I seem to have attracted a troll reviewer, please just ignore them!
L'unica ossessione che vogliono tutti: "l'amore".
Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi?
La platonica unione delle anime?
Io la penso diversamente.
Io credo che tu sia completo prima di cominciare.
E l'amore ti spezza.
Tu sei intero, e poi ti apri in due.
Philip Roth
L'animale morente
Un mattino di primavera a Parigi
Perché non torni...tutto sarà come prima?
No, non posso tornare...
Perché...
Perché nulla potrà essere come prima.
André Grandier era diventato un uomo - lo era certo, anche prima - ma adesso era come impastato d'una mascolinità lontana, sorta d'incanto sbocciata via dalle mura domestiche, addomesticata dalla natura, dalle ronde, dalle battaglie, dai lavori di forza, dalla sopravvivenza necessaria, che non ragiona di logica ma di solo istinto.
Era sempre il nipote di Madame Marron Glacé, ma in fondo era un altro.
Non era stato l'amore compiuto, ma l'amore grezzo, forgiato da mani sapienti, lavorato, faccia dopo faccia, a mutare in splendido diamante, impossibile da ricollocare entro la stessa cornice d'un tempo.
Aveva commesso un errore. Era stato egoista.
Aveva tentato di dimenticarla.
L'aveva addomesticata e senza accorgersene, lei aveva addomesticato lui.
Non come un tempo, fedele servo dedicato a lei.
Ma come amante segreto, talmente oscuro che non c'era più alcun luogo degno di lui, neppure, per paradosso, il più recondito, entro il cuore dell'altra.
Aveva tentato di dimenticarla e, come un idiota, s'era ritrovato lei incapace di dimenticarlo. E allora era stato costretto a disilluderla, a mutare addestramento.
La quotidiana mollezza della vita d'un tempo gli dettava un non so che senso di soffocamento, di angusta repulsione.
Amava sua nonna, forse lei aveva anche ammesso con se stessa ch'era stato il demonio a congiungere le due anime.
Non poteva restare nella casa di un tempo. Non poteva essere demone entro le stesse stanze ove camminava il suo angelo.
Nanny aveva abbozzato un sorriso lieve, contratta.
Lui stesso, intendendosi esser stato troppo rude, aveva fatto per allungare la mano, accarezzare la testa, un gesto impercettibile che non avesse dettato eccessiva pietà per l'altra, i capelli ordinati entro la cuffietta bianca, che nanny era sempre stata forte, forse davvero abbastanza per non vedere ciò che accadeva.
Forse per questo l'aveva accarezzata, perché lei non aveva mai fatto caso a quel demonio che s'aggirava per la casa.
E ora invece si ritrovava comprensibilmente disorientata, che aveva da poco riveduto suo nipote, la speranza di riaverlo a casa era divenuta spessa e possente come un magone che aspetta solo un'immagine per sciogliersi in sorde lacrime.
Il magone era rimasto lì, aggrovigliato in gola, con lo stesso spessore d'una forte illusione spezzata.
Perché non posso. Non potrei più tornare a casa Jarjayes...
Nanny aveva abbassato il capo, le mani strette nelle mani, l'espressione dura alla domanda che André aveva sussurrato, perché sapeva di ferirla, sapeva di metterla alle strette, sapeva che nanny amava la sua padrona forse più di se stessa.
Continuerai a prenderti cura di lei?
Nanny sapeva che il nipote contava sul suo senso del dovere, sul rispetto delle regole, sulla fedeltà alla famiglia che aveva servito da anni.
Impossibile immaginare che il nipote e la donna per cui quello aveva lasciato la Francia - perché era per lei che André aveva abbandonato tutto - sarebbero potuti tornare a vivere sotto lo stesso tetto.
Nanny ora comprendeva meglio il distacco di Mademoiselle Oscar François de Jarjayes.
Come darle torto?
Come non convenire che l'altra avesse avuto ragione di restare in disparte in tutta quella faccenda per non rischiare di disonorare il nome della famiglia Jarjayes?
Che gli era saltato in mente ad André d'andare a innamorarsi proprio di lei, di Mademoiselle Oscar…
Continuerai a prenderti cura di lei?
Il volto forzatamente stupito dell'altra.
Nanny aveva chiuso gli occhi, come incapace di rispondere, intuendo la stranezza della dolorosa constatazione, che continuare a prendersi cura di mademoiselle avrebbe significato non rivedere più suo nipote, ossia non averlo più in quella casa dove lei stessa l'aveva portato tanti anni prima.
