Sullust
Ves era stanca. Stava vagando tra sistemi sconosciuti e irrilevanti da una settimana. Sui documenti di viaggio la sua nave trasportava minerali e metalli per edilizia civile, una copertura abbastanza innocua che non destasse troppa curiosità quando era costretta ad attraccare in qualche spazioporto per rifornimenti e sgranchirsi le gambe.
Aveva tracciato la rotta per il sistema di Sullust, senza pensarci. Aveva bisogno di scendere da quella nave e dormire in un letto vero per una notte o due e mangiare cibo decente e Sullust, sebbene non fosse un pianeta lussureggiante e accogliente, rimaneva uno dei luoghi più sicuri e tranquilli per chi, come lei, voleva evitare l'Impero.
Quando il computer di bordo le segnalò che si trovavano nelle vicinanze, riprese i comandi e uscì dall'iperspazio.
Lo spazioporto era immerso nelle attività frenetiche della mattina. Stando all'orologio planetario, erano le dieci, orario perfetto per fare colazione.
Raccolto lo stretto necessario in un piccolo zaino, lasciò la sua nave ormeggiata al molo, raggiunse la stazione e da lì salì su un trasporto che la portò nella città più vicina.
Prima di trovare una stanza da qualche parte, decise di fermarsi in un locale per mangiare un boccone e dare un'occhiata alle notizie locali, così, perché non si può mai essere sicuri a volte.
Fece colazione, scambiò qualche parola con il gestore e, verificato che la situazione in quei giorni fosse calma, si fece indicare un posto dove poter prendere una camera a buon mercato.
Il pomeriggio lo spese facendo un lungo bagno caldo e quindi una meritata dormita.
Quella sera si ritrovò in un locale non molto distante dalla locanda dove alloggiava. Aveva provato a fare due passi nel piccolo centro, ma i negozi erano tutti chiusi e c'era poco da vedere. Sullust era un pianeta vulcanico, con vaste e brulle pianure di terra nera e spoglia. Qua e là oasi di vegetazione crescevano lungo i corsi d'acqua e sulle rive degli oceani. Ma nella zona dove si trovava, Ves aveva visto solo grandi distese nere e desolate. In lontananza aveva scorto grappoli di luci tremolanti, l'orizzonte reso irregolare da rilievi poco importanti. Il traffico di veicoli era assente, la poca gente che aveva incrociato si muoveva a piedi.
Non le dispiaceva starsene seduta al bancone a bere una birra, sola, senza nessuno con cui forzare una conversazione fasulla. Cercò ci concentrarsi sulle cose semplici: il prossimo pianeta, il prossimo carico. Cose così. Aveva imparato da qualche anno a non pianificare troppo.
Ma a volte il suo istinto lavorava senza che lei ne fosse cosciente. Si rese conto dopo qualche secondo che tutti i suoi sensi erano concentrati su un giovane operaio, almeno sembrava un operaio, da poco entrato nel locale. Non lo vedeva, ma l'aveva avvertito, sapeva che era lì, seduto al bancone come lei, qualche sgabello più in là, curvo sul suo bicchiere. Due cose di quel ragazzo spiccavano alla sua attenzione: la prima, che il ragazzo aveva i capelli rossi, cosa rara, a meno di trovarsi su Chandrila; la seconda che, sebbene all'apparenza sembrasse farsi i fatti suoi, continuava a lanciare occhiate veloci e furtive all'enorme specchio dietro il bancone.
Lo fece anche lei, più per reazione che per reale interesse. Lo specchio non era perfettamente perpendicolare, ma leggermente inclinato, così da mostrare cosa si trovava sotto i tavoli del locale. E vide ciò che il ragazzo stava vedendo: un gruppetto di uomini, anche loro sembravano operai, che indossavano stivali di pelle neri con punte in duracciaio.
Merda.
Scansionò il locale, alla ricerca di porte non marcate. Ne individuò un paio.
Cinquanta e cinquanta.
Diede un'ultima occhiata alla birra bevuta a metà davanti a sé.
