva di panna, non sapeva di fragole, non aveva la dolcezza stomachevole dei frutti troppo maturi colti quando oramai era passato il loro tempo; lei sapeva di se stessa, sapeva di libertà, di spontaneità, di sole e vento, di acqua e neve, di grandine e paura di temporali, lei sapeva d'amore e desiderio, lei sapeva di voluttà e lussuria, lei sapeva di loro.

Amava baciarla proprio per quello. Per quel sapore intensamente loro, introvabile altrove se non nelle loro bocche dischiuse e unite, che gli succhiava via l'anima e la fondeva a quella di lei. Amava lasciar scivolare le labbra su quella pelle bianca per ritrovare in ogni centimetro di lei se stesso, quell'appartenenza unica e irripetibile, che sapeva lei ritrovava sulla sua pelle, impadronendosi di lui nello stesso momento in cui si lasciava possedere.

Amava baciarla per quella sua capacità di commuoverlo facendogli tremare le ginocchia.

Che cosa poteva mai esserci al mondo che lui non avrebbe fatto per lei, per loro, per tutto quello che gli era stato donato e che gli aveva permesso di donare?

Nulla.

Nulla, nulla, nulla, perché in quell'amore non esistevano rinunce, solo amore, solo conquiste, vissute in quel noi così caldo e intimo, così avulso da tutto il resto eppure così radicato in quel mondo, e nulla gli sembrava potesse anche solo essere messo sullo stesso piano dello stare con lei.

Stare con lei...avere una casa a cui tornare la sera dopo il lavoro, avere lei che gli andava incontro e lo accoglieva nel loro nido, avere Angelo che gli faceva le feste scodinzolante e i loro bambini, magari due o tre, che giocavano e ridevano e riempivano la casa come solo i bambini sanno fare.

E per l'ennesima volta si ritrovò a pensare, non al Garden.

Non al Garden, dove rischiava di non tornare ogni volta che ne usciva, non al Garden, le cui stanze grigie e bianche non gli trasmettevano nemmeno un grammo del calore che sentiva addosso pensando al loro nido, non al Garden dove non c'era posto per bambini e non al Garden dove non potevano creare la loro casa, che riflettesse quello che loro erano, come individui e come coppia.

Non al Garden dove dovevano attenersi a regole spesso ingiuste e immotivate.

Non al Garden.

Preferiva Timber, una casetta non troppo in centro, un bel camino acceso nelle sere fredde d'inverno, quando si sarebbe rilassato davanti ad un film insieme a Rinoa, scaldandosi di quelle fiamme e dei loro respiri; magari un lavoro a Timber Maniacs, magari Rinoa poteva trovare qualcosa che le piacesse più che insegnare Storia della magia al Garden, e Angelo avrebbe avuto un bel giardino in cui rotolarsi felice d'estate, e magari potevano ospitare i loro amici nelle sere più calde...

...e poi avrebbero avuto la loro camera da letto, in cui trascorrere i lunghi pomeriggi piovosi dei loro giorni di vacanza, in un letto che sarebbe stato solo loro e che non aveva visto, prima di loro, altri corpi di mercenari spazzati via dal vento delle battaglie.

Solo loro. Qualcosa che fosse completamente loro, creato da loro, sistemato da loro, voluto e desiderato da loro soltanto.

Rinoa non sapeva nulla di quelle fantasie. Ancora doveva dirglielo ma ancora non poteva dirglielo, perché doveva prima pensare a come tutto doveva essere organizzato e sistemato, voleva essere sicuro di avere un lavoro altrove prima di lasciare il Garden, perché voleva darle qualsiasi cosa lei volesse per la loro vita insieme. Tutto quello che contribuiva a rendere una casa il loro nido d'amore, era tutto quello che lui considerava necessario.

Un'idea lo folgorò all'improvviso, in una breve pausa in cui le labbra di Rinoa non erano premute contro le sue a succhiargli via il lume della ragione; si separò da lei lentamente, perché non voleva farlo e l'acqua e l'aria erano così fredde, e lei invece così calda e accogliente...la strinse a sé ancora, vedendola tremare un po' per il freddo che investiva anche lei e un po' per le lacrime che aveva annegato nella passione di quel lungo bacio alla pioggia; e poi le sussurrò, "ho qualcosa di importante da fare..."

Lei annuì, senza dire altro che un lungo mugolio insoddisfatto; sapeva bene che quando lui diceva di aver qualcosa da fare, significava anche che lei non poteva accompagnarlo o sapere cosa lui stesse facendo o dove dovesse andare. E aveva bisogno del suo sostegno, in quel momento, in cui sentiva suo padre ancora più lontano e ogni casa festante di Timber le faceva sentire ancora più a fondo il suo tradimento verso quella madre così disperatamente amata e cercata in tutti i lunghi e solitari anni della sua infanzia.

"Non ci metterò molto...", cercò di continuare lui tra i baci di cui non sapeva fare a meno, acceso di quel desiderio sensuale e tenero che lei sola sapeva instillare in lui; "tu intanto fatti una doccia calda, mmmmh? Io torno appena possibile..."

"Squall...", mormorò lei, con una nota di preoccupazione nella voce tremolante; ma lui la interruppe prima che lei potesse continuare, "Rinoa, non ci metterò molto, davvero. Sentimi bene...torni in camera, e mi aspetti in un bel bagno caldo...e io torno da te il prima possibile."

Lei ancora sembrava incerta, come se ci fosse qualcosa che voleva dire ma che non riusciva a dire apertamente; e poi mugolò ancora, con il viso nascosto contro il suo petto e le braccia strette intorno a lui, "non puoi farlo dopo...?"

Un sospiro, chiaro segnale che lui voleva accontentarla, che quel bagno caldo era da fare insieme e non mentre lei era sola e lui per strada in balia delle intemperie; e chiaro segnale, anche, che per quanto volesse non poteva accontentarla. "Devo per forza farlo ora...cerca di capire, mmmh? Anche a me piacerebbe stare ammollo nell'acqua calda con te...ma devo fare una cosa importante, per noi."

Di nuovo. Noi. Squall non si accorgeva nemmeno del potere che alcune parole assumevano quando rotolavano sulla sua lingua e le regalavano calde emozioni d'amore. Noi, il nostro futuro...e il pensiero che lui stesse facendo qualcosa per loro, per tutto quello che avevano costruito in passato e perché il presente fosse un cemento solido abbastanza per ciò che avrebbero costruito in futuro. Si fidava di lui, e sapeva benissimo che qualunque cosa lui stesse facendo in quel periodo, per quanto lo rabbuiasse, a volte, lei l'avrebbe saputo solo quando sarebbe stato il momento giusto. Eppure...

...eppure aveva bisogno di lui, in quel momento, come mai era stato, aveva bisogno di aggrapparsi alla sua forza e alla sua capacità di stare tranquillo e di calmare anche lei, prima di affrontare anche solo la dimora dell'uomo che aveva evitato per anni. Quanti anni erano già passati? Sette, forse quasi otto...se n'era andata a quindici anni e ora ne aveva ventidue, e per tutti i suoi compleanni aveva ricevuto un regalo costoso che l'aveva lasciata indifferente, tanti inviti ad andarlo a trovare regolarmente caduti nel vuoto, tanti contatti che aveva rifiutato...e le sembrava così tanto quello che aveva respinto, che non sentiva nemmeno di meritare quella possibilità che l'uomo stanco che era divenuto Caraway nel tempo aveva deciso di concederle.

Aveva bisogno di Squall, ora più che mai, più che nei giorni resi tristi da quei regali vuoti, da quegli inviti ignorati, da quei contatti che le avevano lasciato un segno dentro anche se non aveva il coraggio di ammetterlo. E non voleva affrontare quei demoni da sola, i sensi di colpa laceranti che la assalivano quando il pacco, il biglietto, la cornetta del telefono cadevano con un tonfo sordo sulla sua indifferenza.

Aveva bisogno di lui...e lui le consigliava un bagno caldo -richiesta a cui comunque avrebbe acconsentito più che volentieri...mentre lui se ne andava a fare chissà cosa, per loro.

Per loro: era in loro che avrebbe trovato la forza? In quel noi così già perfettamente formato, eppure ancora bisognoso di tutta la protezione possibile?

Lo lasciò andare titubante, con un bacio leggero sulla fronte, come a significare che si fidava di lui ma che aveva bisogno di lui...forse, era solo da quel bisogno lacerante e completo che sentiva dentro che nasceva quella smisurata fiducia in lui, nelle sue parole portentose, nella sua tranquillità calmante.

"Ti aspetto, mmmh?"

Lui sorrise, recependo il messaggio segreto di quell'attendere che lei gli voleva trasmettere. Aveva bisogno di lui, e per quanto cercasse di nasconderlo, la cosa lo inteneriva come niente altro. Il fatto che Rinoa lo amasse, anche se non ne capiva i motivi, riusciva a tranquillizzarlo; la sua presenza bastava a lenire ogni sua ferita; ma il sapere che anche lei, in qualche modo, sentiva la necessità di averlo accanto come accadeva a lui, era qualcosa che gli sprigionava dentro sensazioni primordiali di protezione, di amore, come se amarla fosse naturale, giusto, quasi necessario.

E per lui era necessario; per lui era visceralmente indispensabile amarla, starle accanto, fare l'amore con lei, dormire con lei, trascorrere tutta la sua vita con lei.

Si chinò per un bacio leggero sulle labbra, l'ultimo prima di gettarsi nella pioggia e fare quello che sentiva di voler fare, per loro; di tutte le poche scelte che ricordava di aver fatto, sentiva che mai erano state più volute da lui come quelle che aveva fatto per lei. E mai erano state più volute di quella scelta al sapore di ignoto, dolce e quasi struggente nella sua potenza di un progetto per un futuro da vivere insieme; nulla era più voluto di quel suo bisogno di casa, di rifugio, del nido che insieme avrebbero costruito, sistemato, in cui avrebbero cresciuto i loro figli -Hyne, era davvero lui la stessa persona che solo pochi giorni prima aveva fatto finta di non sentire la parola 'figli' quando a lei era sfuggita?

Ora era lui stesso a vedersi circondato di bambini e di lei, e riusciva solo a sorridere all'idea.

Scuotendo leggermente la testa, con un sorriso complice che lasciava Rinoa un po' perplessa, si allontanò sotto la pioggia, voltandosi ogni tanto a guardarla, verso il futuro che vedeva così nitido nella foschia del mattino piovoso.


Gli era stata appiccicata tutto il giorno, eppure sembrava non bastarle mai.

Quando lui era tornato da quella sua personale missione, complice il temporale che s'era fatto più violento e rumoroso, si era lasciata stringere e coccolare, mentre l'acqua calda del bagno che aveva preparato per loro li cullava dolcemente. Quando poi era stato il momento di uscire dalla vasca, lo aveva costretto a stendersi sul letto con la scusa che avrebbe preso un malanno, e gli si era stretta forte sotto le coperte, con lo stomaco troppo chiuso per ingoiare anche un solo boccone del pranzo che era arrivato nella loro stanza, offerto dalla figlia del gestore in memoria dei vecchi tempi.

E ora che il treno iniziava la sua corsa e lasciava Timber, milioni di farfalle le svolazzavano nello stomaco, rendendola incapace di stare ferma e lontana da lui. Non riusciva a tranquillizzarla nemmeno il fatto che prima di arrivare a Deling, avrebbero dovuto aspettare una coincidenza, e poi Caraway non sarebbe arrivato fino al giorno dopo...ma lei era agitata, era spaventata, era impaurita e non sapeva da che parte iniziare anche solo a pensare a cosa avrebbe detto.

Già, come avrebbe iniziato? Spiegandogli come quella fosse una sua egoistica idea per avere una famiglia nel vero senso della parola? Per avere dei nonni per i suoi figli, che li avrebbero viziati e coccolati? Per poter pensare che finalmente fosse davvero tutto come doveva essere, lei e Squall insieme, con il loro posto speciale, con i loro bambini, con i loro genitori ritrovati?

O forse doveva iniziare spiegandogli perché se ne era andata, allora, fuggendo in lacrime da quella casa in cui era cresciuta sola e piena di dubbi e domande sul perché? Perché sua madre fosse morta, perché suo padre fosse distante, perché l'unica compagnia che le veniva concessa fosse quella di una donna oramai anziana e lontana da lei?

O meglio, poteva iniziare spiegando come si era sentita ogni volta che aveva rifiutato un regalo, un invito, per poi annegare la colpa nella compagnia e nell'amore di Squall -un uomo, tra l'altro, di cui suo padre non aveva una grande opinione e a cui l'aveva affidata solo perché costretto?

Riaprì gli occhi, osservando la pioggia che batteva incessante contro il finestrino; si strinse un po' di più nel suo maglione caldo, e poi si voltò con un sorriso quando Squall si chinò ad appoggiare la testa contro la sua, "non è meglio se dormi un po', Rinoa? Stanotte sei rimasta sveglia, lo so..."