Le due circostanze non avrebbero più potuto coesistere e il fatto di ritrovarsi divisa tra i due affetti non consentiva a Madame Glacé sufficiente lucidità per dare una risposta sensata e definitiva.
La mente vagava nel passato, si rifugiava nei tempi antichi quando tutto era più semplice, quando bastava qualche biscotto a riappacificare gli animi tra i due bambini.
I suoi bambini non erano più bambini.
Non avrebbe avuto più senso chiedere perché.
I suoi bambini erano cresciuti.
Nanny non aveva saputo nulla e in realtà aveva sempre saputo tutto.
Dunque non aveva avuto senso chiedere ancora, perché le sembrava che André non avesse in animo di discutere di quella faccenda.
Aveva promesso che sarebbe tornata a trovare il nipote e il piccolo Argo e gli occhi erano davvero strabuzzati quando avevano incontrato la figuretta piccina e muta di Victoire Jenevieux che suo nipote aveva apertamente appellato come figlia.
Dunque è vero?
Le spiegazioni erano state scarne, c'era poco da spiegare.
E' come fosse mia!
Il luogo deputato per l'incontro era una modesta stanza che dava su Rue de la Contrescarpe, un'ampia strada quasi in periferia, dalle parti di Fabourg Saint Antoine, lontano da sguardi indiscreti, ronde, domestici ficcanaso e chiunque altro avesse avuto in animo di scorgere in quell'incontro una qualche tresca che avesse fatto capo alla famiglia Jarjayes.
Madame Glacé non era rimasta che un paio d'ore, come stranita, incapace di credere d'essere stata condotta lì per incontrare il nipote finalmente libero e che dopo, altrettanto velocemente, sarebbe stata ricondotta a casa Jarjayes.
Non una parola di quella faccenda era sgusciata dalla bocca di Oscar François de Jarjayes. I dettagli dell'incontro le erano stati comunicati da un certo Monsieur Bahamut, domestico tuttofare di Monsieur Girodel.
Mademoiselle...
Non si era neppure degnata di renderla latrice d'un qualche affetto, d'una qualche parola di bentornato da recare ad André.
Come stava?
Come sarebbe vissuto lontano da casa Jarjayes?
Soprattutto...
Perché?
Pareva davvero che Oscar François de Jarjayes avesse cancellato la figura di André Grandier o, peggio ancora, non l'avesse mai conosciuto.
Nanny aveva chiesto se lui e i bambini sarebbero rimasti a vivere in quella stanza.
Troppo grande, troppo costosa...
Come farai?
Ho qualche soldo da parte...
Ma i due bambini dovranno mangiare? E i vestiti?
Domani andremo a cercare tutto il necessario.
André non se l'era sentito di spiegare a sua nonna che la stanza era stata affittata solo per pochi giorni.
Quando Monsieur Bahamut l'aveva accompagnato sin lì, aveva fatto portare i suoi pochi effetti, una sacca con i vestiti con cui si era cambiato prima di essere ricevuto dal re, e un piccolo baule con qualche carta di viaggio, poche camicie e due paia di scarpe.
André non aveva più nulla ormai.
Eccetto che...
Tra le mani, ritto, sotto la pioggia incessante che appiccicava i capelli e inumidiva la visione dell'altra che scompariva, via via inghiottita dai marmi lucidi della reggia - come si conveniva a una donna a cui era stato insegnato ad amare e poi a odiare quella parte di sé che aveva imparato ad amare, così che l'orgoglio s'era frantumato in mille pezzi e mille ancora - aveva stretto le lettere di credito ricevute da Sua Maestà, assieme al foglio vergato dall'ufficiale di stato civile in cui si dichiarava che il latore di quel foglio era André Grandier e che André Grandier era il padre di Victoire Jenevieux e dell'indiano Argo Grandier.
Victor Girodel si era fatto carico di tutte le incombenze. Sorprendente l'efficienza d'un nobile ufficiale quando deve lavarsi la coscienza.
E ancora più sorprendente che un nobile si fosse messo così di solerzia al servizio d'un plebeo.
Veloce, premuroso e gentile.
Di certo tutto era stato messo in atto per disfarsi della presenza ingombrante del servo di casa Jarjayes.
Passarlo a fil di lama non sarebbe servito, perché tutti ormai sapevano del silenzioso e intenso legame che univa il servo alla sua antica padrona.
A farlo marcire in una dimenticata colonia penale neppure, perché parimenti famigerato era divenuto il grande sacrificio che André Grandier s'era adoperato di caricarsi sulle spalle, e che doveva restare segreto, sulla faccenda del naso del re…
E poi perché quel legame – quell'altro, il primo - avrebbe rischiato di diventare eterno.