«Ehi, c'è un bagno qui?» chiese al barista, alzandosi.
«Certo. La porta in fondo al locale.»
Ves andò sicura sulla porta a destra, quella sul lato del bancone. Mentre varcava la soglia, fece finta di non sentire la voce del barista che l'avvertiva di aver sbagliato porta.
Si ritrovò in un piccolo corridoio scarsamente illuminato da piccole feritoie appena sotto il soffitto, da un capo uno sgabuzzino aperto, dall'altro un'altra porta.
Si precipitò verso quest'ultima e si ritrovò in una stanza dominata da una piccola tavola al centro e scaffali mezzi vuoti alle pareti. Un angolo della stanza era nascosto dagli scaffali, lo raggiunse e vide che c'era un'altra porta, piccola e non automatica, mascherata da alcuni ganci e qualche giacca appesa.
Avvertì dei passi provenire dal corridoio. Si rannicchiò dietro le mensole, premendo l'intero peso del corpo contro la parete, un occhio all'ingresso della stanza.
Era il ragazzo del bar. Si guardava intorno e alle spalle. Sembrava di fretta.
«Chi cazzo sei?» gli chiese, uscendo dal suo angolo.
Il ragazzo alzò le mani. Aveva un piccolo fulminatore alla cintura, ma non lo estrasse. Strano.
Quando vide che non era armata, abbassò le mani.
«Nessuno.» rispose.
«Quegli imperiali, cercano te?»
«Sono appena atterrato su questo pianeta. Erano già qui quando sono entrato.»
«Non significa nulla.»
Il ragazzo la fissò strizzando gli occhi.
«Magari cercano te.»
Ves valutò l'ipotesi, ma la scartò subito: aveva fatto un lavoro meticoloso per rimanere sotto i radar e non attirare l'attenzione. Almeno fino a quel momento.
«Questo sistema è una base sicura per l'Alleanza e i suoi simpatizzanti. Potrebbero essere qui per mille motivi.»
«Vediamo di non dare loro un motivo in più per essere qui.» tagliò corto il ragazzo. Fece due passi e si mise a esaminare la seconda porta.
«Ci deve essere un comando da qualche parte. Cerca sotto quelle mensole.»
Ves iniziò a tastare con le mani tra barattoli e contenitori.
Non trovarono nulla, iniziarono a guardare entrambi in ogni direzione.
Gli occhi del ragazzo si illuminarono. Si avvicinò al lavello sulla parete opposta, premette entrambi i pulsanti sopra il bocchettone dell'acqua. La porta davanti a loro scattò, aprendosi di un paio di centimetri.
«Un lavello senza scarico non ha senso, che dici?» disse il ragazzo passandole davanti e aprendo la porta del tutto. Ves vide che, sotto la vasca, non c'erano in effetti tubature.
«Hai occhio» gli concesse.
Lo seguì oltre l'uscita, si ritrovarono in un passaggio ancora più angusto e umido. Il ragazzo tirò la porta che si richiuse pesantemente.
«Non vedevo una porta battente da quando ero bambina» osservò Ves.
«Vieni dal Nucleo.»
«Da cosa lo deduci?»
«Nell'orlo esterno si usano ancora le porte battenti. Sono più economiche.»
Il sorrisetto furbo del ragazzo si spense subito, sembrava in ascolto. Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro.
«C'é del trambusto nel locale. Dobbiamo muoverci.»
Le passò davanti e iniziò a penetrare nell'oscurità che si snodava alle loro spalle.
«Sei un Jedi» bisbigliò Ves, raggiungendolo.
Il ragazzo continuò a camminare senza guardarla. Raggiunsero degli scalini che scendevano di qualche metro.
«Siamo sotto il livello della strada ora» dedusse il ragazzo.
Ves ignorò l'osservazione, continuando a pressarlo.
«Quei tizi con gli stivali neri non stanno cercando me, stanno cercando te!»
«Sono gli Inquisitori che danno la caccia ai Jedi, non gli imperiali.»