Ecco, lo sapeva. Non era riuscita nemmeno a rimanere ferma contro il suo petto, la notte precedente, per quanto ascoltare il battito del suo cuore fosse qualcosa che adorava fare. Aveva continuato a muoversi, inquieta ed incerta, ma sempre attenta a non svegliarlo; ma lui in qualche modo se ne era accorto. Iniziava a chiedersi se Squall non avesse una sorta di sesto senso; riusciva a capirla più di quanto lei capisse se stessa e la cosa che più amava, in lui, era il suo personalissimo modo di rispettarla -lasciandola sveglia a rimuginare se era agitata, lasciandola dormire troppo se era triste e non le andava di fare altro, spronandola quando era più attiva e coinvolta. E sempre con il suo sorriso dolce dipinto sul volto.

Lui in fin dei conti sapeva benissimo che ciò che Rinoa faceva aveva un senso, anche se a lui era sconosciuto ed oscuro e anche se nessuno poteva capirlo se non Rinoa. E le lasciava lo spazio che lei cercava, così come lei c'era quando lui aveva bisogno di averla accanto, comparendo al suo fianco proprio quando la stanchezza iniziava a prendere il sopravvento o quando era al limite della sopportazione.

"Non riesco a calmarmi, io..." Cercò le parole per qualche secondo, senza trovarle; e poi, frustrata, si gettò contro il suo petto in singhiozzi sommessi eppure perfettamente distinti. Lui la lasciò piangere, forse era l'unico modo per calmarsi, per lei; gli sembrava qualcosa di perfettamente naturale, nonostante si sentisse spesso inadatto a consolarla e confortarla. Gli ricordava quella prima volta in cui era crollata in lacrime contro il suo petto, poco dopo la festa, quando l'aveva riaccompagnata alla sua stanza e all'improvviso lei aveva ceduto sotto il peso di tutte quelle emozioni, piangendogli addosso tutta la tensione da cui era stata avvolta in quelle ore di battaglia e ansia. E anche allora, per quanto si sentisse incapace e fuori posto, tutto era stato così perfettamente naturale -abbracciarla, stringerla a sé, entrare nella sua camera perché il suo sfogo divenisse privato, accarezzarle la testa e riservarle l'affetto che le aveva negato fino a quel momento.

Lentamente l'ondata di emozioni rifluì e finalmente Rinoa alzò gli occhi su di lui e riuscì a trovare un filo di voce per dire, "scusami, sono solo...così agitata..."

Lui le sorrise la sua comprensione, attirandola di nuovo a sé per appoggiare la testa su quella di lei; e poi rispose, in un sussurro, "non devi scusarti di nulla...ora è inutile che ci pensi. Non ne verresti a capo, sei troppo stanca, mmmmh? Adesso prova a dormire un po'...vedrai che poi andrà tutto bene."

Era ancora poco convinta che le bastasse dormire perché tutto andasse a posto -Hyne, aveva perfino paura di chiudere gli occhi; ma l'abbraccio di Squall era così confortante, i vestiti così caldi in contrasto con la temperatura fredda della giornata di pioggia, il viaggio che li attendeva così lungo, e la stanchezza così tanta...le sembrava che tutta la gioia e fibrillazione del giorno prima le cadessero addosso d'un colpo, rendendola incapace di rendersi conto di qualsiasi cosa che non fosse l'affettuosità di Squall.

Mentre aspettava che il sonno arrivasse a ristorarle il corpo e la mente, si trovò a ricordare quando ogni piccolo gesto d'affetto di Squall le era sembrato strano, e a sorridere di quello stupore che pian piano si era stemperato nell'abitudine e nella dolcezza. Lui poteva sembrare freddo, rigido e composto, ma quando le porte delle loro stanze si chiudevano e occhi indiscreti erano abbastanza lontani, diventava ciò che era in fondo all'anima: affettuoso, tenero, comprensivo, capace di un amore travolgente e sconvolgente che l'aveva reso di ghiaccio per anni e l'aveva riportato alla vita in quei mesi con lei accanto. Ricordava ogni singolo passo verso quella tranquillità in cui si sentiva così a suo agio; ricordava il bacio sul balcone, l'abbraccio così pieno di bisogno davanti alla sua porta, il suo pianto dirotto e il suo conforto sereno, e poi il tenersi per mano camminando per il Garden, le serate trascorse nelle loro camere dimentichi del mondo esterno, tutto così precipitosamente che le sembrava un film a scorrimento veloce che passava davanti ai suoi occhi, solo per rallentare quando arrivava a quella sera ad Esthar, alla festa organizzata per loro da Laguna quando le acque si erano calmate e il mondo sembrava essere tornato alla normalità.

Quella sera in cui Squall era fuggito camminando spedito e con i pugni serrati, una maschera di durezza sul volto che lei aveva imparato a conoscere sorridente e impregnato d'amore. Quella sera in cui lei lo aveva rincorso, trovandolo a trattenere lacrime di frustrazione e rabbia e dolore sulla terrazza del palazzo; quella sera in cui lui, per la prima volta, si era spogliato delle inibizioni che avevano offuscato la sua passionalità fino ad allora per chiederle, fai l'amore con me.

Formulato come un ordine, ma gentile, semplice e incerto quanto la richiesta di qualcosa di importante, che non si sente di meritare e che tuttavia si desidera così tanto. Non aveva usato giri di parole, non aveva nemmeno cercato di evitarle preferendo comportamenti in cui lei si sarebbe trovata incastrata e incapace di voltarsi indietro; con tutta la sua tenerezza e quasi ingenuità, aveva scelto la frase più diretta e sincera, sussurrata al suo orecchio in un respiro caldo e affrettato, stillante amore e desiderio in ogni sillaba: fai l'amore con me.

Le era sembrata una prova così profonda e lacerante del suo bisogno di lei che non aveva potuto non sorridere un po' di commozione e lasciarsi andare a quello che da mesi sembrava essere nell'aria, intorno a loro, quando la loro pelle si sfiorava e tutto sembrava sbiadire al di là dei loro contorni. Era stato tutto quello che aveva pensato che potesse essere, e forse anche di più; nell'amore, nella passione, nella voluttuosa sensualità di Squall che diveniva insieme dolce e selvaggio mentre scorreva accanto a lei, su di lei, dentro di lei, nella difficoltà e nell'inesperienza, nell'imbarazzo che si scioglieva al sole del desiderio, sentiva che c'erano loro, un essere indissolubile fatto di entrambi che non poteva più essere scisso. Erano insieme, vivi, liberi, felici, si bastavano l'un l'altro e in quel letto riempito di seta colorata, con l'aria che entrava dalla finestra e la luce della luna che rischiarava qualche angolo della loro alcova, aveva trovato l'unico posto in cui poteva sentire di essere arrivata finalmente a casa.

Casa, una parola così usurata, che si era abituata a riferire al Garden durante la guerra e che poi si era trovata ad associare alla loro stanza; e che poi aveva associato a quella sera, quando 'casa' aveva smesso di essere un posto per diventare quello che erano stati loro quella sera -quello che erano ogni volta che il mondo spariva ed esistevano solo loro. E allora ogni gesto di Squall aveva smesso di sembrarle strano, solo spontaneo ed atteso e finalmente arrivato a rinfrescare la sua vita, accompagnato da parole che sulle sue labbra erano così magiche, calde e piene che lei non poteva non piangere ogni volta, invasa da una gioia così sconvolgente e rassicurante. E che mai avrebbe pensato sarebbe arrivata da quel ragazzo scontroso e francamente insopportabile con cui si era vista costretta a convivere all'inizio.

Lo stesso ragazzo che ora era l'unico a darle conforto.

Lo stesso ragazzo che ora intuiva le sue inquietudini e le rispettava come era capace di fare, come lei amava e ammirava.

Lo stesso ragazzo di cui ora aveva quel disperato bisogno che non le permetteva di stargli lontano.

Ma era davvero lo stesso ragazzo? Non avevano forse percorso una strada lunghissima, non avevano forse compiuto insieme un cammino doloroso eppure necessario, che li aveva trasformati, avvicinati, fatti innamorare?

Alzando gli occhi su di lui, che la guardava con il solito sguardo tenero e comprensivo, macchiato di desiderio quando si spostava dai suoi occhi alle sue labbra, si ritrovò a pensare che non importava. Squall era Squall, non era più questione di ciò che era stato e che avrebbe potuto essere, era solo questione del futuro che tratteggiavano della loro volontà, dei giorni che li aspettavano e su cui avrebbero lasciato la loro impronta indelebile, vivendoli fino in fondo, fino alla fine. No, non importava più quanto fossero cambiati in quegli anni, non importavano nemmeno più quei pochi mesi che li avevano così radicalmente segnati.

Non importava più nulla se non la loro volontà di stare insieme, di vivere la loro vita come loro avrebbero deciso.

Mentre vedeva il viso di lui avvicinarsi al suo, mentre sentiva la mano che le sollevava il mento e il respiro che si confondeva con il suo, capì, finalmente.

Era quella la sua forza.

Ed era per quello che ce l'avrebbe fatta.


La stanza era esattamente come la ricordava: rosa e bordeaux, il grande letto a baldacchino nel mezzo, le tende pesanti alla porta-finestra che conduceva sul grande balcone di marmo bianco, il cielo che incontrava il mare là in lontananza, e il giardino delle rose lì sotto, a portata di mano, poteva quasi toccare con le dita i fiori purpurei che sua madre amava tanto.

Sentì a malapena il rumore della valige posate a terra da Squall, dietro di lei, immersa com'era nei ricordi di una vita che non sembrava nemmeno sua, che non sembrava nemmeno vissuta se non in sporadici sogni che le lasciavano in bocca il sapore amaro di un mondo perduto; ricordava il volto di sua madre solo perché ne aveva vista una fotografia che non le permetteva di dimenticarlo, ricordava i suoi racconti ma anche il suono della sua voce andava perdendosi, ricordava la sua risata solo perché la ritrovava in se stessa; ritrovava ricordi sparsi tra gli oggetti di quella camera, ma non riusciva più a sentirli come suoi.

Aveva amato sua madre con tutto l'amore lacerante di cui è capace un bambino che non conosce altro se non una madre che gli sta accanto tutto il giorno e un padre che si prende cura di lui quando torna dal lavoro; aveva amato i suoi genitori con la cocente passione del bambino che sente di amare e non capisce il motivo, non sa spiegare il perché e se lo domandi risponde solo 'perché sì'. E ora non ne ricordava più il volto, il timbro della voce, il suono della risata, il sapore delle lacrime, il fruscio dei vestiti...tutto ciò che poteva essere fisico, in sua madre, si era perduto tra le pieghe del tempo che le occultavano i ricordi di una vita durata solo cinque anni, interrotta dal fragore di lamiere accattorciate e dalle urla di chi si spegneva tra loro.

E si sentiva così in colpa, per tutto quello; perché per quanto ricordasse alla perfezione i racconti, gli insegnamenti, tutto quanto si riferisse allo spirito di sua madre, aveva dimenticato il volto sorridente che li accompagnava.

Chiuse gli occhi, investita all'improvviso dal profumo delle rose e dell'acqua di mare, che entrava dalla finestra trasportata da un vento leggero, gonfiava le tende e le scompigliava i capelli. Così lontana da tutto e tutti, sussultò quando lui le si avvicinò per abbracciarla da dietro; le sembrò in quel momento che il suo profumo fosse naturale quanto quello che proveniva da fuori, anche se sapeva bene che era un dopobarba -anche se era un aroma artificiale; le pareva comunque che Squall non potesse avere nessun altro profumo, che non quella fragranza muschiata che la avvolgeva quando lui la abbracciava e che avrebbe riconosciuto tra mille, anche mescolata alla salsedine e al profumo intenso delle rose rampicanti sul loro balcone.

"Sai, quando mio padre stava via per la notte, come oggi," iniziò lei, senza nemmeno rendersi conto di cosa stesse dicendo, "io e mia madre dormivamo in questa stanza. Fu...una sorta di regalo di mio padre a noi due quando nacqui io. E' per questo che è rosa e bordeaux; rosa per me, e bordeaux per la mamma, era il suo colore preferito..." Riaprì gli occhi, posando lo sguardo sul mobilio della stanza, che era rimasto invariato negli anni e finalmente liberato della polvere che lo aveva probabilmente ricoperto; e poi allungando una mano ad indicare ora un comodino, ora un secretaire, continuò, "lì mettevamo i nostri vestiti speciali, quelli che usavamo solo quando venivamo qui... e lì," spostò la mano verso il piccolo tavolino ornato di tanti piccoli contenitori, "lì si sedeva mia madre a spazzolarsi i capelli e farsi bella, come diceva lei. Io non capivo perché lo facesse, ai miei occhi era così bella...solo quando ho incontrato te ho capito il perché...", terminò arrossendo.

