E come promesso, lascio un capitolo finale con tutta la storia in italiano. :)
Se chiudo gli occhi, ho quasi la sensazione di riuscire ancora a sentire le parole di Mai che mi risuonano per la testa. Non ho mai saputo se, nel pronunciarle, una notte di una vita fa, sapesse quanta verità intrinseca celassero.
"Capitano, ci sono cose che non possono essere controllate, ma vanno vissute. Solo il tempo, porterà le sue risposte."
Il tempo. Il tempo sembra essersi arrestato, questa notte. C'è una sensazione strana, nell'aria: la quiete calma che precede la tempesta. Il vento soffia attraverso il campo, portando con sé l'odore di fiori ignoti, ridisegnando le dune di questo deserto a suo piacimento.
Lei dorme, sul giaciglio spartano costruito alla buona. Non possiamo permetterci il lusso di un vero accampamento, non qui, in questo pianeta dimenticato dagli Dèi. Quattro tende issate su in fretta e furia, a ridosso della nuda roccia di questi monti, dove nascosto agli occhi del mondo dorme il Vettore. Riguardo me, ciò di cui ho bisogno, l'unica cosa di cui ho veramente bisogno, giace al mio fianco. Osservando quell'espressione quieta che solo il sonno riesce a darle, mi chiedo quali sogni le porti in dono la notte.
E mi soffermo a seguire linee di pensiero che vorrei poter cancellare, mentre seguo con lo sguardo le volute di vapore che si alzano dalla tazza di tè. Là fuori, da qualche parte, sento le voci di Youko e Midori accendersi in un principio di battibecco, subito sopite al cambio di direzione del vento.
Domani è il gran giorno.
Domani il Vettore schizzerà nel cuore dell'Universo. Ed io sarò con loro.
Ma per questa notte, per questa ultima notte, siano i ricordi a farla da padrone. Che questa notte riviva ancora, per l'ultima volta, il Capitano Shizuru.
Avevo freddo. Un freddo maledetto. Sapevo che era perfettamente normale, che presto la tuta dinamica avrebbe regolato la mia temperatura corporea e che quella sensazione sarebbe scivolata via, come un brutto sogno. Eppure in quegli istanti non riuscivo a pensare ad altro, se non al gelo che attanagliava ogni mio muscolo, ogni lembo della mia pelle. Il cambio di temperatura, nei voli nuraniani, è assolutamente normale, ma per quanti anni io abbia trascorso a bordo delle navi dell'impero, ogni volta è identica alla prima. Ed il risultato è che non ci si abitua mai.
Il contatto della mano di Nao, sulla mia spalla sinistra, mi costrinse a voltarmi in sua direzione. Il sorrisetto furbo che ben conoscevo, campeggiava al solito sulle sue labbra, senza mai tuttavia illuminarle lo sguardo. Impossibile contare le volte in cui mi ero fermata a riflettere su quel sorriso, fulcro di malizia. Impossibile spiegare a parole la sensazione di pericolo che riusciva a trasmettere. Se c'era qualcuno che non potevo permettermi di sottovalutare, quella era Nao, la mia seconda al comando della Kiyohime.
- Capitano, soliti guai con il passaggio?
A dispetto del sorriso, la sua voce era modulata, tagliente, sorniona. Mi costrinsi a rifugiarmi nel solito tono glaciale, distaccato, di chi non ha bisogno di alzar la voce per comandare e disporre ordini. Quanta sofferenza. Maschere. Sapevo di doverle indossare ad ogni occasione, per non permettere alle cose di sfuggirmi di mano. Shizuru il Capitano. Shizuru la figlia prediletta. Shizuru la gemma della flotta imperiale.
Mi abbandonai lentamente contro la spalliera della mia postazione, stringendo le dita della mano destra contro il bracciolo metallico. Un gesto istintivo, cui tuttavia non diedi più importanza del necessario. Evidentemente la mia autorità aveva ancora un peso e non mi sorprese scorgere Nao, con la coda dell'occhio, riprendere posto nella sua postazione affiancata alla mia.
Intorno a noi, nella sala di comando della Kiyohime, l'equipaggio lentamente riprendeva vita e già sentivo voci concitate dettare i primi comandi vocali per le necessarie correzioni di rotta. Appena un grado fuori dall'asse. Sorrisi, mio malgrado, mentre lasciavo scivolare lo sguardo in direzione di Mai, sollevata a metà fra la sua postazione e la teca di comandi di cristallo azzurro. Come se avesse sentito su di sé il mio sguardo, l'asso di volo della nave si voltò in mia direzione, sollevando la mano destra, indice e medio distesi, ad indicare l'ennesima vittoria. Mai. Sullo schermo di cristallo che campeggiava di fronte al suo volto potevo scorgere chiaramente la figura di Mikoto, sfalsata dalle normali interferenze dovute al "salto", gli occhialini da tecnico scivolati al collo, come un'insolita collana, l'espressione come al solito stralunata, innocente, quasi fanciullesca. Mikoto. Quanto affiatamento ci vuole fra un primo pilota ed il primo meccanico di bordo, per riuscire a traslare una nave come la Kiyohime con l'eleganza di chi è abituato a danzare su di un filo disteso sull'Universo?
Ma non era certo quello il tempo per le riflessioni.
C'era un lavoro da compiere, lo sapevo bene. E bisognava farlo in fretta. Socchiusi gli occhi, traendo un respiro profondo, mentre sentivo l'intorpidimento abbandonare i miei muscoli e riportarmi alla consueta lucidità. Quando la mia voce echeggiò attraverso i diffusori dell'ampia cabina di pilotaggio, sorrisi. Potevo quasi estraniarmi, sollevarmi al di sopra della mia stessa coscienza, volare via, libera, lontano da ogni catena. Ma il tono della mia voce non sarebbe cambiato mai. Sapevo che effetto aveva su chi mi stava vicino, sapevo come poche parole - modulate nell'accento natìo di chi proviene dall'ultimo pianeta sperduto dell'Universo – riuscissero ad infondere calma, serenità, quiete. Una quiete imperturbabile. Non era forse questo il segreto che mi donava il controllo completo sull'equipaggio della Kiyohime? Ma per quanto mi sollevassi con la coscienza verso cieli tersi, non potevo far a meno di lasciar vagare lo sguardo, tornando alla matrice, verso quella superficie imperturbata che come un lago di montagna si rifletteva dai miei occhi agli occhi di chi mi stava intorno.
"Perché, perché non riuscite a scorgere anche voi le correnti di tempesta che s'abbattono al di sotto di quello specchio di quiete? Perché non mi è concesso di gridare tutta me stessa, dal cuore dei miei abissi, spezzare queste catene d'oro e fuggire, fuggire via, oltre la soglia di ciò che è concesso, veleggiare verso ciò che m'è precluso?"
Una parte di me sapeva perfettamente che nessuno avrebbe mai potuto rispondere a quelle domande. Ma l'altra parte di me, quella che ora mi tiene in vita, già allora pregava in silenzio Dèi senza volto e senza nome, alla costante ricerca di uno sguardo che per la prima volta spezzasse la maschera.