No, era stato stabilito che André Grandier sarebbe stato libero, e sarebbe vissuto lontano ma non troppo, magari impegnato ma non troppo, così che sarebbe stato spina nel fianco dell'antica padrona, odiato per ciò che era stato, che non c'è peggior odio di quello generato dal piacere soffocato tra i capelli e la carne umida del sesso.
Quel tanto insomma che sarebbe bastato a suscitare sulle labbra dell'altra una ruvida maledizione piuttosto che un sospiro di piacere.
Il passato pulsava ancora, la gola come chiusa da un nodo scorsoio che recava il nome dell'altra, dunque si doveva fare in modo che esso non avesse più alcun effetto sui protagonisti della vicenda.
La stanza conteneva tre letti, un armadio, tre sedie, un tavolo e null'altro.
Le coperte e alcune vesti per i bambini le aveva procurate Madame Glacé.
Alla donna si era stretto il cuore quando, ormai la stanza immersa nella penombra della sera, era stata costretta ad alzarsi per andarsene.
Nonna, non hai risposto alla mia domanda…
In silenzio, bocca chiusa, labbra serrate, ormai nanny sapeva ogni cosa, non era certo se nel silenzio malediceva il nipote oppure lei, la sua bambina.
Che destino ingrato...
Nonna, sai che non è colpa sua. Non puoi negarle di continuare a fare ciò che hai sempre fatto per lei...
E nanny provava rabbia perché pareva che il nipote lo facesse apposta di scacciarla via ma era parimenti adirata per via di quel senso del dovere che l'avrebbe per sempre legata a casa Jarjayes e su cui contava André, per allontanarla.
Che bellimbusto!
Muta, Madame Glacé era stata sul punto di scoppiare a piangere, perché la coscienza non accettava di doversi dividere tra i due affetti, ma soprattutto il cuore sentiva che uno dei due affetti non pareva degno dell'affetto dell'altro e dunque lei non solo era presa tra due fuochi ma stava inesorabilmente finendo per parteggiare per uno di essi.
Non era saggio parteggiare per una sola parte.
Il buon cuore di nanny non ammetteva parti distinte ma un tutto unico, granitico e sano.
Nonna!?
Va bene!
L'aveva ammesso alla fine, l'anziana governante, più per non far preoccupare il nipote che non perché davvero quella situazione si fosse risolta nel modo migliore.
E se invece André Grandier fosse tornato a casa…
Con due mocciosi al seguito?
Sarebbe stato necessario chiederlo al padrone, d'accettare altre due bocche da sfamare.
Diavolo d'un nipote!
A Madame Glacé pareva quasi l'avesse fatto apposta – suo nipote – a metter su famiglia, così d'avere una scusa più che retta, a prendere le distanze da casa.
Quelli potevano anche esser suoi figli, per davvero, la mocciosa di certo…
Sarebbe stato poco dignitoso vivere tutti sotto lo stesso tetto.
Forse allora, piano piano, appariva più limpido comprendere come mai Mademoiselle Oscar avesse consentito a quella separazione e non si fosse opposta alla partenza di Argo ed alla vita dei due bambini lontano da tutti.
Perché un servo avrebbe dovuto chiedere il permesso del padrone per portarsi appresso il proprio figlio – anzi addirittura due - ma poi, si sarebbe dovuto comprendere da dove fosse spuntato il moccioso o la mocciosa e come ammettere la convivenza sotto lo stesso tetto con...
Lei...
No, non era bene, non si poteva imporre un figlio nella casa del padrone.
O forse sì, ma non sarebbe stato così grave come imporre a lei la presenza dell'antico servo, di colui ch'era divenuto altro.
§§§
Si guardarono i tre.
Le presentazioni tra i due mocciosi erano state dirette e sobrie. Nessun accenno alle storie da cui quelli provenivano, Era bastato che quelli si osservassero, ammettendo d'avere un solo punto in comune, altrettanto sconosciuto ma di affabile presenza e sorriso sincero.
Ossia un padre.
Argo pestava per uscire.
Victoire era ancora stranita dalla nuova famiglia da cui era circondata. Una strana famiglia.
Improbabile, a dirla tutta.
Tutto d'un colpo, pressoché in una sola giornata, si era ritrovata con un padre e con un moccioso più grande di lei che aveva tutta l'aria di volersi prendere cura di lei.