Lui le strofinò il naso contro il collo con un sorriso; e poi lei spostò di nuovo l'indice dei suoi ricordi verso una mensola, "là invece stavano tutti i miei libri di fiabe. Mia madre accendeva ogni sera le candele profumate, forse erano alla lavanda...si pettinava osservandosi a quello specchio, e io intanto sceglievo quello che volevo tra i libri che lei aveva sparso sul letto. Poi lei mi leggeva quel libro, tutto, fino alla fine, anche se io mi addormentavo...mi teneva contro il seno e leggeva, lentamente, io ero quasi più affascinata dalla sua voce che dalle immagini sulla carta..."

Chiuse gli occhi ancora, richiamando alla memoria le immagini sbiadite di quelle serate così care, per lei; e poi continuò, "e poi al mattino arrivava mio padre, e veniva a svegliarci...e ci trovava sempre abbracciate e con il libro ancora aperto sul letto; e mi regalava sempre una formina di cera..."

"E' molto dolce," la interruppe Squall, conscio dello sforzo che lei stava facendo per ricordare -i Guardian Forces avevano iniziato a mangiarsi anche la sua memoria e sapeva anche quanto la ferisse perdere ciò che le restava di sua madre, ciò a cui si aggrappava nei momenti di sconforto o quando litigavano e non poteva rifugiarsi da lui come faceva sempre.

"Sì, sì, è molto dolce...è molto dolce..." sussurrò lei in maniera appena percettibile, sciogliendosi dal suo abbraccio per avvicinarsi al secretaire e accarezzare i cassettini chiusi pieni dei loro segreti, per poi accarezzare i ninnoli sul tavolo, i libri sulla mensola, e poi voltarsi all'improvviso, attratta da un luccichio proveniente da sotto il letto; sembrava una grossa cassa -quasi uno scrigno, che rispondeva con i suoi bagliori ai raggi rossi del sole morente. Con l'aiuto di Squall, che l'aveva seguita quando l'aveva vista chinarsi e sembrare in difficoltà, estrasse la cassa da sotto al letto e la aprì.

L'odore del passato sembrò impregnare la stanza, quando dal baule spuntarono oggetti appartenuti a sua madre e chiusi lì dentro quando la sua presenza era divenuta assente: i suoi spartiti, qualche appunto sparso, qualche fiore oramai secco e schiacciato dalle pagine di un libro, residuo del suo matrimonio, un libro dalle pagine ingiallite di polvere, che si rivelò poi una raccolta di fiabe, un velo bianco sul fondo, e poi sotto a tutto, come a nascondersi dietro tutto quello che era stato dopo, il vestito con cui suonava al bar dell'hotel, una fotografia di Laguna rovinata dagli anni, e poi tanti piccoli oggetti da neonato, bavaglini, scarpine, un abitino rosa...e quello che Rinoa aveva sempre osservato con gli occhi sgranati dalla meraviglia: la spazzola argentata con le morbide setole che sua madre usava per pettinarsi nelle loro serate nella camera rosa.

La prese tra le mani con la delicatezza che si ha verso le reliquie preziose e desiderate a lungo; lasciò vagare le dita sugli intarsi nell'argento, disegnando contorni vaghi e inconsci, fece scorrere la mano sulle setole morbide che ricordava così perfettamente contro il suo palmo, e poi prese una ciocca dei suoi capelli e iniziò a spazzolarli, lentamente, sotto lo sguardo di Squall che sembrava ipnotizzato dai suoi movimenti; gli stessi che osservava quasi ogni sera, affascinato da quanto potesse risultargli seducente il semplice guardarla pettinarsi. Eppure avevano qualcosa di diverso, quel giorno; una vaga nostalgia che impregnava ogni cellula che si stava muovendo, una sensazione di passato che inondava il presente con la sua forza e gli porgeva davanti la figura di una Rinoa malinconica che imitava la madre nel tentativo di sentirla ancora accanto.

Ed era davvero come se Julia fosse lì accanto, gli sembrava quasi che la sua coscienza rimanesse annebbiata come quando Ellione usava i suoi poteri su di lui e intorno a lui tutto sembrava una cartolina invecchiata. Rinoa rovistava nel baule, alla ricerca di qualche altra cosa che potesse risvegliare la sua memoria, e lui rimaneva lì fermo, in una sorta di trance, sospeso tra un presente sfocato e un passato che sembrava oltrepassare le linee del tempo per accarezzargli la coscienza.

Lui aveva visto Julia, in quel primo sogno in cui era diventato Laguna; scendeva le scale, suonava il pianoforte, lo invitava da lei e lo ascoltava, lui si sentiva ubriaco e cadeva addormentato sul suo letto; e lei somigliava così tanto a Rinoa, parlava con una voce dolce e un viso sognante, lo stesso che aveva la sua Rinoa adesso, davanti a lui, mentre frugava tra gli oggetti della sua infanzia e si spazzolava i capelli.

Allungò una mano senza rendersene conto, avvicinandosi a lei, seduto per terra, e prese a pettinarla lui stesso; lei lo guardò per un momento, quasi sorpresa, ma poi lo lasciò fare con un sorriso. Si era mai reso conto dei riflessi che assumevano i suoi capelli rilasciati vagamente elettrici dalle setole della spazzola? Si era mai reso conto di come la luce del sole morente piegasse al suo volere ogni singolo filo d'ebano, rendendolo quasi blu sotto di sé?

"Guarda."

La voce di lei gli penetrò i sensi, riportandolo poco alla volta alla realtà; posò la spazzola e si voltò non senza fatica verso la direzione che lei gli stava indicando. Il sole stava annegando nel mare, laggiù in fondo, lasciando sprazzi arancio nelle nuvole già tinte di rosa. E l'acqua, che aveva luccicato come invasa da milioni di stelle per tutto il tempo, sembrava incendiarsi e un miscuglio di colori che aveva sempre ritenuto impossibile si dispiegava sotto ai suoi occhi: in un'iride pazzesca e naturale, l'acqua si faceva arancio a contatto con il sole e poi man mano tornava blu, a infrangersi contro la sabbia bianca.

Si ritrovò tutt'un tratto ad osservare lei, come se non potesse fare a meno di vedere come quel tramonto così stupefacente si riflettesse sul suo viso; lei aveva un sorriso pacifico dipinto sul volto, inondata di una calda luce arancio che il sole le gettava addosso nei suoi ultimi attimi. Era sempre così, Rinoa; sembrava irradiasse luce, calore e amore -non gli era mai sembrata bella come in quel momento, con la sua nostalgica malinconia di pace illuminata della potenza della natura, con i capelli scompigliati da una brezza leggera, l'unico residuo di temporale che Timber aveva spinto verso Deling City. Lasciò scivolare gli occhi sulla sua figura accovacciata per terra, accanto ai rimasugli dei suoi ricordi; accarezzò con le mani dell'anima le forme che conosceva bene, che avrebbe riconosciuto ad occhi chiusi, che sapeva capaci di adattarsi a lui come acqua.

Sentendosi osservata, Rinoa si era voltata, intanto, con un'espressione interrogativa; si era forse accorto del pianto che minacciava di spezzarla da un momento all'altro? Incontrò i suoi occhi che risalivano lungo il suo corpo, lo vide allungare una mano per accarezzarla mentre lo sguardo gli si appannava di nuovo di desiderio, e poi il suo viso che si avvicinava per un bacio a cui lei si aggrappò con tutte le sue forze.

Così tante coincidenze le erano venute in mente mentre osservava il sole che si bagnava nel mare. Così tante sensazioni, così tanti mozzichi di ricordi a ricomporre una fotografia in bianco e nero, che sembrava appartenere ad un tempo lontano, a una vita lontana, a una persona lontana. Ora una parola, ora un sorriso, ora un regalo, ora una sera particolarmente fredda, ora un temporale tanto forte, ora le notti trascorse in quella stanza fatta di lei e di sua madre -fatta d'amore.

Amore era traspirato in ogni oggetto, ogni mobilio, ogni tessuto che era rimasto chiuso lì dentro, coperto dalla polvere del tempo che cadeva lenta e inesorabile sui giorni passati. Amore pulsava di nuovo tra quelle pareti, nei ricordi vaghi ma fermi della mente di Rinoa, negli occhi innamorati e dolci di Squall, nella luce e nella brezza che si fondevano in un'atmosfera arancio che pervadeva la stanza. Amore era tutto ciò che quelle mura avevano visto; la delicatezza d'una mamma che leggeva le fiabe alla sua bambina e di una bimbetta che si meravigliava della bellezza soffice della madre, il calore di coperte pesanti ad avvolgerle e di una forma di cera nelle mani grandi di un papà che tornava. Amore, tranquillità, serenità era tutto ciò che lì dentro poteva essere provato, tra il rosso profondo del bordeaux e quello sbiadito del rosa, tra i colori di una donna e quelli di una bambina.

Amore era ciò che animava la stanza di una sua luce particolare, amore entrava insieme agli ultimi raggi a sfiorare le sue lacrime trattenute, amore era la vita di quel posto così amato, così poco ricordato, così tanto rimpianto.

Amore era ciò che andava celebrato, lì, nella sua espressione più dolce e sublime, avvolta di tenerezza e sensualità di un bacio feroce che mescolava il conforto alla passione quasi aggressiva.

Era come se tutto fosse stato programmato per arrivare a quel punto, in cui lei si sarebbe reimmersa nel suo passato per uscirne melanconica di fronte ad un glorioso presente di affetto. Affetto? Era così tanto di più quello che lei sentiva dentro, quello che la lingua di lui le cantava sulle labbra; così tanto di più quello di cui aveva bisogno, in quel momento in cui la mancanza spasmodica della sua memoria tracciava il confine tra ciò che le era ancora chiaro e ciò che andava sbiadendosi, languendo in un passato quasi estraneo. Non voleva più dimenticare null'altro, non voleva dimenticare tutto quello che l'aveva portata ad essere lì, stretta a lui che pretendeva risposte dal suo corpo, nella stanza in cui aveva visto passare i suoi giorni felici di bimba.

Basta Guardian Forces, basta insegnamento, basta a tutto quello che le avrebbe portato via quello a cui teneva di più.

Si aggrappò a lui con più forza, ricordando all'improvviso il suo fiume di pensieri, sul treno che li portati a Deling City; l'affetto sensuale di lui che era andato schiudendosi tra tanti gesti e poche parole, e ricordò quelle più importanti, che l'avevano lacerata d'amore: "fai l'amore con me," si trovò a sussurrare contro le sue labbra, con la voce piena di un pianto che non sapeva liberare.

Lui non sembrò troppo sorpreso dalla sua supplica; la attirò di più contro di sé prima di sollevarla e deporla sul letto, adagiandosi accanto a lei senza mai smettere di baciarla. Non aveva detto una parola, solo la voce mormorata di lei aveva riempito l'aria intrisa di luce morente; le ombre iniziavano già ad allungarsi nella stanza, se lei avesse aperto gli occhi avrebbe scoperto che quasi non poteva vedergli il viso.

Sentiva le sue mani scivolarle sicure sotto i vestiti, sfilandoli lentamente ad uno ad uno, accompagnando ogni gesto con una scia della sua lingua che vagava già sulla sua pelle esposta. Si sentì pervasa da brividi che le crepitavano dentro con altrettanta lentezza, un po' per l'aria fresca che gonfiava le tende e arrivava a sfiorarle la pelle umida, e un po' per le sensazioni che lui sapeva smuoverle addosso con i gesti più semplici. Le sue mani le scorrevano sulla pelle, tracciando disegni invisibili che erano stati ripetuti già mille volte e sembravano ogni volta diversi e nuovi; le sue dita plasmavano le sue forme al suo volere, ora stringendo e ora lisciando, aprendo la strada alla lingua che sentiva sul seno, intenta a sfiorarle un capezzolo in una tortura che le strappò un mugolio a stento trattenuto.

Le sembrò che lui stesse sorridendo, contro la sua pelle, mentre continuava il suo viaggio lungo quel corpo conosciuto ed amato e ogni volta riscoperto con tutti i sensi. Allungò una mano per passare le dita tra i capelli di lui, con un sospiro che diveniva un gemito sulle sue labbra, mentre intrufolava l'altra nella sua camicia e iniziava a spogliarlo a sua volta. Lentamente, lasciava scorrere le dita contro il suo petto, in un gesto deliberatamente sensuale, che sapeva piacergli molto; la mano scendeva piano, accarezzando la pelle che si scopriva man mano che un bottone veniva liberato dal suo confinamento, tirava leggermente la stoffa imprigionata nei pantaloni e poi risaliva, sempre lenta e sfiorandolo appena con le unghie, solo per spingere la camicia giù lungo le sue braccia.

Ebbe a malapena il tempo di udire il fruscio degli abiti che cadevano sul pavimento; riuscì a solo a sentire lui che le cadeva quasi pesantemente addosso, per permetterle di sfilargli anche i pantaloni. Con gli occhi pieni del suo viso e della sua espressione beatamente annebbiata, lasciò che le sue mani riprendessero il viaggio interrotto dai movimenti scomposti di lui, e scendessero di nuovo a slacciargli la cintura, molto, troppo lentamente per quel desiderio che gli stava sconvolgendo il corpo e l'anima, chiudendo i suoi sensi a qualsiasi cosa non fosse lei, il suo profumo, il suo sapore.