- Luogotenente Nao, stabilite il contatto con l'Impero.
Socchiusi gli occhi, mentre la voce di Nao entrava in risonanza con la Kiyohime. Qualcosa si mosse dentro di me. Un guizzo sottile, ad accendermi il respiro, mentre la nave cui ero vincolata accettava gli ordini della Luogotenente e si protendeva verso l'alto. Le teche di cristallo azzurro si mossero, disponendosi al centro della sala comandi, accendendosi in un caleidoscopio di colori che ben presto assunse le tonalità dell'oro e la figura dell'Imperatrice apparve all'interno della cornice sospesa, di fronte al mio volto. Sospirai.
- Ottimo lavoro come sempre, Gemma dell'Impero. Non ci siamo mai spinti nel quadrante di Universo in cui ora vi trovate, non v'è motivo per celare tutta la soddisfazione dell'Imperatrice, per il successo riportato dalla Kiyohime.
La soddisfazione dell'Imperatrice. Sorrisi, mio malgrado. Come poteva una bimba di appena sei anni esser soddisfatta dal volo della maggiore delle sue navi? Catene. Catene che nessuno avrebbe mai potuto spezzare. Catene d'oro, come lo erano i capelli della piccola Alyssa, burattino ignaro nelle mani dei potenti. Catene che nessuno poteva distruggere, non più.
Riportai l'attenzione verso Miyu, che ora scorgevo chiaramente, poco discosta alle spalle dell'Imperatrice bambina. Potevo sentire il suo odio riversarsi verso di me in ogni sillaba, ogni singola parola. In fondo esistevano messaggi che solo noi due potevamo decifrare. Per quanto tempo ancora avrei continuato quel gioco, mi chiedevo, con l'ultima parte della mia coscienza? Quanto ancora le avrei concesso di illudersi di poter farmi del male?
La verità? Sulla faccia dell'Universo non v'era nessuno che volesse affiancare la piccola Alyssa in quel suo destino sacrificato per il bene della nazione. Il potere? In un mondo dove l'unica voce dotata di comando è quella dell'oro, quale principe o principessa avrebbe mai accettato di abbandonare la conquista di scorci di spazio, pur di affiancare… affrancare, la piccola Imperatrice? E chi avrebbe mai potuto schierarsi contro il Senato, vero detentore di potere. Chi avrebbe avuto la forza per contestare ogni singola scelta, ogni singola decisione, ogni tentativo di abuso?
Mi abbandonai contro lo schienale della postazione, sostenendo lo sguardo di Miyu con il solito sorriso di circostanza, quel sorriso che sapeva far male. Sì, qualcuno c'era. Ma quel qualcuno aveva rifiutato già una volta, una vita fa. E mi costrinsi a rispondere.
- Apprendiamo con orgoglio della soddisfazione dell'Imperatrice, sebbene rimaniamo consapevoli di star svolgendo solo il nostro dovere, Alabadàr Miyu.
Non avevo bisogno di riportare l'attenzione sulla donna, per scorgere il tenue sorriso destato dalle mie parole. Alabadàr. Tutore, mentore, e forse qualcosa di più.
Come a tradire le mie supposizioni, quando la sua voce tornò a farsi udire mi sembrò più rilassata, ma nello stesso tempo ancor più triste.
- In ogni caso, non devo essere io a ricordarvi come la vostra missione sia appena iniziata, Gemma dell'Impero. L'Imperatrice attende con ansia il vostro ritorno in patria, per potersi congratulare con Voi in prima persona, tuttavia ci aspettiamo che per allora i nomadi siano stati ricondotti alla giustizia dell'Impero.
Sentii Nao, al mio fianco, irrigidirsi nella propria postazione e digrignare leggermente i denti. Scossi il capo, non potevo permettere che la situazione sfuggisse di mano, a nessuno.
- Siamo consapevoli di quale sia il nostro dovere e non mancheremo di portare a termine la missione affidataci.
Parole di circostanza, diplomazia necessaria, retorica cui avrei fatto volentieri a meno. Riportando lo sguardo verso le teche di cristallo, scorsi la mano di Miyu sulla spalla di Alyssa. L'Imperatrice bambina era pallida, come non l'avevo mai vista. Se la missione fosse stata portata a termine con successo, lo sapevo bene, al mio ritorno in patria il Senato avrebbe imposto il suo volere e questa volta non mi sarebbe stata concessa la possibilità di scegliere. E anche Miyu, in fondo, lo sapeva. E forse... forse non avrei rifiutato. Forse avrei accettato la nuova sfida, fingendo per un solo istante che tale fosse, mentendo persino a me stessa, mentre avrei sollevato i polsi verso l'alto ad accettare le nuove catene, d'oro come i capelli della mia sovrana.
- Gli dèi vi proteggano, Shizuru...
Le uniche, poche parole, pronunciate dall'Imperatrice, risuonarono attraverso la nave come una condanna a morte. Le sorrisi. Non potevo addossarle colpe che, in fondo, non aveva. La comunicazione si chiuse con la consueta scarica di segnale in eccesso.
Adesso sentivo la sala comandi nuovamente immersa nelle operazioni necessarie a far sì che la Kiyohime schizzasse come un proiettile di luce, nel cuore dell'Universo. Ma la mia mente non era lì.
Quella notte non dormii.
Mi risuonavano chiare in testa le poche parole scambiate con Mai e Mikoto, sul ponte sopraelevato della nave. Può la voce assumere la consistenza di un colore? Mentre mi spogliavo della tuta di capitano, decorata da simboli il cui significato era andato perso nel corso del tempo, le voci del primo pilota e del primo meccanico di bordo si affacciarono alla soglia del mio pensiero, velate di rosso cupo, lo stesso rosso cupo delle luci da crociera che ammiccavano all'interno della mia cabina personale.
Dovevo riposare, lo sapevo bene, mentre accarezzavo con la mano destra le lenzuola azzurre, ma il sonno era un miraggio distante, una benedizione che sapevo non sarebbe giunta, non quella notte.
La Kiyohime entrò nuovamente in risonanza con me, come se avesse in qualche modo avvertito il mio stato d'animo. La sua voce fatta di pensieri, priva di parole, mi accolse in un abbraccio caldo, mi cullò. Ma la Kiyohime ero io. Ed io ero la Kiyohime. Non potevamo guarirci a vicenda, questo lo sapevo bene. Come sapevo di non poter condividere da sola il peso di quello spirito, di quell'entità senziente, pulsante e viva. Mi avrebbe distrutto, divorato e consumato. Per questo era necessario che ogni Capitano avesse il suo equipaggio. E per questo prima o poi sarebbe giunto un giorno in cui avrei accettato di perderla, di vedere il sottile cordone ombelicale che ci legava sgretolarsi in polvere di stelle. Stelle... Come stelle erano i miei uomini. Stelle che danzano a contorno della Luna che ammicca alla sua Terra.
Mi abbandonai contro i cuscini, ripercorrendo con il pensiero le parole di Mai e di Mikoto.
- Non ci sono dubbi, Capitano. Stiamo già predisponendo ogni cosa perché la Kiyohime risulti invisibile.