«Quindi sei un Jedi?»
«Sono abbastanza furbo da non rimanere nella stessa stanza quando ci sono gli uni o gli altri.»
Ves si fermò.
«Come ti chiami?»
Ancora nulla.
«Anche mio figlio era un Jedi. Era un'apprendista, a dire il vero: si trovava al Tempio Jedi durante l'attacco.»
Il ragazzo fece un paio di passi prima di girarsi verso di lei. Qualcosa nel suo sguardo le spezzò il cuore.
«Cal. Il mio nome.»
«Io sono Ves. Come hai fatto a sfuggire all'Ordine 66?»
Cal abbassò lo sguardo.
«Il mio Maestro …»
«Ti ha protetto?»
Cal annuì.» Lui non ce l'ha fatta.»
«Mi spiace.»
Rimasero fermi per un secondo. Poi Cal riprese a camminare.
Dopo qualche metro trovarono altre scale che risalivano; alla fine, una porta che dava su un piccolo magazzino. Erano due vie più in là rispetto al locale. Rimasero accovacciati, spiando la strada attraverso delle fenditure nella parete.
«Come si chiamava tuo figlio?»
«Goran. Me lo portarono via. Ho cercato di contattarlo, ma venivo continuamente respinta. Non l'ho più rivisto. Vivo.»
Cal la guardò, lo stesso sguardo triste di prima.
«Non ricordo mia madre. Ricordo il suo profumo, ma nient'altro. Neanche il suo nome.»
Ves rimase in silenzio per qualche secondo, non trovando nulla da dire.
«Dobbiamo tornare allo spazioporto» disse, passandosi una mano sulla guancia umida e tirandosi in piedi.
Cal si raddrizzò, lo sguardo triste scomparso. Uno squittio agitato attirò la sua attenzione e si chinò a terra.
«BD-1! Da che parte, amico?»
«Cos'ha detto?» chiese Ves.
«Gli imperiali si sono divisi: alcuni stanno risalendo il cunicolo; altri sono usciti in strada. Ci stanno cercando.»
«Come hanno fatto a scoprirci?»
«Non saprei, forse non siamo stati così discreti come pensavamo.»
Ves sbuffò impaziente.
«Cosa ci fanno degli imperiali su questo pianeta? E perché travestirsi da locali? Pensano che la gente non sappia riconoscerli?»
«Un forestiero in fuga forse no.»
Ves valutò la cosa per un attimo. Cal continuò.
«Andiamo, dobbiamo raggiungere lo spazioporto.»
«Ho la mia roba alla locanda.»
«Dimentica la locanda. Dobbiamo sbrigarci.»
«Ci sono dieci chilometri da qui al porto. Ci raggiungeranno.»
«Dici?»
Così dicendo, Cal uscì dal magazzino, mentre il piccolo droide che aveva chiamato BD-1 gli si arrampicava sulla spalla come un pappagallo.
Ves lo seguì lungo i vicoli bui del villaggio fino a uno speeder.
«È tuo?»
«No» fece Cal, salendoci sopra.
«Salta sù.»
Ves si guardò intorno incredula, ma non se lo fece ripetere due volte.
Attraversarono la landa desolata e scura nel buio più totale.
«Ci vedi?» urlò Ves alle orecchie del ragazzo.
«Sempre.»
Si ritenne soddisfatta e si rilassò, stringendosi più forte. Chissà quanti anni aveva? Venti? Venticinque?
Raggiunsero la loro destinazione in pochi minuti.
«Hai una nave?» gli chiese Ves.
«No. Ero sceso su un trasporto» rispose vago Cal.
Ves non volle indagare.
«Se ti serve un passaggio, ho una cuccetta libera sulla mia nave. E il tuo droide si può ricaricare.»
«Non vorrei metterti nei guai …» esitò lui.
Ves fece una smorfia.
«Per quello è tardi, direi.»
Cal non rispose, sorrise debolmente, improvvisamente timido.
«Vieni, meglio lasciare il pianeta in fretta.»