Il suo sapore.

Non poteva aspettare ancora che lei finisse di spogliarlo -sembrava volerlo soltanto stuzzicare; e lui era impaziente, aveva bisogno di lei almeno quanto lei ne aveva di lui. Pur malvolentieri, perché quel supplizio in fondo riusciva soltanto a frustrarlo d'eccitazione, afferrò le mani di lei per togliersi i pantaloni lui stesso. Lei non oppose resistenza, si limitò a premersi contro di lui, bisognosa di sentire la loro pelle che si incontrava e fondeva, con tutto il senso di protezione che quel semplice contatto fisico riusciva a trasmetterle. Quando finalmente anche gli ultimi indumenti caddero a terra e lui tornò ad aderire a lei e a riempirle la bocca dei suoi baci, l'urto di quella sensazione sembrò scuoterla fin nel profondo e tremando, si sentì mugolare un dolore misto di tenerezza che rimase a languire nell'aria, avvolgendoli come un involucro che li separava dal resto del mondo.

Lui tornò a scendere lungo il suo corpo, tracciando nuovi disegni umidi sulla sua pelle calda, avviluppato dai gemiti di lei che lo guidavano verso la sua destinazione. Finalmente il suo sapore che gli riempiva ancora la bocca, pieno e dolce come un frutto maturo d'estate, qualcosa di cui non sapeva in nessun modo fare a meno, qualcosa di nemmeno lontanamente comparabile a un sapore conosciuto; lei era lei, sapeva soltanto di Rinoa ed era solo Rinoa che lui aveva assaporare. Scendeva piano e lento, accompagnando le sue dita con colpi di lingua lunghi e sensuali, dipingendosi nella mente con le mani dei suoi sensi le forme che pur conosceva: il seno piccolo, il busto che si stringeva alla vita e poi si riallargava nei fianchi, quel grembo che accarezzava spesso, quasi inconsapevolmente, le gambe lisce che attiravano i suoi sguardi più di una volta. Pur tenendo gli occhi chiusi, riusciva a vederla: nell'interezza della dolcezza che il suo piacere gli lasciava sulla lingua, del calore che si trasmetteva alle sue mani, delle sensazioni che lei gli liberava dentro, dei gemiti che gli sfioravano i timpani, vibrando giù fino al suo sesso; tutto componeva un'immagine agli occhi della sua mente, un'immagine in cui Rinoa era circondata di luce e amore e piacere, un'immagine che non poteva non desiderare.

Cercò inutilmente di fermare i movimenti di lei, posandole le mani sui fianchi; ma oramai il suo bacino si muoveva al di là del controllo di entrambi, istigato dalle labbra premute contro il suo sesso che sembravano rovesciarle addosso tutto il bisogno suo e di lui. Che cosa c'era di diverso, rispetto alle altre volte? Non era mai stato così intenso, mai con tutto quel carico di emozione che le pesava sul petto a renderle ancora più difficoltoso il respiro, mai con tutto quel carico di abbandono che la rendeva molle, placida e arrendevole ai suoi desideri.

Quante volte aveva già sentito la sua lingua strusciare contro di lei? Eppure era diverso, era come nuovo, come la prima volta, era come sacro che lui bevesse il suo piacere da lei fino a divenire incapace di controllarla, fino a farla inarcare al suo volere e fino a farle crepitare dentro un orgasmo che la fece scoppiare in lacrime. Era come se all'improvviso tutto il peso emotivo che le si era accumulato sulle spalle quando era entrata in quella stanza della sua infanzia si fosse liberato nel suo grido singhiozzato, nelle lenzuola strette tra le sue dita tremanti; era stato amore che aveva vissuto quando in quel letto ascoltava la voce melodica di sua madre narrare le avventure dei suoi personaggi preferiti, ed era amore quello che sentiva ora, quando anni dopo tornava con l'uomo che avrebbe sposato e celebrava il sentimento che si respirava in quella stanza nel suo atto più semplice, puro, selvaggio.

Lo sentì risalire, lungo il suo corpo, con una nuova scia di baci umidi che sembrava scriverle sulla pelle il suo possesso e il suo desiderio; era incapace di muoversi -incapace di fare altro che non fosse singhiozzare come una bambina, accogliendolo tra le braccia, ad occhi chiusi, e stringendosi a lui nel tentativo di calmare il pianto prima di iniziare lei stessa il viaggio che l'avrebbe portata ad accoccolarsi tra le gambe di lui e a strappargli gemiti rochi e vagamente trattenuti.

Ma lui sembrava avere altre idee; si adagiò su di lei lentamente, un contrasto con la pesantezza con cui le si era lasciato cadere addosso poco prima, e cercò di confortarla accarezzandola appena, lasciandole scorrere la bocca lungo il collo fino all'orecchio, in cui le sussurrò con la voce arrochita, "ssssh..."

Il suo mormorare parve avere solo l'effetto di farla piangere ancora più forte; la sentì stringersi ancora più a lui, in un abbraccio tremante di commozione e convulso di piacere, mentre le parole che voleva dirgli le morivano in gola, trasformate in lunghi gemiti spezzati dai singhiozzi. Lui risalì a bere le lacrime calde che le rigavano le guance, intrecciando le dita con quelle di lei e portando le loro mani unite sul cuscino, sopra le loro teste che si toccavano; con una mano ad accarezzarle il fianco e le labbra che imprigionavano le sue in baci che sapevano di gemiti, iniziò a premere il sesso contro di lei, sentendola schiudersi sotto al suo peso pieno di desiderio, avvolgendolo nel calore umido e accogliente che riusciva sempre ad abbacinarlo di tenerezza.

Si separò da lei un momento, quanto bastava perché la sua bocca tremante le respirasse un gemito tra le labbra; e poi tornò a baciarla con la stessa dolcezza feroce che si impossessava anche dei suoi movimenti, che rimanevano forti anche quando erano così esasperatamente lenti, decisi e intrisi di dolcezza, quanto bastava perché la tenerezza che gli vibrava nel petto si trasmettesse anche dentro di lei. Gli sembrava che si riverberasse nelle contrazioni intorno a lui, sensuali come una carezza, calde e morbide -come poteva non sentirsi perso?

Decise che era anche più bello guardarla negli occhi, anche se aveva lo sguardo appannato e perduto, anche se vederla era quasi più travolgente che immergersi dentro di lei; appoggiò la fronte contro la sua, stringendole ancora più forte la mano, sopra le loro teste, e chiamando con quel poco di voce che il piacere gli aveva lasciato, "Rinoa..."

Le sembrò che quella voce giungesse da lontano, in un marasma di suoni che la costringeva ad inarcarsi sotto di lui e premeva contro le sue corde vocali, uscendo in gemiti che piano piano divenivano urla; quando aprì gli occhi, l'espressione di lui, imbevuta d'abbandono e d'amore, fu abbastanza da spezzarla di nuovo. Scossa dai singhiozzi che non controllava più -che non aveva mai controllato, sollevò le gambe a cingergli i fianchi, conficcandogli le unghie della mano libera nella schiena, sentendolo fremere di un tremito che si trasmise anche a lei, veloce come i piccoli morsi di lui sulle sue labbra, come il caldo che sembrava esageratamente innaturale in quella stanza, come l'aria che entrava sfiorandoli ma senza che loro potessero sentirla.

Non c'era spazio e non c'era tempo, solo una stretta convulsa e piacevole, liberatoria e necessaria, che sapeva essere tutto e nulla, e li trascinava con sé lungo una spirale che scendeva giù nel buio caldo delle loro unioni, fino a lambire i loro confini, fino a sembrare dolore; le sembrò di non udire più nulla distintamente se non le loro voci che si mescolavano, le sembrò di non vedere nemmeno più nulla se non qualcosa di sfocato intorno all'espressione ubriaca di Squall, le sembrò che nulla esistesse più quando i movimenti di lui si fecero più veloci, decisi e irregolari, culminando in un orgasmo che sembrò infrangersi su di lei come onde, togliendole il respiro e lasciandola a gemere un urlo strozzato. Si sentì fremere, si sentì contrarre, intorno a lui, muovendosi languida come il mare, fino a portarlo accanto a lei, stanco, soddisfatto e quasi commosso, sulla spiaggia assolata del loro amore, con un gemito che evocava il suo.

E di nuovo, lo sentì caderle addosso pesantemente -nemmeno riusciva a respirare, ma non importava. Era a casa -erano a casa, accoccolati su sabbia calda fatta di seta rosa, morbida e vellutata come lo sfinimento sottile che si disperdeva sulle loro membra con gli ultimi fremiti del piacere. Lo sentì posarle la testa sul seno, lasciarle un bacio, risalire a guardarla e tutto tornò come era sempre stato, la stanza, l'aria fresca, i contorni definiti del mondo reale che avevano abbandonato per qualche istante per tornare nella loro casa.

Lui sorrise, ubriaco d'emozione, scostandole una ciocca di capelli dal viso, con una carezza lieve sulla guancia; lentamente le loro dita ancora intrecciate lasciarono la presa, per lasciare spazio a un abbraccio meno sensuale, più affettuoso, pieno di baci a placare il languore che sentivano in ogni fibra del loro essere. Non c'era bisogno di dirlo, lui aveva già capito dalla stretta piena di bisogno che lei gli aveva regalato; ma nondimeno, con la voce arrochita e spezzata dal pianto e dal piacere strillato tra respiri affrettati, mormorò, "rimani qui..."

Lui era fermo, con un sorriso stanco e felice ancora dipinto sul volto, gli occhi ancora appannati da una vaga lussuria che scivolava sul fondo di quell'azzurro perso; e non c'era nulla di più giusto di tutto quello, sentirlo dentro di sé, coccolarlo dentro e fuori di sé, abbracciarlo, baciarlo e guardarlo sorridere d'amore, sentirlo addosso senza poter respirare e sentire anche, però, che non c'era nessun altro modo in cui poteva stare se non quello, tra le sue braccia, sotto di lui, ansimando la stanchezza. Lo sentì adagiarsi piano, su di lei, ancora una volta, ancora un contrasto strano con il modo in cui si lasciava cadere su di lei a volte; e sempre qualcosa che non poteva non essere giusto, perfetto, un miracolo nella sua infinita libertà d'abbandono -un miracolo che poteva avvenire solo così, solo con loro, con lei, nella loro casa fatta di emozioni e sensazioni, costruita un mattone alla volta, cementata con l'affetto, invisibile e incrollabile, intoccabile ed eterna, eterea e vera.

Chiuse gli occhi per puro riflesso, come se la luce esterna del sole che moriva allungando le mani sulle ombre che già lo soffocavano l'avesse colpita solo in quel momento; allungò un braccio ad afferrare le lenzuola, incontrando la mano calda, umida e tremante di lui, come al solito -come sempre, la sincronia perfetta degli ultimi bagliori della luce che stava in loro e su cui nessuna ombra poteva allungarsi, se non per infrangersi contro la gioia perfetta di quell'esistenza diversa, libera, infinita, lontana da chiunque non fosse loro. E poi le labbra di lui che sfioravano le sue, la lingua che le accarezzava e poi scivolava piano tra loro, sfiorava ogni angolo della sua bocca lasciandola di nuovo ansimante e felice; quando riaprì gli occhi all'espressione beata di Squall, le sembrò che la luce che stava dentro di loro li circondasse come a proteggerli.

Nessuna paura, nessun timore, nessun rimpianto -non c'era spazio per qualcosa che non fosse amore, libertà, gioia, celebrazione di tutto ciò che li rendeva così -che li rendeva completi.

E mentre si accoccolava tra i suoi seni, udì Squall sussurrare ciò che le parve un grido, "ti amo, lo sai, mmmh?"


Ora che tutto era pronto, quasi gli dispiaceva svegliarla. Si era assopita da poco, nemmeno aveva sentito bussare alla porta, nemmeno aveva sentito lui scendere dal letto per aprire e poi muoversi nella stanza per sistemare ogni cosa. E lui l'aveva lasciata stare il più a lungo possibile, ben sapendo quanto avesse bisogno di quel sonno ristoratore.

Gli piaceva guardarla dormire pacifica, in un contrasto di colori che lo faceva sorridere: il rosa lucente delle lenzuola di seta, il nero corvino dei suoi capelli sparsi sul cuscino, la pelle bianca e pallida delle sue spalle scoperte.

Era sempre stato così, con lei; riusciva a farlo sorridere anche senza fare nulla, semplicemente essendo se stessa, semplicemente dormendo tranquilla, nuda e bellissima.

E lui doveva svegliarla...