- Nella sala motori è già tutto pronto, attendiamo solo che la velocità si stabilizzi, così come anche le radiazioni post-salto. Sono delle precauzioni inutili, ma preferiamo prenderle.
- Mikoto ha ragione: sparendo alla vista rischiamo di lasciare una scia di radiazioni che potrebbero tradire la nostra presenza, per questo attendiamo che la Kiyohime le assorba, prima di effettuare la manovra.
- Terminate queste operazioni, Capitano, non ci sono più motivi per ritardare l'inseguimento. Soprattutto considerando quanta fortuna abbiamo avuto.
Già, quanta fortuna. Sorrisi loro, dolcemente, forse lasciandole preda del solito consueto stupore, prima di mormorare in risposta: - Lascio tutto a voi.
In realtà, di fortunato in quella faccenda non c'era davvero nulla. L'ultimo volo della Kiyohime era un banco di prova, e questo era chiaro ad ognuno di noi. Un banco di prova che forse era impossibile superare. Forse l'unica ed ultima possibilità di fuga.
Socchiusi gli occhi, ripercorrendo con il pensiero quanto ci attendeva. Per quel che ne sapevamo, i Nomadi di Sharan si spostavano per i quadranti dell'Universo con una velocità ed un'accuratezza da lasciar senza fiato. Nomadi. Strano modo per indicare coloro che altro non erano se non pirati. Ma in fondo, perché dare loro il giusto nome, un nome che evoca una falla nel sistema dell'Impero?
Ed era chiaro che, qualsiasi fosse la loro tecnologia, superava di gran lunga i nostri voli nuraniani. Giustizia. Sorrisi, fra me e me, nella consapevolezza assordante di come la giustizia non esistesse, né fosse mai esistita, non nei cuori dei Senatori dell'Impero.
Osservare l'immensità dell'Universo riusciva sempre a riportarmi alla calma. Seduta sulla solita postazione al centro della sala comandi ascoltavo le parole di Chie, annuendo di tanto in tanto, mentre portavo alle labbra il solito tè alle erbe. Chie aveva le competenze per rivelarsi uno dei migliori capitani, a tempo debito. Astuta osservatrice, si era rivelata più volte indispensabile, per compensare l'indolenza di Nao. Molto probabilmente, ad entrambe sarebbero state assegnate delle navi minori, al ritorno in patria.
Deposi la tazza di tè sul piattino di porcellana, beandomi a quell'unico vezzo cui proprio non riuscivo a rinunciare. Durante la notte, ogni cosa era stata predisposta così come deciso, ed adesso la Kiyohime veleggiava non vista in direzione di un pianeta minore, benedetto dalla presenza sottile di un'atmosfera probabilmente respirabile. Fra noi ed il pianeta, una sagoma traslucida si muoveva con lentezza.
- Dunque non sono consapevoli della nostra presenza?
Chiesi, con voce morbida, in direzione di Chie. Il terzo in comando scosse la testa e si sistemò gli occhialini sul naso.
- Non c'è motivo di pensare il contrario, Capitano. Sanno che l'Impero è alle loro costole, se avessero intuito la nostra presenza, molto probabilmente adesso staremmo inseguendo nuovamente la scia di un fantasma. Probabilmente hanno avuto un guasto. O se non è così, in ogni caso staranno attuando delle opere di manutenzione. Questo spiegherebbe perché ancora non si decidono ad atterrare. Dubitiamo, comunque, che il pianeta sia la loro vera destinazione. Probabilmente, la sua presenza all'orizzonte è solo una mera coincidenza.
Le parole di Chie conservavano la forza di un pensiero razionale, ma qualcosa non mi convinceva del tutto. Al di sotto delle mie dita, sentivo la tazza ormai vuota raffreddarsi, mentre nuovi pensieri facevano capolino nella mia mente. La risolutezza, come al solito, ebbe la meglio.
Spostai l'attenzione su Chie e le sorrisi, prima di chinarmi leggermente in avanti e chiamare sul ponte della nave Mai e Mikoto.
Era il tempo delle scelte. Se la pacata e muta osservazione degli eventi non poteva portare i risultati sperati, non v'era più motivo per cui continuare ad osservare la scacchiera, senza agire.
Quando il primo pilota ed il primo meccanico raggiunsero il ponte della nave, come una sentenza emessa contro il condannato, diedi il via alle operazioni di attacco. Non sapevo, allora, come quella scelta avrebbe cambiato profondamente la mia vita.
A volte chiudo gli occhi e mi fermo a riflettere su ciò che mi circonda. Mi piace pensare che tutt'intorno a noi esiste un disegno perfetto, un ordito che risponde a poche e semplici leggi: le regole dell'estetica, dell'armonia fra le parti.
E' un pensiero che mi accompagna sin dalla nascita. Non ho mai creduto nel destino, men che meno nella forza di entità superiori. Eppure, la consapevolezza di questo disegno, canto d'armonia, mi ha sempre accompagnata durante tutta la mia vita.
Mentre osservavo la battaglia che accendeva lo scorcio di universo di fronte a me, potevo quasi immaginare lo stupore negli occhi di quei volti sconosciuti, dei Nomadi la cui nave veniva ancorata, strappata al controllo, serrata da una morsa ferrea ed invisibile. E non potevo far a meno di pensare quanta eleganza vi fosse in tutto ciò. Sapevo come molti vedessero nella Kiyohime l'arma definitiva, il colosso della guerra, l'apoteosi della distruzione. Quel pensiero riusciva sempre a farmi sorridere, probabilmente perché sapevo dentro di me come non esistesse nulla di più falso al mondo.
Cos'era, la Kiyohime? Serbo ancora dentro di me il ricordo dolce e malinconico al tempo stesso della prima volta in cui scorsi i suoi contorni affusolati, i riflessi d'ametista sul suo muso proiettato verso l'alto.
C'era l'orgoglio del vincitore, negli occhi dei miei genitori. Non guardavano me, non la tuta che per la prima volta indossavo o il mantello decorato d'oro e d'argento. Non pensavano al patto, non riflettevano sull'unione di intenti. Catene. Ciò che vedevano era solo la nave imperiale e la Gemma dell'Impero.
Quando sedetti per la prima volta sulla postazione di comando, seppi che la mia fanciullezza era finita per sempre. Le responsabilità mi investirono con forza, ma lasciai che si scontrassero contro la maschera di pacatezza che da sempre indossavo. E quando sentii il suo cuore pulsare a ritmo con il mio, seppi che la stessa maschera avvolgeva la nave. Noi saremmo divenute il canto dell'Impero, la glorificazione dell'eleganza intrinseca che soggiace a tutte le cose. Lo specchio di perfezione che nasconde valli di dolore. E non avrei permesso a niente e nessuno di cambiare quella pura e semplice verità.
E' così che mi piace ricordare la Kiyohime. Ed è così che mi piace ricordare quel giorno di una vita fa, acceso dai bagliori di una nave che tenta di sottrarsi al suo controllo con le forze residue del cervo disperato, di fronte al cacciatore.