Salì sul letto lentamente, per non farle aprire gli occhi troppo presto; abbassò piano le lenzuola, accarezzandola appena, facendola stiracchiare con un mugolio. Forse era già sveglia? La vide voltarsi a dormire a pancia in giù, e di nuovo si trovò a sorridere. Accompagnando le lenzuola in basso, lungo il suo corpo, con una carezza, iniziò a seguire con la bocca la linea della sua spina dorsale, strappandole mugolii che gli indicarono che era davvero sveglia.

Come una gattina pigra e soddisfatta, Rinoa si voltò con gli occhi chiusi e un sorriso disegnato sul volto finalmente disteso, aderendo a lui mentre stiracchiava via gli ultimi residui del sonno. Rendendosi conto che si era vestito, aprì gli occhi di colpo, stupita, e incontrò il suo viso sorridente nella penombra delle candele. Con un bacio veloce e un cenno del capo verso il balcone, lui mormorò, "è arrivata la cena..."

Mettendo a fuoco meglio ciò che la circondava, vide che iniziava a calare la sera, già qualche stella brillava nello strappo di cielo che riusciva a vedere dal letto; la stanza era vagamente illuminata da qualche candela sparsa qua e là, sul balcone si intravedeva un tavolino apparecchiato per due e dei piatti coperti che dovevano essere la cena a cui aveva accennato Squall. Mettendosi a sedere sul letto e tirando le lenzuola a coprirle il seno, chiese con la voce ancora un po' impastata di sonno, "ma che ore sono?"

"Le otto e mezza, dormigliona," scherzò lui, "ora di cena..."

Le allungò la vestaglia che le aveva regalato proprio per quella vacanza, e per la prima volta lei notò che si era infilato i pantaloni e aveva lasciato la camicia aperta; notando la sua espressione interrogativa, lui spiegò, "è un regalo di Elinor. Ha pensato che ti saresti sentita più a tuo agio qui..."

Lei sorrise.

Per quanto Elinor avesse tentato di starle accanto, quando era bambina, non le era riuscito di sostituire quel padre che si rinchiudeva in una stanza impedendole di piangere insieme a lui sua madre. Elinor aveva intuito sempre, senza però dire mai; presente quando doveva esserci e in disparte quando non doveva intromettersi, era stata l'ago della bilancia fra lei e suo padre, ma non aveva potuto impedire che l'equilibrio si rompesse sotto il peso di colpe e misfatti.

Ed era stata la persona che più l'aveva capita, compresa ed amata negli anni difficili della perdita. E la capiva e comprendeva anche ora, dopo aver portato una cena, delle candele e un sorriso nostalgico prima di farsi da parte, come suo solito.

Strinse mollemente la vestaglia alla vita, lasciando ancora più aperta la scollatura già generosa, e seguì docilmente Squall sul balcone, sentendo il bisogno di tenerlo per mano anche in quel brevissimo tragitto. Fuori, l'aria fresca le sfiorò la pelle, scompigliandole i capelli con una leggera brezza, mentre si sedeva di fronte a Squall e scoperchiava il piatto, trovando ciò che si era aspettata di trovare: la macedonia di frutta, colori e sapori che mangiava sempre con sua madre.

Seduta lì di fronte a lui, con gli occhi luccicanti di una nostalgia pure gioiosa, il corpo bianco fasciato e scoperto morbidamente da seta blu, i capelli corvini a incorniciarle il viso pallido, contro un cielo appena illuminato dalle prime stelle, Rinoa gli sembrava davvero una creatura della notte. Un'incarnazione dell'amore inviata a lui per restituirgli l'anima perduta tra i ghiacci, una ragazzina che s'era fatta donna tra le sue braccia, rendendolo più forte e sicuro, la compagna che era cresciuta insieme a lui e avrebbe condiviso con lui ogni cosa.

Allungò una mano per stringere quella di lei, aveva solo una vaga idea di cosa potesse star provando e temeva quasi che poi sarebbe toccato a lui; ma gli sembrava così impossibile e incomprensibile, lui non aveva ricordi da piangere, nostalgia in cui sguazzare, lui non aveva nulla che potesse legarlo al suo passato se non le parole di un uomo che aveva sempre e solo rifiutato, e qualche immagine sbiadita che sapeva di sogno.

Eppure non aveva paura. Di quello che avrebbe trovato, che avrebbe sentito, che avrebbe provato; sapeva benissimo che Rinoa era lì accanto a lui e lo sarebbe stata per tutto il tempo, e sapeva benissimo anche che se gli aveva chiesto quella riconciliazione con i loro padri un motivo c'era, profondo, per quanto lui potesse non capirlo immediatamente. Lei sapeva cosa significava una famiglia, ma lui no.

E se era una famiglia che volevano avere e costruire, dovevano prima sistemare i conti con il loro passato e le loro radici. Per perdonare le loro radici. Per amare le loro radici, per insegnare ai loro figli ad amarle e dare loro la famiglia che a loro era stata negata. Per diventare gli adulti equilibrati che volevano essere e non i ragazzi spaventati che si aggrappavano l'uno all'altra in cerca di conforto.

Lei si voltò a guardarlo con un sorriso, prima di lasciar andare un sospiro a lungo trattenuto; e lui le mormorò, "sei forte. Ce la farai..."

Non ne era sicura. Non sapeva come affrontare suo padre -Hyne, non sapeva nemmeno come affrontare il ricordo di sua madre che sembrava guardarla con occhi feriti. Si sentiva una traditrice, come se stesse offendendo la sua memoria; e intuendo tutto quello, Squall continuò, "tua madre avrebbe approvato, lo sai vero?"

"No..."

"Hai dei motivi per farlo. Motivi molto validi...e credo che tua madre avrebbe ascoltato tuo padre, avrebbe cercato di capire. Forse tu dovresti cercare di ascoltarlo e capirlo per lei."

"Ma lei..."

"Rinoa..." sussurrò lui, interrompendola con una voce più dolce e una stretta più forte alla mano gelida tra le sue, "non so cosa sia successo. So solo quello che mi hai raccontato. Ma credo...credo che tua madre quel giorno fosse arrabbiata. Ma ti amava. E tuo padre ti amava. E avrebbero fatto quello che potevano per renderti felice. E...tua madre ora sa che hai bisogno di tuo padre. Anche se le ha fatto del male..."

Lei abbassò gli occhi sul piatto che ancora non aveva toccato; rimuginando sulle parole di lui, infilzò una fragola portandola alla bocca lentamente. Lui continuava a tenerle la mano e ad osservarla, immaginando solo vagamente tutto quello che la stava lacerando; l'amore per una madre perduta che era sempre rimasta eterea e perfetta nella sua memoria, e il bisogno di un padre disprezzato e quasi odiato per anni, la cui immagine si era sbriciolata davanti a lei insieme alle lacrime che non le avevano permesso di leggere oltre quei documenti.

Sapeva che non era ancora del tutto convinta. La maniera titubante e svogliata con cui si portava il cibo alla bocca, gli occhi che guardavano in basso e sembravano voler evitare i suoi...erano segnali che lui aveva imparato a distinguere in quegli anni passati insieme. Per questo, le strinse ancora un po' la mano, prima di continuare, "Julia è stata mamma, Rinoa. E sono certo che capisce il motivo per cui rivuoi tuo padre accanto..."

La vide sobbalzare, colpita dalle sue parole. La forchetta le cadde tintinnando contro il piatto e alzò gli occhi di scatto, solo per trovarsi ad osservare il suo viso tenero e sorridente. Era sicura di aver capito bene? Le sembrava che lui avesse fatto un cenno alle frase che le era sfuggita, qualche giorno prima; le sembrava che lui intendesse chiaramente riferirsi al suo desiderio di essere madre. Era anche per quello che voleva suo padre accanto; per se stessa e per i figli che sperava di avere in futuro...e lui, proprio lui che aveva finto di non sentire, le diceva adesso che la maternità di Julia le avrebbe permesso di capire il desiderio di maternità della figlia -con tutti i legami che dovevano essere riallacciati per esaudire questo desiderio.

Lui le lasciò la mano, scoperchiando anche il suo piatto e iniziando a gustarsi la cena fresca, mentre il cervello di lei sembrava in fibrillazione; ora tutto era così confuso e complicato, prima sua madre, poi suo padre, e Squall, e i loro figli...stava vorticando tutto così vertiginosamente nella sua testa che le sembrò di avere la nausea. Sapeva che lui la stava guardando di sottecchi e invece di sentirsi protetta, come suo solito, da quello sguardo discreto che la accarezzava, si sentì quasi in imbarazzo, come se avesse bisogno di rimanere sola. Cercò di trangugiare qualche altro boccone, per calmarsi, per impegnare la testa e il corpo in qualcosa di diverso, ma riuscì solo a sbocconcellare di malavoglia qualche altro frutto dal suo piatto; sconfitta, iniziò a giocare un pochino con i colori che aveva davanti mentre la sua mente sembrava ripeterle una sola frase, Squall parlava di figli.

Cosa poteva mai significare, pensava tormentandosi le mani? Ne desiderava anche lui? O era soltanto un modo per farla riflettere e cercare di tranquillizzarla, pur passando per quell'eccitazione febbrile ed insopportabile?

"Rinoa."

Lei alzò gli occhi, con un'espressione così sperduta che lui si sentì spinto a prenderle la mano di nuovo, pur senza averne l'intenzione. Stringendola tra le sue, notò quanto fosse gelida e tremante; e poi con un sorriso mormorò, "non ci pensare adesso, mmmh?"

E così aveva capito. Hyne, era logico; le sembrava che la sua agitazione fosse fin troppo evidente, e per quanto avesse cercato di mascherarla come poteva, lui era un guerriero abituato alle dissimulazioni. Non gli era complicato scoprirle e lei non aveva certo tutta l'esperienza che sarebbe sicuramente servita per ingannarlo.

"Pensa solo a te, e a tuo padre. E il resto andrà tutto bene."

Lo vide alzarsi, avvicinarsi a lei e posarle un bacio leggero sulla tempia, e chiudendo gli occhi a quel contatto, sentì appena il suo andirivieni per raccogliere quanto poteva di ciò che stava sul tavolino, per poi uscire dalla stanza e lasciarla lì, sola, nell'aria fresca della notte, tra il blu del cielo e l'argento delle stelle. Quando riaprì gli occhi, tutto era stato riordinato; si guardò un momento intorno, come per accertarsi di essere davvero sola, e poi cercò la chaise longue che sapeva doveva essere su quel balcone.

Un altro oggetto dei suoi ricordi.

Lo stesso oggetto su cui aveva trascorso intere serate, da ragazzina, ad osservare il cielo in attesa della lucente presenza di sua madre. Parlandole e sfogando con lei tutta la rabbia, la frustrazione, il dolore di un'adolescente privata della mamma nei momenti in cui più ne ha bisogno. Su quel balcone era stata quando aveva sanguinato la prima volta. Su quel balcone era stata quando aveva scoperto come sua madre era morta. Su quel balcone avrebbe voluto essere quando, dopo la prima notte trascorsa con Squall, si era svegliata con il desiderio di raccontare a sua madre di quella stupefacente esperienza che aveva scoperto essere l'amore.

Si stese lentamente, avvolgendosi un po' di più nella vestaglia e trovandosi a fissare lo spazio infinito sopra di lei. Ad ogni minuto sembrava accendersi una nuova stella, argentata e pulsante; le sembrava quasi che fosse lo stesso cielo che aveva osservato a Timber, il giorno prima, immobile e perfetto, esattamente identico. Era davvero così?

Era davvero possibile che quel cielo non cambiasse, che fosse identico in ogni punto della Terra?

O forse era lei a vederlo uguale? Forse era la natura a restituirle un'immagine della sua vita, del punto morto a cui sentiva di essere giunta? Non c'erano bivii, davanti a lei, questa volta; solo una strada che correva fino all'orizzonte e di cui non poteva vedere la fine, solo una strada che si perdeva in profondità, smarrendosi contro il sole o contro la notte indifferentemente. Forse la natura si stava davvero prendendo gioco di lei, presentandole un cielo fermo che avrebbe dovuto in realtà essere in movimento; forse quelle stelle avrebbero dovuto accendersi altrove, forse le costellazioni avrebbero dovuto essere più visibili, forse la luna che ora si alzava bianca e piena avrebbe dovuto essere oscurata da nuvole.

Provò a chiudere gli occhi e poi riaprirli; e di nuovo il cielo le si presentò in tutta la sua magnifica immobilità, una stella ammiccava come a schernirla, una nuvola spinta dal vento leggero si muoveva languidamente a coprire ora la luna, ora la stella pulsante, e poi spariva alla sua vista. Chissà se avrebbe portato pioggia? Chissà se sua madre, da lassù dove era convinta che vivesse, le avrebbe mandato un segno anche stavolta? Le sarebbe bastato poco; un'indicazione sulla via da percorrere, sulle parole da scegliere e quelle da non usare, anche solo la semplice conferma di ciò che aveva detto Squall: Rinoa, ti capisco.