Cedettero. Non potevano fare altrimenti. Avevamo impedito loro ogni manovra, ogni tentativo di fuga, non c'era modo perché la nave sfuggisse al nostro controllo. Com'eravamo stolti. Non ho mai saputo se il mio fosse stato un errore di valutazione genuino, o se in fondo la parte più nascosta di me abbia deciso di concedersi il lusso di quell'errore, proprio perché tale era. Adesso che importanza ha?
Ricordo i festeggiamenti nella sala di comando, la voce di Chie che straripa dai diffusori della nave per congratularsi con tutto l'equipaggio. Ricordo il freddo intenso della tazza da tè, contro le mie dita, ed il pensiero che vaga verso il futuro che mi attende. E ricordo come dovevo apparire, agli occhi dei miei ragazzi. Il sorriso disegnato sulle labbra, gli occhi socchiusi e velati di soddisfazione, la muta compostezza nell'esaltazione della vittoria. Quante maschere si è disposti ad indossare, pur di non rivelare la propria natura, pur di non mettere a nudo le ferite del proprio animo?
Credo sia stata quella, la prima volta in cui la vidi.
Natsuki Kuga.
Le immagini della cattura dei Nomadi di Sharan venivano trasmesse attraverso le teche di cristallo della sala comandi. Quanta istintività c'era, in ogni suo movimento? Possibile avesse sentito già allora il mio sguardo su di lei? In quale altro modo potrei spiegarmi l'intensa occhiata che parve oltrepassare lo spazio ed il tempo, pur di raggiungermi? Haruka, responsabile delle forze d'assalto, scortava con naturale pomposità il gruppo di nomadi, sfoderando sorrisi a destra e sinistra. Ma io non riuscivo a distogliere lo sguardo da quella figura in tuta da volo nera. Le catene che fermavano i suoi polsi, catene d'energia stabilizzata, così concrete, così reali, mi riportarono alla mente ben altre catene: le mie.
Non avevo bisogno di chiedere delucidazioni. Dal modo in cui veniva scortata, era ovvio che fosse lei l'artefice di tutto, era ovvio che la giovane dai capelli scuri, lo sguardo intenso degli occhi di giada, altro non era se non il capo dei Nomadi di Sharan. Al suo fianco, si muoveva con ritrosia una donna di qualche anno più grande, dalla chioma leonina, dai riflessi ramati. Le occhiate che lanciava in direzione di Haruka, ogni qual volta strattonava le catene di Natsuki, mi lasciarono intendere l'inizio di una battaglia che non avrebbe avuto mai fine. Avrei appreso il suo nome più tardi, insieme a quello dei maggiori fra i Nomadi di Sharan. Natsuki, Midori, Akira, Takumi, Yukino, Youko... nomi che non avrei più dimenticato.
Mi sollevai con lenta compostezza dalla mia postazione, chiedendo a Chie di iniziare le operazioni per il rientro. Desideravo lasciare quello scorcio d'universo il prima possibile. Desideravo tornare ad una casa che non avevo. Ma più di tutto, desideravo dimenticare quello sguardo, perché dentro di me avevo la consapevolezza che se l'avessi incrociato, anche solo per un istante ancora, tutte le maschere chiamate in mia difesa si sarebbero distrutte al tocco ribelle del pirata.
Quanta ingenuità. Stavo già cedendo, e non lo sapevo.
La voce di Nao mi raggiunse sul ponte panoramico della Kiyohime. Sinuosa come al solito, beffarda, maliziosa. Nelle ultime ore ogni cosa era stata preparata per dare il via alle operazioni di rientro. Occorreva soltanto il mio comando definitivo, perché la nave imperiale rientrasse nei cieli conosciuti dei domini imperiali. C'era tuttavia una cosa ancora da fare, una cosa cui per quanto volessi, non potevo sottrarmi. Il motivo della presenza di Nao, in fondo. La conoscevo fin troppo bene, per non sapere quanta gioia sadica si nascondesse dietro ogni suo gesto. In ogni caso, era pur vero che in quanto Capitano della nave, era mio dovere recitare ai nostri prigionieri i loro diritti, diritti il cui significato era andato ormai perso, formule prive di significato, attraverso le quali, altri si sarebbero fatti forti, da lì a qualche giorno. Pensai inevitabilmente ai Senatori, seduti pomposamente sulle loro poltrone di velluto, ammantati in cappe decorate d'oro e d'argento e mio malgrado sorrisi.
Liberai lentamente la presa del polso destro, che tenevo vincolato con la mano sinistra, dietro la schiena, e con fare accomodante chiesi a Nao di rientrare nella sala comandi, mentre mi apprestavo ad allontanarmi dal ponte, per raggiungere il cuore nascosto della nave, là dove erano detenuti i Nomadi di Sharan.
Trovai Haruka immersa in una feroce discussione con uno dei membri del gruppo d'assalto, un giovane slanciato, dall'aspetto solido, che non poté far altro se non stringersi nelle spalle, alla mia vista. Quando mi rivolsi alla giovane dai capelli chiari, la stessa mi investì con una raffica di parole, il dito indice puntato contro di me, l'espressione truce che avrebbe dovuto essere minacciosa, ma risulta solo ridicola. Parole su parole. Qualcuna di esse mi rincorre ancora. Bubuzuke. Sapevo come gestire le sfuriate di Haruka ed in fondo la sua ferrea determinazione, l'innata capacità di scagliarsi contro il destino, qual che esso fosse, erano doti che mio malgrado dovevo riconoscerle. Doti da sfruttare, certo, ma pur sempre concrete. Le rivolsi il mio miglior sorriso di circostanza, complimentandomi per la riuscita nella missione ed affidandole al contempo il grosso del lavoro: la "concessione" di recitare i diritti imperiali ai Nomadi prigionieri, ad esclusione di Kuga, di cui mi sarei occupata personalmente io.
Così come avevo disposto ancor prima della cattura, al capo dei Nomadi era stata assegnata una cella singola, nel cuore della nave. Una precauzione necessaria, che al contempo si rivelò l'ennesimo sbaglio. Forse, se avessi incontrato Natsuki in compagnia del resto dei Nomadi, dei Pirati, di quel gruppo eterogeneo di zingari, forse in qualche modo ne sarei uscita vincitrice.
Invece, nella penombra della cella, in quell'istante sospeso, c'eravamo solo lei ed io.
Ricordo con vivida chiarezza la luce soffusa che filtrava attraverso le sbarre di energia elettrostatica. Ricordo il giaciglio spoglio in cui sedeva, spalle al muro, le braccia abbandonate sulle ginocchia sollevate. Ogni cosa in lei inneggiava alla ribellione, ogni singolo movimento era l'esaltazione di un odio sottile ed innato per il mondo intero. Non ho mai provato interesse per le altre persone. Immersa in quell'incessante flusso di responsabilità, ho sempre visto chi mi stava accanto con gli occhi di chi deve conoscere, sapere, gestire. Non nego di aver incontrato nel corso della mia vita poche rare eccezioni a questa regola, figure verso le quali a lungo andare sentivo di provare affetto. Ma la prima volta in cui lessi nello sguardo di Natsuki, compresi come qualcosa di sottile si stesse incrinando, dentro di me.
Credo sia questo il fardello di chi è costretto a primeggiare in tutto. A lungo andare ci si scopre circondati da volti in venerazione, da voci inneggianti, da folle in tripudio. Natsuki era diversa. Pacatamente, com'ero solita fare, in quel tono dolce che riservo al mondo, le elencai i suoi diritti, chiarendo i motivi della loro cattura ed il loro destino. Piccole concessioni che sentivo necessarie, ma il pirata non accennava a dar peso alle mie parole. Guardava un punto imprecisato della cella, con l'espressione contrita di chi sta per scagliare una maledizione contro l'universo. E' stato allora che me ne sono innamorata? E' stata la consapevolezza di quanto differente fosse dal resto della gente? O forse il desiderio prepotente che si voltasse a guardarmi, mentre le parlavo, che come tutti gli altri anche lei cedesse – lei, che unica non l'avrebbe mai fatto – a me?
Il sorriso obliquo, disegnato sul mio volto, probabilmente tradiva il dispetto per quella situazione così bizzarra, una situazione che non sapevo gestire. Fuori dalla cella, sentivo i movimenti dei miei uomini. Dedicai a Natsuki un ultimo sguardo, prima di augurarle buona fortuna. Ma quando mi ritrovai a pochissimi passi dalle sbarre della cella, la sua voce mi raggiunse, in quel tono basso che avrei imparato ad amare. Non c'era paura, né preoccupazione, men che meno stupore o rispetto. Qualcosa di distante, piuttosto, che sembrava danzare attraverso ogni singola parola. L'eleganza innata del ribelle.
- Così sei tu, il Capitano della Kiyohime.
Mi voltai lentamente, giusto il tempo per scorgere l'ombra d'un sorriso ironico disteso sulle sue labbra, che lentamente si estingueva e poi moriva del tutto. Quando sollevò lo sguardo degli occhi chiari ad incontrare il mio, sentii il mio cuore perdere un battito. E qualcosa di viscerale, muoversi in me. Non sapevo dargli il giusto nome, non allora. Oggi so bene cosa provai, di fronte a quello sguardo. Oggi so, quanto desiderai Natsuki in quell'istante.
- Shizuru Fujino...
Risposi, a suo beneficio, senza neanche accorgermi d'aver omesso il titolo che da sempre mi contraddistingueva. Bizzarrie di un destino già in movimento?
- Finalmente conosco lo sguardo del cacciatore.
Fu tutto ciò che mi disse, in risposta. Poche parole, sussurrate in una cella vuota e scarna. Parole cui in altre occasioni, se pronunciate da altre figure, non avrei mai dato peso. Ma dunque cosa aveva innescato quel malessere sottile che potevo quasi sentire in ogni parte di me? Il tono? Il suo sguardo? La consapevolezza di un mondo diverso, benedetto da un altro sole, dove i gabbiani volano sulle distese del mare. Scorgere, con gli occhi chiusi, la superficie di quel mare attraversata da onde e correnti che non hanno motivo per nascondersi.
Non aggiunsi altro. Che bisogno c'era?
Mi voltai e lentamente uscii dalla cella di Natsuki. Con ferma ed imposta eleganza, ammantando ogni mio passo in quell'armonia fittizia e costruita, raggiunsi le mie stanze e mi ci barricai dentro. Il sussulto che la Kiyohime mi trasmise, mi fece capire di aver imboccato un tunnel, dalla quale sarebbe uscita una Shizuru diversa. Spalle al muro, scivolai lentamente in terra, e rimasi così, nella stessa identica posizione in cui avevo trovato Natsuki, all'interno della sua cella, un sorriso sottile disegnato sul volto. Il sorriso di chi comprende improvvisamente ogni cosa, di chi vorrebbe scappare ma sa di non poterlo fare, non più. Il sorriso di chi scorge, per un istante, il riflesso del proprio cuore nello sguardo in un'altra creatura vivente. E se ne innamora.
Non so quanto tempo rimasi seduta in terra, spalle al muro, a guardare verso l'altro senza tuttavia vedere ciò che mi circondava. I pensieri si rincorrevano nella mia mente, impetuosi, e questo era quanto.
Il segreto del disegno d'armonia che avvolge ogni cosa si chiama incastro. A nessuno sono chiare le circostanze che vi danno vita. Quando accade, c'è solo la consapevolezza di frammenti di stella che tornano ad unirsi in un abbraccio eterno. Il segreto dell'incastro, è la capacità che hanno due creature, diverse come il giorno e la notte, di cercarsi in ogni istante della loro vita. Un gioco di sguardi che non finisce mai.
Dentro quella cella, nel cuore pulsante della mia Kiyohime, Natsuki ed io ci abbandonammo ai primi passi di danza. Non abbiamo ancora smesso.
Sapevamo a quale infermo avevamo aperto le porte della Kiyohime? La presunzione è sempre stata uno dei miei limiti. Allora, più che mai, credevo che non esistesse qualcosa che potesse sfuggire al mio controllo e seguire diramazioni sue proprie, cui non ero in grado di porre un freno. Sì, certo, la facilità della conquista della nave dei Nomadi di Sharan mi aveva insospettito. Ormai da anni veleggiavamo alla loro ricerca, muovendoci come un ragno su di una ragnatela distesa sull'Universo conosciuto. Una corsa senza fine che terminava così, nel più semplice e banale dei modi, in un quadrante inesplorato dello spazio conosciuto?
Mai doveva aver intuito qualcosa dei miei pensieri. La vidi raccogliere qualche foglio, sistemarlo, e poi venirmi incontro, verso la postazione al centro della sala di comando. Lasciai che il suo sguardo d'ametista, si perdesse per un istante nel mio, rosso cupo, prima di dedicarle un sorriso sincero. Il primo da tanto, troppo tempo. La vidi sedere ai miei piedi, appoggiandosi con le spalle contro lo scranno, al mio fianco, e tirando su le ginocchia, verso il petto, dove appoggiò le braccia.
- Torniamo a casa, vero Capitano?
Cosa potevo dirle? Sentivo la nostalgia che avvolgeva ogni sua parola e qualcosa di sottile, che riconobbi come paura. Lì, nella Kiyohime, c'erano i due soli della sua vita. Mikoto e Tate, uno dei ragazzi del gruppo d'assalto. Se il Senato avesse imposto davvero le mie nozze con Alyssa, nozze politiche, il cui unico scopo era quello di avere una personalità forte e soprattutto amata dal popolo sul trono, probabilmente sarebbe stato ordinato il disarmo della nave imperiale. Sorrisi amaramente, sporgendomi in avanti ed appoggiandole la mano destra su di una spalla, per un brevissimo istante, in uno di quei gesti all'apparenza privi di importanza. Guardavamo entrambe il ponte di comando, quasi del tutto svuotato del suo equipaggio, ora che ogni cosa era tornata ad una quiete canonica. Cercai di rendere ferma la mia voce, mentre tornavo ad elencare i nostri doveri al mio primo pilota, ma sapevo bene che attraverso la mia voce dolce stavo cercando di convincere me stessa, prima ancora che lei.