Le sarebbe bastata la benedizione di sua madre, per portare avanti quello che aveva deciso di fare. Non aveva bisogno di null'altro; sapere che sua madre approvava, sapere che quella sua madre tanto amata e tanto rimpianta non si sarebbe sentita ferita, pur essendo solo uno spirito aleggiante nei suoi ricordi sbiaditi.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo era rimasta così, coricata a guardare il cielo avvolta in una vestaglia che non la copriva abbastanza; non avrebbe saputo dire esattamente quando le stelle avevano iniziato a fondersi l'un l'altra e lo spazio sopra di lei era diventato un'opaca macchia bluastra in cui continuava a cercare risposte che sapeva benissimo avrebbe dovuto cercare dentro se stessa. Ma in fin dei conti, doveva davvero cercarla dentro di sé? Se davvero quel cielo non era altro che l'immobile riflesso della sua anima confusa, se davvero quel cielo le telegrafava messaggi nella disposizione delle stelle, se davvero le nuvole passavano per nasconderle segnali che altrimenti avrebbe colto, se davvero quella luna così bianca altro non era che un segnale della sua rigenerazione...poteva davvero cercare altrove le sue risposte, quando era la Natura a farsi umana davanti a lei?

Nelle stelle pulsanti di luce, nelle nuvole scostate da un vento leggero che sembrava soffiare solo per loro, nel blu del cielo che sembrava sempre più nero contro le luci argentate che lo popolavano, come si poteva non pensare che non ci fosse, lassù tra le stelle, un messaggio per lei soltanto?

Da lontano, le parve di sentire una porta aprirsi; un fruscio di stoffe e poi Squall era accanto a lei, una coperta in mano e un sorriso sul volto, "c'è posto anche per me?"

Un altro dei loro riti; stare sul loro balcone, al Garden, coricati su un lettino come quello, a fissare il cielo delle notti limpide d'estate, aspettando la loro stella cadente che tornava ogni tanto ad ammiccare alla coppia che aveva unito.

Lei si alzò un poco, lasciandogli lo spazio di scivolare dietro di lei; mentre lui avvolgeva intorno a loro la coperta leggera che aveva portato con sé, si abbandonò con un sospiro soddisfatto contro il suo petto. Solo quando fu al sicuro tra le sue braccia, cullata dal suo respiro confortante e dal calore del suo corpo, si rese conto di come lui avesse più o meno programmato tutto; sconvolgerla un poco durante la cena per poi lasciarla sola a rimuginare sulle risposte a domande mai poste. Non era sicura se essergli grata o sentirsi infastidita dalla fibrillazione in cui l'aveva gettata con le sue riflessioni e i suoi sottintesi; ma sapendo che comunque non sarebbe mai riuscita a rimanere arrabbiata con lui -tanto più che quello che aveva detto e fatto era stato per il suo bene soltanto, decise che doveva essergli grata di quel rispetto e di quell'amore riservato a lei e dimostratole in maniere spesso poco ortodosse.

"E' tutto a posto, mmmh?", mormorò lui in maniera appena percettibile.

Lei rimase in silenzio per un po', senza sapere che risposta dargli. Era tutto a posto? Non aveva risolto nulla, in fin dei conti; non sapeva che dire a suo padre e non sapeva se stava tradendo sua madre. Ma mentre fissava la cupola blu che si chiudeva a cerchio sulle loro vite, capì che non doveva sapere assolutamente nulla. Non sapeva decifrare il messaggio delle stelle perché quella sera le stelle non stavano inviandole nessun messaggio. Quella sera il cielo era l'anima immobile, stanca e luccicante di qualcun altro; quella sera non aveva bisogno di sapere come avvicinare suo padre, quella sera non aveva bisogno di sapere come si sentisse sua madre. Quella sera era lei a stabilire il corso della sua vita, e la strada che prima le sembrava univoca ora si allargava in tante piccole viuzze nascoste dagli alberi, anfratti ombrosi che erano tanto più gradevoli che la soleggiata -e calda, e polverosa, e faticosa e lunga- via centrale.

Ma la via centrale scendeva verso il sole. Nell'orizzonte lontano che lei non poteva vedere, la via centrale, grande e maestosa, incontrava il sole e arrivava là dove i colori si liquefacevano, e non esistevano più strade da scegliere e sentieri da ignorare, ma solo lei e le cose che aveva deciso, fatto e detto, e le persone che aveva amato e odiato, e anche quelle che erano passate nella sua vita lasciando solo una breve scia a segno del proprio passaggio. E se voleva scendere lungo quella strada tanto cercata in mezzo alle ombre delle bugie e dei rimpianti, doveva sistemare il passato perché le sue mani non s'allungassero più sul presente.

O forse era questo il messaggio che le stelle avevano vergato nel cielo per lei?

Lui attendeva la risposta, sulle spine. Aveva paura di aver esagerato, di averle dato troppo su cui rimuginare alla ricerca di una via d'uscita dal labirinto in cui sembrava essersi perduta. E il fatto che ora lei tacesse, non facesse nemmeno un cenno col capo, che non ci fosse nemmeno un sospiro a indicargli cosa le stesse passando per la testa...

Forse aveva esagerato. Forse lei era così impaurita che non poteva giovarle pensare a quello a cui lui l'aveva costretta a pensare. Forse doveva distrarla, starle accanto sviando la sua mente da sentieri già percorsi e che andavano sempre a finire contro un muro di incertezze. Forse doveva dirle cosa aveva deciso per loro; rompere la promessa che le aveva silenziosamente fatto di raccontarle tutto solo quando tutta quella storia dei loro padri fosse finita -anche se implicava parlarle dopo aver parlato con Laguna. Una cosa di cui non era certo molto entusiasta.

Forse doveva dirle che voleva lasciar perdere la Seed e tutto quello comportava, che voleva comprare una casetta che aveva visto a Timber, che aveva già, forse, trovato un lavoro con cui avrebbero potuto vivere felici e sereni, senza preoccuparsi di ferite o allenamenti. Forse doveva dirle che quel giorno, anche se aveva finto di non sentire la parola 'figli', l'aveva sentita eccome, e aveva passato il resto del tempo a rimuginarci. A fantasticarci.

Forse doveva dirle che lui voleva solo una famiglia con lei, e un nido per loro e i loro bambini. E che sì, voleva anche che i loro bambini avessero dei nonni. Voleva anche che i loro bambini potessero crescere con accanto i loro genitori, senza avere paura di perderli in qualche missione in giro per il mondo. Voleva avere un posto a cui tornare la sera e qualcuno che l'avrebbe aspettato o che avrebbe volentieri aspettato lui stesso. E che voleva giocare con i loro bambini. E Hyne, che voleva riempire la casa di bambini.

Dei loro bambini, di cui accarezzava l'idea quando le sue mani, vagando sul corpo di lei, si fermavano sul grembo in cui le loro vite sarebbero sbocciate.

Sapeva che Rinoa voleva diventare madre. Non era stata tanto quella distrazione di qualche giorno prima a farglielo capire, erano stati tanti piccoli segnali che poco alla volta avevano ricomposto quello che lui aveva intuito -e che all'inizio lo avevano spaventato a morte. Il modo in cui guardava i bambini che erano arrivati al Garden, resi orfani dalla guerra contro Artemisia; il modo in cui guardava il pancione delle donne che incontravano, a volte, quando fuggivano per qualche giorno lontano da tutto e da tutti; il modo in cui guardava i bambini giocare, e il sorriso che le si dipingeva sul volto, ogni volta, immancabilmente.

E un po' alla volta anche lui aveva iniziato ad intenerirsi di fronte a quegli esserini che fino a poco tempo prima non poteva sopportare. Aveva iniziato a dipingersi in testa immagini di una vita che non aveva mai creduto potesse esser per lui; aveva iniziato a desiderare una famiglia, forse, da quando aveva scoperto che un residuo della sua viveva ancora e da quando Rinoa si era sciolta tra le sue braccia, attirando inconsapevolmente le sue mani a sfiorare il primo nido dei loro figli.

Non avrebbe saputo dire esattamente quando, ma ad un certo punto l'amore adorante di Rinoa per la semplice idea di avere dei bambini con lui si era trasmesso anche a lui, per quanto avesse cercato di evitare che accadesse, e avesse cercato di evitare dopo di mostrare che l'avere una famiglia aveva iniziato ad insinuarsi nei suoi pensieri. E mentre lei pensava a cosa dire e fare con suo padre, lui la teneva stretta al petto, sentendo il suo corpo scaldarsi contro di lui, a rimuginare se dirle tutto quello.

Ma forse non era il caso...forse anche quello doveva venirgli spontaneo, doveva sgorgare dalle sue labbra dopo aver fatto l'amore con lei come era stato con tutto il resto -ti amo Rinoa, sposami Rinoa, sono tuo Rinoa. Quando la forza prorompente dei suoi sentimenti avrebbe rotto gli argini delle parole e in sussurro che avrebbe voluto urlare le avrebbe chiesto di dargli un figlio. Quando il bisogno di avere qualcosa di totalmente loro, di creare con il loro amore qualcosa di perfettamente tangibile e adorabile si sarebbe fatto lacerante, allora sarebbe stato il momento di dirle tutto quello.

O più semplicemente, quando sarebbe stato in grado di accettare l'idea di amare qualcuno incondizionatamente, e di essere ricambiato allo stesso modo -quando sarebbe stato in grado di accettare l'idea di amare qualcuno per il semplice fatto che esisteva, e di essere amato solo per la sua esistenza, allora sarebbe stato il momento giusto.

Non così. Non ora. Non per placarsi la coscienza che il silenzio di lei pungolava in un'infinita, lunghissima tortura.

Tortura che lei spezzò all'improvviso, quando una stella cadente attraversò dolcemente il cielo, voltandosi verso di lui e infilando le mani nella sua camicia aperta, "sì Squall, ora va tutto bene..."


A volte, era così difficile essere una figlia.

Era arrivato il momento, dunque. Un bel respiro? Un bel sorriso? Sarebbero bastati a coprire lo spaventoso rumore del suo battito impazzito? Sarebbero bastati a calmare le farfalle svolazzanti nel suo stomaco?

Da cinque minuti stava lì, davanti a quella porta bianca, aspettando di trovare il coraggio di oltrepassarla e affrontare l'uomo che aveva evitato tutta la mattina. Aveva lasciato Squall nel giardino, proprio sotto alle finestre della stanza in cui doveva entrare; si era lasciata coccolare, incoraggiare, spronare e sgridare per ore, fino a quando aveva raccolto tutte le sue forze ed era andata di fronte alla porta.

Forse prima era meglio bussare? Era vero che Caraway sapeva che prima o poi sarebbe andata da lui -magari l'aveva osservata dalla finestra, senza che lei lo notasse; ma forse era meglio annunciarsi, forse era meglio anche chiedere a Elinor di vedere se poteva andare -oh, Hyne, quante dannatissime scuse.

Doveva entrare e ne aveva paura.

Ed ora che la accettasse, quella paura, invece di raccontarsi tante belle cose che servivano solo ad edulcorare la realtà.

Era spaventata. Aveva una paura folle di essere rifiutata. Aveva una paura folle che quel padre che ora andava a cercare, dopo avergli sbattuto in faccia porte su porte, si prendesse gioco di lei e non volesse per nulla riprendere le fila del loro rapporto interrotto.

Eppure doveva entrare. Per lei, per Squall, per sua madre...

Aprì la porta con decisione, prima di potersene pentire, facendo alzare gli occhi a Caraway. Il colonnello sorrise lievemente; e con un cenno del capo, fece segno alla figlia di sedersi.

Rinoa si sedette nella grande poltrona davanti a lui, solo la scrivania a dividerli, e per un lungo momento entrambi rimasero in silenzio, a scrutarsi alla ricerca di un segnale sul viso dell'altro; entrambi incerti sul da farsi, su cosa dire, su come dirlo, su chi dei due avrebbe dovuto iniziare a parlare. Per tutto quel silenzioso lungo momento, entrambi riconobbero nella figura dell'altro i segni del tempo: i tratti di Rinoa che andavano sempre più somigliando a quelli di Julia; i primi fili bianchi tra i capelli di Caraway e le sue prime rughe, di cui Rinoa era probabilmente la responsabile.

Quanto tempo era passato, dall'ultima volta che erano rimasti nella stessa stanza? Dovevano essere passati almeno quattro anni...forse anche di più, dalla parata della strega che aveva dato il via alla loro avventura, dalla sera in cui, ancora una volta, aveva pensato di poter decidere per lei cosa era giusto e cosa no. Era stato quando era fuggita da lui per la seconda volta, per rifugiarsi da coloro che sarebbero diventati suoi amici e non tornare mai più dove la sua vita aveva avuto le sue radici; e ora, di fronte a lui, un po' si vergognava del rifiuto netto di tornare in quella casa quando Squall, circa un mese dopo l'attentato fallito, aveva pensato che fosse utile parlare con il colonnello per scoprire qualcosa di più sul nemico che avevano di fronte. Solo più tardi aveva scoperto da Selphie come Caraway avesse chiesto a tutti loro ed in particolare a Squall di prendersi cura di lei.

A Squall, che non godeva certo della sua stima.

A Squall, che Caraway, agli inizi, aveva pensato essere semplicemente un amore nato dalla ribellione.

A Squall, a cui ora avrebbe dovuto essere grato.

Fu il colonnello a rompere il silenzio, "Rinoa, non..."

"Perché?", lo interruppe lei, all'improvviso bisognosa delle spiegazioni e delle risposte che prima aveva sempre rifiutato. Al diavolo tutti i discorsi che si era preparata, al diavolo tutti i perché che avrebbe voluto dare lei per prima. Aveva bisogno -avevano bisogno di altro. "Perché loro? Perché tu?"

All'inizio non capì cosa intendesse; poi un'espressione malinconica gli si dipinse sul volto, "è una cosa di cui mi sono sempre vergognato, Rinoa..."

Lei tacque, in un invito a continuare; e lui riprese con una voce quasi spezzata, "ero giovane...ero entrato nell'esercito perché mi piaceva davvero la vita militare...nessuno di noi, all'inizio, capì davvero che uomo fosse Deling. E nessuno di noi pensò che conquistare Timber fosse qualcosa di così orribile come ci apparve dopo...come ci apparve quel giorno."

Si alzò, avvicinandosi alla finestra e osservando, con le mani dietro la schiena, il suo futuro genero che chiacchierava tranquillo con Elinor in giardino; e continuò, "sapevamo che ci sarebbe stata una ribellione. Qualcuno si era infiltrato e noi sapevamo dei vostri piani -dei loro," si corresse quasi involontariamente; Rinoa era stata una parte della Resistenza e avrebbe sentito come sua qualsiasi azione. Era anche un suo piano, lo era diventato nel tempo, con la vicinanza che a lui era sempre negata dalle pareti dello studio in cui viveva la sua vergogna. "Deling ci ordinò di lasciar fare, che al momento giusto ci avrebbe fatto cenno di ferire e catturare i capi. Era un suo gioco perverso, colpire i ribelli quando credevano di aver vinto. Ma nessuno di noi immaginava che si sarebbe spinto fino al massacro..."

Gli parve di sentire, dietro di sé, un fruscio, come se Rinoa si stesse muovendo nella poltrona, imbarazzata; decise che quella era una confessione da farle guardandola negli occhi, e voltandosi riprese, "quel giorno ero a capo delle truppe. Mi ero distinto per il mio coraggio, la mia lealtà," e lasciò che una smorfia di disprezzo deformasse il suo dolore, "e Deling ritenne di potermi affidare quel compito così importante. Sapevamo che il discorso dei vostri capi sarebbe stato in piazza; e ci nascondemmo nella redazione di Timber Maniacs in attesa. Credimi, Rinoa," mormorò avvicinandosi e quasi inginocchiandosi di fronte a lei, "non sapevo che li avrebbero straziati davanti a tutti. Hyne, non pensavo nemmeno che li avrebbero uccisi...secondo gli ordini avremmo dovuto soltanto ferirli e catturarli per poi interrogarli...o meglio," una nuova smorfia amara di disprezzo, "questo è quanto venne detto a noi. Il mio coraggio e la mia lealtà non erano abbastanza spietati, per Deling..."

Rinoa osservò suo padre, ancora inginocchiato davanti a lei, tentata di allungare una mano ad accarezzargli i capelli e trattenuta dal bisogno di sentire tutto fino in fondo, e si ritrovò a fissare gli occhi scuri di Caraway quando lui alzò lo sguardo e terminò, "Deling ci diede il segnale di agire. I due cecchini che erano con noi, quando ordinai loro di intervenire, spararono dritto al petto dei vostri capi. Accompagnarono il presidente sul palco e fu allora che capimmo che noi eravamo state solo pedine che Deling aveva sfruttato come meglio credeva."

Quando la vide piegare la testa, come se attendesse una spiegazione più chiara, gli sembrò di avere davanti Julia. La stessa corporatura esile, gli stessi occhi color cioccolato, vivi e intensi come non aveva mai visto in nessuno se non le due donne della sua vita, gli stessi capelli neri, anche se più lunghi, che riflettevano blu sotto alla luce del sole che entrava dalla finestra e sembrava farsi più dolce per accarezzarla, la stessa espressione delicata che aveva nell'ascoltarlo. Gli sembrò di tornare indietro nel tempo, come se fosse tra i pochi fortunati ad avere la possibilità di rivivere il momento che gli aveva distrutto la vita e cambiare le cose, in qualche modo; o per lo meno, tentare di cambiare le cose.

Con gli occhi oramai lucidi, spiegò meglio, "Solo pochi fidati erano a conoscenza delle reali intenzioni di Deling. Sia quel giorno, sia per quanto riguardava la prigione del deserto...io non ero tra quelli. Quando tutto fu finito, fui convocato dal presidente che mi fece velatamente capire che era meglio stendere un rapporto secondo cui i cecchini non avevano agito di testa propria, ma seguito i miei ordini. Poi sono diventato colonnello e ho ottenuto un posto nel governo, che in teoria doveva servire a tenermi buono. In pratica, invece..." un sorriso leggero, malinconico, "in pratica ho favorito la sua morte, con la storia dell'attentato...i cecchini hanno fatto carriera nell'esercito...credo siano stati allontanati solo dopo la morte di Artemisia..."

"Ma perché?" mormorò lei, con la sua espressione da bimba smarrita.

"Perché così ha potuto liberarsi di noi e dei nostri principi. Ha ucciso i capi della Resistenza, deportato gli altri...e si è circondato di chi era meschino quanto lui..."

"Quindi, quei documenti..."

"Non dicevano tutta la verità, Rinoa...dicevano...solo la verità ufficiale..."

C'era una bella differenza. Tra le verità nascoste sotto alla corruzione e quelle che invece potevano essere svelate solo agli occhi di una figlia, pallido sostituto di una moglie perduta tra le lamiere della sua rabbia accecante. C'era una bella differenza tra la verità che aveva ucciso sua madre e quella che le stava rivelando suo padre; tra la verità che li aveva separati e quella che invece li aveva uniti.

Un complotto fin dall'inizio? Era così facile da credere, così difficile da accettare che ciò su cui si era basata per anni non fosse altro che un'altra delle fasulle certezze che Deling aveva offerto in tutto quel tempo. Eppure aveva un senso; nella sua logica, poteva davvero essere accaduto -erano giovani, avevano ideali che avrebbero potuto intralciarlo; avevano un'onestà che lui disprezzava e un coraggio che a lui serviva. Perché non avrebbe dovuto sfruttarli, nella sua malvagità? Perché non avrebbe dovuto allontanarli, nella sua codardia?

Le girava la testa.

Caraway sembrò accorgersene quando, titubante, allungò una mano a sfiorarle il braccio, "Tutto bene...?"

"S-sì," mormorò lei, portandosi una mano alla testa come per fermarne il vorticare; "sì, tutto bene, solo...era un po' inaspettato..."

Lui fece una smorfia che somigliava ad un sorriso triste; "sono contento che tu mi abbia ascoltato..."

"Ascolta," disse lei, aprendo gli occhi di colpo sull'uomo ancora inginocchiato accanto a lei, e prendendogli le mani tra le sue, "i-io non lo sapevo." Quello era ovvio. Possibile che ogni volta che doveva scusarsi si sentiva così, imbarazzata a balbettare scuse inutili e strampalate, incapace di dire quello che davvero aveva dentro? Era logico che non lo sapesse. Hyne, aveva visto solo ciò che era ufficiale, ciò che avrebbe per sempre macchiato il nome di suo padre, tramandato attraverso documenti fasulli e voci dimenticate di testimoni scomodi, cancellati dai registri. "Voglio dire, io..."

"Rinoa, lo so."

Lei tacque un momento; fece un respiro profondo e cercando di calmarsi continuò, "passavo il tempo a chiedermi così tanti perché. Perché non c'era la mamma, perché non potevo stare con te, perché dovevo stare con Elinor. Passavo il tempo a pensare di essere di troppo, come se non mi avessi voluta..."

"Ti ho sempre voluta..."

"Lo so," interruppe lei, quasi stizzita; "lo so. Ma ricordavo come eravamo prima che la mamma se ne andasse. Ricordavo che mi regalavi le formine di cera quando tornavi e che ti piaceva sentirci suonare il pianoforte. Ricordavo...ricordavo che ci lasciavi sempre il giardino delle rose. Ricordavo come eravamo e pensavo che anche se mamma non c'era più, io e te avremmo potuto...riuscirci..."

Toccò a lei alzarsi, e avvicinarsi alla finestra ad osservare il suo fidanzato che là sotto attendeva di vederla tornare in lacrime, comunque; di gioia o di dolore, lui sarebbe sempre stato la roccia a cui aggrapparsi durante la tempesta. Ma suo padre non aveva nessuno se non lei; e lei ora doveva farsi roccia, lasciare che lui s'aggrappasse e piangesse Julia, finalmente, come andava pianta, come meritava di essere pianta.

"Me ne sono andata perché pensavo che tu avessi spezzato volontariamente quello che avevamo. Pensavo che...non ti importasse della mamma, se avevi massacrato i suoi amici e conquistato il suo paese; pensavo che non ti importasse di me, se ti chiudevi qui e non ne uscivi finché io m'ero addormentata."

Posò una mano sul vetro, una carezza lontana al suo fidanzato lontano, oltre la barriera trasparente, giù in quel giardino che ora le sembrava così invitante e in cui voleva correre in fretta; costringendosi a rimanere ferma, continuò, "lo sai come mi addormentavo, papà?", e la voce le si spezzò in un singhiozzo, "mi addormentavo piangendo...piangendo la mamma, piangendo la nostra famiglia. Quando andai via...piangevo. Piangevo quando arrivai e se ho liberato Timber," disse fermamente voltandosi verso suo padre, "se ho liberato Timber è stato per la memoria della mamma. E dei suoi amici."

Lui abbassò gli occhi, lei non riuscì a capire se stesse annuendo o volesse semplicemente evitare il suo sguardo. "E non mi pento di nulla. Non mi pento di aver liberato la città di mia madre, non mi pento di essere fuggita quando pensavo che fosse colpa tua -e volevo odiarti e non ci riuscivo, Hyne, perché tu rimanevi sempre il papà che mi svegliava con una formina di cera..."

Si avvicinò a lui di nuovo, cercando la voce perduta tra i singhiozzi spezzati di bambina; "e mi ha fatto male rifiutarti. Mi ha fatto male quando pensavi di poter decidere per me, mi ha fatto male quando ho avuto paura di tornare e m'hanno fatto male tutti i biglietti e le telefonate e i regali. Non volevo nulla di tutto quello, volevo..." Si interruppe, respirando profondamente per recuperare un po' della dignità che le parve d'aver perso; "volevo solo far felice mia madre. Ricordarla con Timber. E ci sono riuscita...e ci sono riuscita per lei, per me, per tutti noi. Adesso, io..."

Aprì gli occhi che non si rese conto d'aver chiuso; e con un sorriso a metà tra il malinconico e lo speranzoso, terminò, "adesso che ho ritrovato la mamma, voglio ritrovare anche te..."

Aspettò.

Aspettò che l'uomo di fronte a lei registrasse tutto quello che aveva da dire; anche se sapeva che Rinoa era lì per sistemare il passato e andare incontro ad un futuro più luminoso, era strano sentirselo dire. Sconvolgente quanto bastava per fargli tremare le ginocchia e costringerlo a sedersi per terra, con le gambe che non lo reggevano più; sconvolgente quanto bastava per sentire un nodo alla gola, così familiare e sconosciuto, che si era perso dentro di lui alla morte di sua moglie, inghiottito per anni, e aveva ritrovato la strada grazie a sua figlia, che lo tirava fuori dalla sua gola con parole dolci e dolorose, di una malinconia selvaggia d'amore.

L'unico suono, mascherato dai singhiozzi che sembravano fargli esplodere il petto, che riuscì ad emettere fu, "Rinoa..."

"Mi sposo, papà...mi sposo tra un mese." Aspettò la reazione del colonnello, che arrivò in un altro singhiozzo mal trattenuto, e continuò, "e voglio avere dei figli, in futuro...e voglio dare loro anche un nonno..."

Fu come un muro che si sgretolava velocemente e silenziosamente ai loro piedi; Caraway allungò le braccia e si strinse la figlia al petto, piangendo contro la sua spalla tutte le lacrime trattenute in quasi diciassette anni di sensi di colpa, rimorsi e rimpianti per una vita che avrebbe potuto e avrebbe dovuto essere diversa. Se solo avesse avuto più coraggio, più fiducia, più lealtà, meno vergogna e avesse rivelato a sua moglie quello che era successo; se solo avesse avuto meno pudore e l'avesse pianta, con sua figlia; se solo fosse riuscito ad essere meno protettivo e meno invadente -se solo fosse riuscito a trovare il bandolo della matassa di essere padre, Rinoa non sarebbe stata così lontana, e gli avrebbe presentato il fidanzato prima di accettare di sposarlo, e tante altre cose che presumeva facessero i padri quando le loro figlie crescono e se ne vanno, e non sono più le loro braccia a fare da rifugio, e non sono più loro gli uomini che faranno da punto di riferimento.