Da lì a qualche ora, quando le ultime operazioni per verificare la resistenza della nave di Sharan fossero state completate, avrei dato il comando per il rientro, e saremmo andati tutti incontro al nostro destino, con il capo sollevato dei vincitori.
Ci credevo davvero? Ero veramente convinta di quel pensiero?
Non fu un sorriso di speranza, quello che si aprì sul mio volto, che accese il mio sguardo, quando Mikoto piombò all'interno della sala comando della Kiyohime con l'espressione sconvolta, lo sguardo stralunato, la paura a contrarre i muscoli del suo viso, mentre ci comunicava la realtà dei fatti? Sì, era speranza, la mia. Una speranza cieca ed una gioia che sentii ruggire, amplificata dalla Kiyohime, io che sola potevo avvertire il cuore pulsante della mia nave.
- Capitano, brutte nuove dalla sala motori. Signore non possiamo fare il salto: la nave di Sharan... la nave di Sharan...
La voce di Mikoto si perse in mille parole, farfugliate, vomitate l'una dietro l'altra, accompagnate da gesti rapidi, improvvisi, nervosi, da sguardi lasciati saettare verso Mai, gli sguardi di un cucciolo che cerca il rifugio delle braccia del suo padrone, che cerca il sostegno di una voce cara. Non l'ascoltavo già più, perché sapevo perfettamente di cosa stesse parlando.
La nave di Sharan non poteva sostenere un volo nuraniano. Le sue componenti non erano tali da resistere a quel tipo di disintegrazione e conseguente ristrutturazione della materia. Dietro il mio solito sorriso di circostanza, mille pensieri si muovevano alla rinfusa. Sapevamo che la nave dei Nomadi aveva sostenuto viaggi di portata ben maggiore, fra quadranti dell'Universo remotissimi fra loro. Ma dunque com'era possibile, cosa stava accadendo? Lasciai vagare lo sguardo verso il ponte, ed inevitabilmente soffermai l'attenzione sul pianeta distante, piccola gemma verde e azzurra, in lontananza. Mi sollevai dalla mia postazione e raggiunsi una delle teche di cristallo che trasmetteva le immagini dell'esterno della nave e tutto mi fu chiaro: avevamo catturato la nave sbagliata.
Eppure, c'era ancora qualcosa che non mi tornava. Se la nave non era altro che una trappola, qual era lo scopo dei nomadi di Sharan?
Mi distaccai lentamente dalla teca di cristallo e lasciando alle mie spalle Mai e Mikoto immerse nelle loro congetture, mi avviai a passo svelto verso il cuore della nave. Dovevo capire, qual che fosse il prezzo da pagare.
Trovai Haruka immersa nell'ennesima lite furibonda con uno dei suoi ragazzi. Non mi ci volle molto a riconoscerlo. Tate se ne stava a capo chino, gli occhi socchiusi, le sopracciglia contratte, ad ascoltare le parole di Haruka che si riversavano in sua direzione come un fiume in piena. Non dedicai loro molta attenzione, mentre scivolavo al loro fianco e raggiungevo le celle dei prigionieri.
Quanto beffardo può essere il sorriso di uno sconfitto? Immagino che l'espressione disegnata sul mio volto, in quell'istante, dovesse tradire tutto il mio stupore, la mia incredulità e qualcosa di molto simile all'indignazione. Al centro della cella dove avevamo rinchiuso il grosso dell'equipaggio di Sharan, una giovane dai capelli disordinati mi guardava con un'espressione furba nello sguardo, appena velato dagli occhialini sul naso.
Tutt'intorno alla sua figura, una serie di miraggi tremolava e scompariva, sotto i miei occhi stupefatti. Credo sia stata la prima volta nella mia vita in cui ebbi davvero paura. Il timore cieco e innaturale che mi attanagliava ogni muscolo, impedendomi di voltarmi verso la cella dov'era segregata Natsuki, nella consapevolezza di non poter accettare la realtà dei fatti, se anche Kuga si fosse rivelato un miraggio. Ma dalle mie spalle, giunse chiara la sua voce, ribelle come suo solito, velata dall'ombra della vittoria.
- Yukino!
Un comando secco, imperioso, tipico di chi non si fa scrupoli nel colpire, e a cui rispose la voce quieta della ragazza che avevo di fronte a me. Risuonò armoniosa, colpendomi con la consapevolezza di un pugno nello stomaco, mentre il suono di un'unica parola si spandeva nell'aria rarefatta.
- Diana!
Diana. Diana. Diana.
Riecheggia ancora dentro di me, ogni singolo istante della mia vita. Un comando vocale, semplice, efficace, dettato in direzione di qualcosa che oggi definirei un parassita bionico e senziente. Un parassita che aveva preso possesso della Kiyohime, nelle poche ore in cui credevamo d'aver portato a termine la nostra missione. Quanta stoltezza. Quanta ingenua, dannata stoltezza. Non mi ero forse persa nello sguardo di Natsuki, mostrando così il fianco? Non avevo forse sottovalutato i segnali che la nave mi trasmetteva? Credevo soffrisse insieme a me. Ed invece un cancro maledetto la divorava da dentro.
Sentii il legame con la nave incrinarsi e poi spezzarsi con uno schiocco sonoro, mentre scivolavo in terra e sentivo le mie energie abbandonarmi in un flusso ininterrotto. Quando sollevai lo sguardo, non mi stupii nel ritrovarmi ad osservare Natsuki, china leggermente in mia direzione, a studiarmi con una nota di livido rancore ad infiammare le due gemme di smeraldo incastonate in quel suo volto affilato. Nonostante tutto, non potevo far a meno di pensare quanto avrei desiderato averla a fianco. Essere l'unica creatura, sulla faccia dell'Universo, cui fosse destinato qualcosa di diverso da quella rabbia cieca ed innata. Forse, dentro di lei qualcosa avvertì questa mia esigenza, e non posso far a meno di pensare, forse con una punta d'orgoglio al ricordo, a quel velo di improvvisa timidezza che ombreggiò i tratti del suo viso, per un brevissimo istante. Non sono in grado di spiegare come o perché, ma in quell'attimo sospeso nel tempo capii quanta fragilità si nascondesse dietro quello sguardo duro, ribelle, impetuoso.
Un mondo fatto di cristalli sottili si palesò nella mia mente. Era come se in lontananza sentissi le prime note di un'arpa, pizzicate da dita sapienti, rimbalzare su vetri e diamanti, per rifrangersi in quello strano gioco di luci che accendeva il suo sguardo. Perché? Perché non trovavo parole, mentre lentamente mi risollevavo sui gomiti, per affrontare il mio destino? La sagoma scura della canna di un disintegratore si protendeva come un ponte d'ossidiana fra me e lei, ma il mio sguardo rimaneva fisso nel suo e nuovamente quel lampo di improvvisa vulnerabilità fece capolino sul suo volto. La vidi accendersi, come una fiamma sfiorata dal vento, come se la parte più vera e più intima del pirata stesse reagendo inevitabilmente a... a me.
E poi vidi infiammarsi qualcosa di simile alla sfida, in quelle finestre spalancate sul mondo. Era lì, e con la sua presenza mi invitava a fermarla, se ne fossi stata in grado. Un invito che ebbi la sensazione di veder tramutare in una supplica senza voce. Non avrei mai avuto la forza per fermarla e così semplicemente mi abbandonai all'indietro, ed i miei occhi si chiusero in un sonno senza sogni.
Quando ripresi conoscenza, capii subito di trovami distesa sul mio letto. Il parlottare sommesso che proveniva dalla mia destra mi infastidiva. Era come se non riuscissi a distinguere chiaramente le voci, come se fossi circondata da estranei. Mi resi conto d'essere intorpidita e quando scorsi la figura del dottor Reito, accompagnato dalla sua assistente, la dottoressa Yukariko, seppi che la mia non era solo una sensazione.
Mi raccontarono, con tutto il tatto di cui furono capaci, di come Haruka e Tate mi avessero trovato in balia di Kuga, china su di me ed evidentemente pronta a farsi scudo con la mia persona, pur di ottenere quanto desiderato. Mi dissero del gettito di vapore che la Kiyohime rilasciò contro i due membri del gruppo d'assalto, permettendo la fuga a Kuga ed alla ragazza che si era rivelata il vero genio della loro missione. Mi confidarono di come la nave non rispondesse più a nessun comando vocale, sebbene fossero integre ed intatte tutte le componenti fisiche, e di come tracce di un'entità senziente, evoluta tanto quanto la stessa Kiyohime, avesse filtrato tutti i dati presenti nel nostro database. Una sola traccia era stata rinvenuta dal gruppo di intelligence, guidato dal primo tecnico informatico Akane. Un nome. Non avevo bisogno di sentirlo pronunciare ancora una volta: si era radicato dentro di me come un marchio a fuoco che non andrà più via. Diana.
Sentivo le loro parole scontrarsi contro la diga della mia indifferenza, mentre tornavo ad accasciarmi sui cuscini del mio letto. C'erano troppo cose su cui dovevo necessariamente riflettere, per la prima volta nella mia vita. Verità nuove, nuove consapevolezze, nuove prospettive. Il freddo intenso della paura tornò ad attanagliarmi con forza, mentre i due dottori lasciavano le mie stanze.
Come dovevo apparire, ai loro occhi, in quell'istante, mi chiesi? Chiusa in una maschera di pacato distacco che crolla su sé stessa, come dovevo sembrare al mio equipaggio. Il mio equipaggio. No, non lo era più. La Kiyohime era andata perduta per sempre, che diritto avevo di chiamarmi ancora Capitano?
Scesi lentamente dal letto dove riposavo, lasciandomi accarezzare dal brivido di freddo quando i miei piedi nudi entrarono in contatto con il metallo spoglio della nave.
Mi rivestii con lentezza, dando ad ogni gesto il giusto peso, gli occhi chiusi del samurai che indossa la sua armatura prima di andare in battaglia, la sacralità di ogni movimento in quello strappo di tempo irreale.
Non mi stupì scorgere la figura di Mai, ferma nel corridoio di fronte a me quando lasciai le mie stanze, gli occhi distolti di chi non riesce a fronteggiare la realtà dei fatti, o forse di chi non vuole sollevare lo sguardo per non ritrovarsi ancora una volta preda di un sorriso che non dovrebbe campeggiarmi sul volto. Mai più.
Le diedi le spalle, attendendo che trovasse la forza per parlare. Sapevo esattamente cosa stava per dirmi e lasciai che le sue parole mi scivolassero addosso, come pioggia, mentre il mio primo pilota stentava a mantenere fermo il tono di voce, contratto dalla rabbia.
- Nao ha abbandonato la nave con l'unico vascello minore dotato di motore nuraniano.
Sorrisi a quelle parole, attese. Mi resi conto di come avessi perso anche la capacità di lasciarmi stupire, o forse la capacità di fingere stupore.
- Entro qualche giorno, una settimana al massimo, sarà di rientro nei quartieri imperiali. Capitano, inizieranno le operazioni di recupero per la Kiyohime e non ci sarà modo... non ci sarà modo...
No, non ci sarebbe stato modo per sottrarsi al nostro destino.
Tornai a voltarmi in sua direzione, stupendomi quasi dell'abbraccio entro la quale la strinsi, per un brevissimo istante. Proprio perché non c'era modo, allora era il caso di andare incontro al nostro fato con il capo sollevato ad affrontare la realtà dei fatti. Mi sovvenne il ricordo dell'harakiri, praticato millenni prima, da coloro che abitavano le mie terre di origine, e sorrisi.
Mai si liberò dal mio abbraccio, asciugandosi le lacrime con un gesto rabbioso e pronunciò la mia condanna.
- Capitano, ci sono cose che non possono essere controllate, ma vanno vissute. Solo il tempo, porterà le sue risposte.
Mai. Davvero avevi scorto dentro di me così in profondità? Davvero avevi compreso, tu unica fra tutte, come lo specchio si stesse sgretolando, mettendo a nudo i vortici del mio pensiero? Ci sono notti in cui mi fermo ad osservare Midori e Youko, becchettarsi vicendevolmente fra le dune del deserto. E mi ricordo di te e di Mikoto.
Spero ardentemente che il piccolo gatto selvatico trovi la via per conquistare il cuore della fenice e che anche tu possa trovare il segreto della felicità.
Uno scorcio di paradiso. Non ci sono altre parole per descrivere la nostra scogliera, non è così, Natsuki? Un rivolo di fumo si alzava dalla sinistra, là dove la scialuppa aveva toccato terra, danneggiandosi irrimediabilmente. Volute bianche, sospinte dal vento verso un cielo terso, benedetto da una coppia di soli. L'avevo fatto davvero? Oh si, l'avevo fatto veramente.
Non ricordo con esattezza i gesti, né quegli istanti vissuti con concitazione. C'erano cose che andavano vissute, in fondo, no? Avevo lasciato la Kiyohime e il suo equipaggio al loro destino, andando incontro al mio. Adesso, mi rendo conto di quanto folle e stupido fosse il mio gesto: non c'era niente che lasciasse pensare che il gruppo dei nomadi fosse davvero accampato in quel pianeta dimenticato dagli Dèi. Mi ero davvero lasciata guidare dall'istinto? Io, la razionale e cinica Shizuru? O semplicemente quella parte di me che già ti apparteneva aveva tracciato i sentieri da seguire per ritrovarti?
Non ebbi bisogno di voltarmi, quando l'eco dei tuoi passi mi raggiunse riecheggiando sulla pietra nera, nella luce del tramonto. E non avevo bisogno di chiedere, di dar voce ai miei dubbi, perché sapevo che le risposte le avrei trovate in te e con te.
Rimasi ad osservare il cielo terso, mentre sedevi pacatamente sulla nuda roccia, al mio fianco. Mi chiedo se hai mai saputo quanto desideravo abbracciarti, rimanere con te per sempre, in quell'istante. Ma c'erano ancora barriere da abbattere. Le tue. E le mie.
- Sapevo che saresti venuta, alla fine.