Tutto quanto un padre fa quando sua figlia diventa ragazza, e poi si fa donna e gli dice che vuole essere madre.

Era un cerchio a cui forse non era ancora pronto, perché lui aveva visto solo il punto d'inizio e il punto di chiusura. Tutto ciò che c'era in mezzo era stato velato di menzogna e dolore, e vergogna e colpa, e lui adesso aveva di fronte una donna che ricordava bimbetta, quando si perdeva nella seta rosa e lui portava una formina di cera.

Tutto quello che era andato perduto. Per lui, per lei, per la memoria di Julia che pulsava nelle stelle di notte, quando anche lui ogni tanto andava a cercare il messaggio scritto per lui nel cielo; perduto per sempre come un cerchio spezzato, come un termometro rotto che perde mercurio. Ogni singola goccia di vita che si era separata per loro, scendendo rivoli diversi lungo un vetro comune e incontrando fini diverse.

Tutto quello che non poteva essere dimenticato e che non si poteva lasciarsi alle spalle, per tutto l'amore del mondo.

Tutto quello che si liberava, finalmente, in un pianto dirotto e privato contro la spalla di sua figlia -non era terribile e meraviglioso che sia figlia avesse un profumo a lui sconosciuto? Se pure avesse conosciuto la sua fragranza naturale, per lui Rinoa avrebbe sempre odorato soltanto di borotalco, come la bimbetta delle sue felicità.

Nelle emozioni che rifluivano dentro e fuori di lui, e nella coscienza del tempo perduto e quello che finalmente gli veniva restituito, Caraway pianse la moglie perduta come avrebbe dovuto fare per anni, rivivendo le voci concitate, le lacrime sue e di lei, il timore che la figlia sentisse, la donna che usciva avvolta nel cappotto per tornare solo chiusa in una bara bianca, le lamiere accattorciate in cui la vita di Julia era rotolata via come una goccia di pioggia. Uguale a tante altre eppure con il suo corso, unico e irripetibile.

Amava Julia, amava Rinoa, e per amore loro le aveva ferite entrambe.

Quando l'emozione smise di frantumarlo nel corpo e nell'anima e gli riuscì di risollevare il volto dal nascondiglio privato che aveva trovato nella spalla di sua figlia, incontrò il volto sorridente e umido di lacrime di Rinoa; "prima t'ho detto che ho provato ad odiarti...Hyne sa che ci ho provato. Ma non ci sono mai riuscita ed è anche per questo che sono qui..."

Lui rimase fermo. Quante cose dovevano colpirlo ancora? Era già esausto; aveva bisogno di dormire e svegliarsi per scoprire che sua figlia era davvero sotto il suo tetto e si lasciava abbracciare, e lo chiamava papà e gli diceva di non odiarlo...un sorriso finalmente vero gli si dipinse sul volto quando lei mormorò, "sono qui perché ti amo, papà. E non voglio che...non voglio che tu rimanga fuori dalla mia famiglia..."

Non era abbastanza eppure in un modo o nell'altro era quanto gli serviva. Tutto ciò di cui poteva aver bisogno. Avrebbe vissuto della sua famiglia nel riflesso di quella di sua figlia; avrebbe fatto il padre nel riflesso di nonno. Rinoa avrebbe creato la sua famiglia. Avrebbe sposato l'uomo che amava -anche se a lui poco piaceva, avrebbe avuto dei figli e avrebbe avuto una famiglia da cui lui sarebbe stato in qualche modo escluso. Ma era abbastanza. Poterla vedere felice era abbastanza; poter pensare di sistemare le cose era abbastanza -una seconda possibilità era abbastanza, più di quanto avesse mai osato desiderare.

"Non succederà," riuscì alla fine a dire lui, "non succederà, vedrai..."

Volle essere lui il primo ad alzarsi, e tendere la mano a sua figlia come segno finale del perdono ricevuto e concesso, come segno di un passato dimenticato e inutile, sprecato a credere a bugie e a cercare di rimediare alla falsità con qualche oggetto costoso, senza mai una vera spiegazione. Tese la mano a Rinoa come segno finale di quello che era stato quel giorno; come se quella fosse davvero l'ultima volta in cui sua figlia sarebbe dipesa da lui -anche solo per alzarsi dal pavimento- e avrebbe poi iniziato a dipendere dall'uomo che la aspettava, giù in giardino.

"Sei felice?"

Lei si era aspettata una domanda del genere fin dall'inizio; conoscendo i sentimenti di suo padre per Squall, non dubitava che le avrebbe chiesto come andavano le cose. Sempre il solito, suo padre. Sorrise. "Sì, sono felice...Squall mi ama, papà."

Lui la stupì, per la prima volta non le disse nulla riguardo al fatto di avere più esperienza e sapere cosa fosse giusto per lei -non fece nessuno dei discorsi a cui si era sempre male adattata fin da ragazzina; Caraway mormorò soltanto, "sì, lo so...adesso lo so." Abbassò gli occhi, fingendo di sistemare qualcosa sulla sua scrivania; e quando alzò lo sguardo su sua figlia, che lo guardava stupita e ancora con la testa piegata -come sua madre, le sorrise e continuò, "non vai da lui, ora?"

Avendo riabbassato gli occhi, non si accorse quasi che lei gli si era avvicinata; sentì soltanto il bacio sulla guancia che lo lasciò di stucco -per quanto Rinoa lo avesse perdonato, capito e ascoltato, non si aspettava gesti d'affetto a breve. Aveva preso l'abbraccio come un gesto di conforto, dettato dal momento difficile che quella conversazione era stata per entrambi; aveva preso le sue domande come la sua ultima occasione di pulire il suo nome, almeno agli occhi delle persone che amava. Rinoa quaggiù, e Julia nascosta tra le stelle. Magari quella sera anche lui sarebbe riuscito a vedere una stella cadente; magari quella sera il bacio di Rinoa sulla sua guancia avrebbe attirato lo spirito di sua moglie a riconciliarsi con il suo.

Esausto, sfinito e felice, si lasciò cadere a sedere, osservando sua figlia che usciva dalla stanza e che, prima di chiudersi la porta alle spalle, mormorò con un sorriso scherzoso, "ah, papà...l'ho trovata."

Lui sorrise soltanto, con un'altra lacrima che gli rotolava sul viso.


Non ebbe bisogno di voltarsi per capire che Rinoa stava correndo da lui.

Forse era il suo istinto da guerriero, che affinatosi con gli anni gli regalava ora la capacità di distinguere il rumore dei passi da quello della corsa. O forse era l'amore per lei, che gli permetteva di riconoscere il suo passo tra mille. Comunque fosse, in qualche modo sapeva che lei stava arrivando da lui; si alzò semplicemente dalla panchina su cui si stava godendo l'aria un po' più fresca del mattino di sole, e si preparò a mantenere l'equilibrio quando lei gli sarebbe saltata in braccio.

E poi ci fu l'impatto del suo profumo, del suo corpo che si schiacciava contro di lui, delle gambe che lo stringevano alla vita, e della risata cristallina che risuonava tra le lacrime, come il suono di un cucchiaio tintinnato contro i bicchieri, a comporre una melodia dolce, acuta eppure sempre delicata, sempre piacevole da ascoltare.

Aveva voglia di ridere, anche lui, quella gioia selvaggia che aveva portato lei a gettarsi tra le sue braccia facendoli cadere entrambi. Per quanto si fosse preparato, lei era stata più forte; vedendola ridere e piangere insieme, sopra di lui, persa nell'azzurro del cielo là in alto, non potè fare altro che sorridere e continuare a guardarla sfogare la sua felicità irreprimibile. La sentì abbandonarsi contro il suo petto, scossa dalle emozioni che la colpivano tutte insieme, tutte d'un colpo; la gioia, la paura che si rilasciava, la frustrazione che se ne andava, il dolore e la rabbia che si scioglievano e si lasciano portare via dalle lacrime che già gli bagnavano la maglietta.

Sollevò le braccia a stringerla, e per lunghi minuti lei rimase a piangere risate contro di lui, inebetita dalle sensazioni al punto di respirare a fatica; solo quando le sembrò di essersi ripresa si sollevò un poco, andando a strofinare il naso contro quello di lui, leggermente, e a mormorare tra i baci, "grazie..."

Lui non rispose, gli sembrò che la felicità di lei fosse al di là di tutto; al di là della sua capacità di capirla, al di là della sua stessa capacità di amarla, al di là di tutti i ringraziamenti che lei poteva sussurrargli tra le labbra e di tutti quelli che lui avrebbe potuto pronunciare per lei, per il modo in cui lo stava coinvolgendo nella sua vita. Poteva solo sperare, mentre se la stringeva al petto, di poterla ricambiare, quando sarebbe arrivata Esthar, e quando sarebbe stato il suo momento, quando sarebbe toccato a lui tornare da lei per riportarle ciò che era successo. Sapeva benissimo che non avrebbe vissuto quell'esplosione di gioia che stava vedendo in lei; non aveva mai avuto quello che -forse- avrebbe guadagnato e non poteva dire cosa gli dispiacesse e cosa gli mancasse. Non poteva nemmeno dire cosa volesse, da Laguna.

Non era nemmeno sicuro di volere qualcosa da lui, e allo stesso modo non era sicuro nemmeno di non volerlo.

Quando lei premette il suo corpo e le sue labbra contro di lui, si ritrovò di nuovo sull'erba verde della residenza di Caraway, ad osservare il cielo azzurro, invaso dal profumo dolce di Rinoa e da quello delle rose, circondato dalla sua voce sussurrata che gli pareva quasi sensuale nel ringraziarlo. Cercando la forza di spingere più avanti le sue preoccupazioni, per dedicarsi a condividere con lei la potenza di quel momento, mormorò, "non ho fatto niente..."

Lei sorrise. Lui non capiva e forse avrebbe capito solo quando i loro ruoli si sarebbero invertiti e sarebbe stata lei ad attenderlo con un sorriso confortante. O forse non avrebbe capito nemmeno allora, ma in quel momento non importava poi molto. Lui aveva fatto sempre più di quanto si sarebbe mai reso conto di aver fatto; e andava bene così, per lei. Le parole a loro non erano mai servite molto e quei grazie respirati tra le sue labbra nel delirio della gioia erano semplicemente inutili, ma necessari. In fondo all'animo lui sapeva -sentiva di dover essere ringraziato e voleva solo che quella serie di suoni un po' abusata gli arrivasse dritta in fondo all'anima, a far risuonare i suoi desideri.

Aveva oramai perso il senso del tempo, con la testa a seguire i battiti del suo cuore, quando lui chiese, incuriosito, "non gli piaccio, vero?"

Lei sorrise, tornando a sfiorargli le labbra, "sta imparando..."

"Glielo hai detto?"

"Sì..."

Per un altro lungo momento rimasero in silenzio, lasciando che la gioia che in qualche modo li aveva investiti entrambi si stemperasse, poco a poco, lasciando dietro di sè il languore di una felicità tranquilla e serena. Poi lui decise di togliersi anche quella curiosità, anche se in fin dei conti non erano affari suoi, perchè anche se l'aveva colto sul fatto e gli era sembrato quasi di scorgere uno sguardo intenerito quando era successo, si trattava di qualcosa del passato di Rinoa, un ultimo omaggio alla bambina strappata alle braccia della mamma, qualcosa da cui lui era escluso; e le chiese, accarezzandole la testa, "anche di stamattina?"

Lei sollevò la testa, per guardarlo negli occhi; con un sorriso un po' malinconico e un po' scherzoso, rispose, "sì, anche di stamattina...e grazie, anche per quello."

Nota dell'autrice: se vi dico che di questo capitolo non mi piace proprio nulla, mi picchiate? ..
Comunque, eccovelo qui. Non è un granchè, ma in questi giorni scrivere mi risulta sempre più complicato. Spero che il risultato sia quantomeno decente per chi legge Volevo, oltretutto, creare un po' di suspance lasciando in sospeso la questione del 'stamattina', senza spiegare cosa fosse successo in modo da poterlo svelare da tutt'altro punto di vista nella prossima parte.
In ogni caso, beccatevi queste quasi 40 pagine di roba O.O Sapete cosa fare, vero?
Ah: il nome Elinor è tratto da "Ragione e Sentimento" di Jane Austen. Volevo creare una figura discreta come lei, che sa amare senza darlo a vedere, delicata e composta nelle sue emozioni. Ovvio che non ci son riuscita Un semplice e stupido omaggio ad un'autrice di cui ho sempre invidiato la capacità di tratteggiare i personaggi minori rendendoli vivi tanto quanto i maggiori.