La tua voce spezzò il flusso dei miei pensieri, riportandomi alla realtà dei fatti. Con la solita, innata pacatezza, mi voltai ad osservarti ed era come se ti vedessi per la prima volta. Mi resi conto di non poter tacere, di non poter fermare il flusso di domande. Mi resi conto d'aver bisogno di sapere. Portai la mano destra a fermare una ciocca di capelli, impedendo al vento di velarmi lo sguardo, mentre con voce morbida ti chiedevo:
- Perché?
Non potevo scorgere il tuo viso, mentre osservavi il mare sotto di noi, ma nella tua voce scorsi l'ombra di un sorriso. Risposte chiare, le tue, razionali, a tradire la volontà ferrea di chi desidera poter raggiungere i propri obiettivi, qual che sia il prezzo da pagare.
- Avevamo bisogno di conoscere il legame fra una nave imperiale ed il suo Capitano, per poterlo riprodurre fra me e il Vettore. Questo era il modo più facile. Si è rivelato anche efficace.
Tornai a voltarmi verso il sole maggiore che tramontava di fronte a noi, lambendo con la sua sagoma infuocata le distese dell'oceano. Le tue parole avevano il peso di una condanna a morte. Era davvero così? Era davvero tutto lì? Sentivo il tuo sguardo, adesso, su di me. Uno sguardo infuocato cui decisi di non sottrarmi.
- Mi odi davvero così tanto?
Banalità pronunciata per riempire quell'istante di silenzio fattosi improvvisamente troppo pesante, spesso come una cortina di nebbia sulle montagne natìe.
- Odiarti?
C'era incredulità in quella domanda, stupore, mentre distoglievi lo sguardo da me, per riportarlo verso il mare, e l'ombra dell'imbarazzo si disegnava sul tuo volto, imporporandoti le guance. Come potevo sottrarmi a tutto ciò, Natsuki? Sedetti al tuo fianco, sulla sinistra, lasciando vagare l'attenzione sull'immensità tinteggiata d'oro e porpora, non potendo far a meno di notare quanta armonia ci avvolgesse, quanta musicalità. La tua risposta risuonò cupa, velata dal solito rancore verso il mondo intero.
- Come potrei odiarti. Tu, sola fra tutte, hai continuato a dare un senso alle mie azioni, da anni a questa parte. Una rincorsa contro il tempo, cui forse non avrei mai dato fine.
- Ma l'hai fatto. Perché?
Sapevo che stavi cercando le parole dentro di te, risposte più efficaci di quelle che probabilmente avevi fornito alla tua gente per spiegare quell'improvviso contatto. E sentivo quella strana alchimia danzare fra di noi, in un gioco di sguardi che si cercano senza posa.
- Anche il pirata ha bisogno del porto franco in cui rifugiarsi, quando il mare è in tempesta.
Ah Natsuki. Hai idea di quanto m'abbiano fatto sorridere quelle poche, semplici parole, velate da una timidezza infinita, dall'ammissione disarmante di una tenerezza malcelata? Mio ribelle pirata, mio nomade senza posa, mia condanna, hai mai capito quanto in fondo esse abbiano scavato dentro di me? Dentro di noi? Così dissimili, eppure così dannatamente uguali? Credo sia stato allora che la consapevolezza del nostro disegno m'abbia raggiunta nella sua luminosità raggiante. Ogni volta che cedi, ogni volta che rifuggi il mondo, non è forse verso di me che protendi tutta te stessa. E non sei forse tu, unica fra tutte, a riuscire a scorgere dietro le mie maschere la tempesta che divora ogni cosa. L'unica in grado di amarmi per ciò che davvero sono e non per ciò che mostro d'essere? Non so quante e quali parole avrei voluto pronunciare, ma ricordo con chiarezza lo scambio che seguì, mentre qualcosa di sottile si insinuava dentro di noi, vincolandoci per sempre.
- E' per questo che hai strappato le mie catene?
Ti sentii irrigidirti al mio fianco, stringendo le dita a pugno, contro la nuda roccia della scogliera. Ancora una volta, le tue parole furono velate dalla rabbia e dal rancore. Potevo sentirle come scariche d'energia, vivide e reali. E mi chiedo che ne sarebbe stato di me, se oltre quelle parole non avessi scorto, nuovamente, l'ombra della timidezza accendersi nei tuoi occhi verdi, subito sfocata da una profonda malinconia. Una tristezza antica e profonda, la nostalgia di un cuore puro, costretto dal fato ad una vita di sofferenza.
- Non so perché l'ho fatto. Sapevo che avremmo continuato a rincorrerci all'infinito, ma volevo davvero un'occasione, una sola, per perdermi un istante nello sguardo del cacciatore.
Scossi la testa, divertita ancora una volta da quel gioco delle parti che non ha più avuto fine. E' stato allora che decisi di abbracciarti. Non senza impaccio, sentendoti contro di me per la prima volta, irrigidita in quel contatto che non capivi, che forse non accettavi. Quanto tempo è trascorso, prima che riuscissi a rilassarti fra le mie braccia, Natsuki, lo ricordi? Il sole ormai tramontato non mi permetteva di scorgere l'imbarazzo che danzava sul tuo volto, mentre i nostri respiri lentamente assumevano lo stesso ritmo. Quanto tempo rimasi, così, con te fra le mie braccia, ad osservare le prime stelle, assaporare per la prima volta il tuo odore, desiderando maledettamente di più?
Quando la mia voce tornò a spezzare la quiete serale, il buio era sceso su di noi, avvolgendoci in un abbraccio clemente.
- Cosa devo fare, adesso, Natsuki. Cosa devo fare, con te.
Come se avessi avuto davvero la possibilità o la forza per far qualcosa di differente dall'amarti con tutta me stessa. Un accenno di risata ti fece sussultare contro di me, mentre appoggiavo il mento sulla tua spalla sinistra, persa ad osservare la distesa d'ossidiana che si apriva di fronte a noi. C'era nell'aria l'odore del mare che si confondeva al tuo e da qualche parte, in lontananza, udii l'accendersi d'un canto, subito soffocato nella notte, al cambio del vento. E quanto stupore, nel sentire le dita delle tue mani intrecciarsi alle mie, prima concessione al nostro rapporto, a noi due?
- Davvero hai bisogno che ti dica cosa fare?
No, non avevo bisogno delle tue parole. E quando cercai e trovai le tue labbra per la prima volta, Natsuki, hai idea di quanta gioia abbia riempito la mia vita, mentre ti sentivo sussultare e poi cedere? Non è così ancora adesso, ogni singola volta? Come se lo stupore per questa semplice benedizione non sia venuto mai meno? E non ti sento viva, ogni istante, ogni volta come allora, quando ti sorprendo in un abbraccio di soppiatto che irrigidisce ogni parte di te?
Ed è forse con questi pensieri che lascio sul basso tavolino della tenda spartana la mia tazza di tè alle erbe, scivolandoti al fianco nel tuo giaciglio e scoprendomi ad osservarti mentre, serafica, dormi del sonno dei giusti.
Sai che non posso farne a meno, vero?
Quando ti sfioro le labbra con un bacio leggero, ti sento mugugnare nel sonno. Dormi, mia condanna. Domani il Vettore lascerà questo piccolo pianeta, ed io sarò con te. Nomade che ha ritrovato la via di casa.