D'improvviso, lei ch'era sempre stata sola al mondo, non vedeva più se stessa dispersa entro i mille rumori della città, i suoni ovattati e lontani della campagna, le parole sgarbate, il nome ripetuto solo per ricevere ordini.
Tremava la mocciosa, stentava a crederci...
Non rammentava nulla di quel padre e non gli pareva fosse davvero suo padre. Ma era un uomo gentile.
Anche l'altro uomo era stato gentile, ma giusto il tempo del viaggio che si era concluso nella grande città e quello l'aveva scaricata a terra, con gentilezza certo, due dita al tricorno e se n'era andato. Non l'aveva veduto più.
Si guardarono di nuovo i tre.
André si alzò dalla sedia, che Victoire chiuse gli occhi stringendo le palpebre forte forte, immaginando che in quell'istante lei si sarebbe svegliata dal sonno, col sogno a infrangersi contro le geometriche strisce di luce che saettavano entro la stanza, riflesse nei vetri della finestra che la vicina di casa aveva improvvisamente aperto e poi richiuso.
Spade mortali fatte di luce cangiante...
"Avrete fame immagino?" – chiese André che persino lui non era poi così a suo agio.
Argo annuì, Victoire rimase muta.
André allungò la mano per indicare alla bambina di avvicinarsi.
Quella fece un passo, attese che il bel sogno svanisse colpito da un'improvvisa folata di vento.
"Dunque...ecco..." – esordì André – "Io non sono mai stato padre, voi siete i primi...figli...".
Che Victoire quasi smise di respirare.
"Il destino mi ha concesso in dono proprio voi. Insomma, se vi chiedo se avete fame...immagino di sì perchè non so neppure cosa avete mangiato ieri, mi piacerebbe saperlo e vorrei che me lo diceste. Non so che mangiano i bambini o quante volte. Io da bambino mangiavo tantissimo, avevo sempre fame".
"E tua nonna ti preparava i biscotti giusto?" – replicò Argo che evidentemente doveva saperla lunga o forse semplicemente nanny aveva raccontato anche a lui i risvolti dei bei tempi antichi.
"Esatto! Dunque vi vanno i biscotti?" – insistette André, che Victoire annuì piano con la testa.
"Bene...allora usciamo...andremo a comprare biscotti e poi a cercare una vasca da bagno, piatti e bicchieri per mangiare...".
"E che ci mettiamo nei piatti e nei bicchieri!?" – l'interruppe Argo.
"A voi che piacerebbe!?".
"Pollo e patate!" – ammise Argo...
"E tu?" – gli occhi verdi si volsero a occhi parimenti chiari seppur un poco spaventati.
"Una...crostata di…" – pigolò Victoire incerta – "Mele?".
"E allora pollo e patate e mele e crostate siano! Si va tutti...".
"E la vasca?" – chiese Victoire di colpo entrata nel vortice del discorso e adesso s'era incuriosita e i timori parevano via via scivolarle da dosso come gocce d'acqua respinte da una superficie oleosa e lucida.
Un passo, le mani chiuse nelle mani, gli occhi verdi sospesi al dolce sguardo del giovane uomo che la guardava.
"Beh..." – André si grattò la testa – "In effetti prima dobbiamo trovare una casa adatta per andarci a vivere e poi...in una stanza si può mettere una vasca da bagno per lavarsi...dove vi piacerebbe vivere?".
"Ma...ma...possiamo scegliere..." – domandò Argo sgranando gli occhi –"Anche la casa?".
"In un certo senso...dipende...intanto voi ditemi in quale casa vorreste abitare?".
"Una casa alta…col tetto che guarda il cielo!" – sferzò Argo – "Così Pur potrà volare libera e io la aspetterò e lei tornerà da me!".
"Già...è vero..." – André tirò un respiro fondo, lo sguardo si posò sulla bestiola incappucciata che se ne stava mite e sottomessa su una specie di trespolo collocato in un angolo buio della stanza.
Il cuore si contrasse alla vista della bestiola quasi incatenata ma non era possibile fare altrimenti. Finché Pur non avesse avuto un luogo stabile ove tornare, avrebbe rischiato di perdersi e finire catturato da qualche cacciatore di piccioni!
"Un giardino..." – sussurrò quasi piangendo Victoire, che persino lei comprendeva che il suo desiderio cozzava con quello del moccioso, che una casa su all'ultimo piano d'un palazzo non avrebbe potuto avere un giardino e mica si poteva abitare in un palazzo intero, e avere anche il giardino – "Vorrei avere dei fiori...".
"Allora, intanto usciamo..." – ammise André andando ad accarezzare la testolina di Victoire – "Anche a me piacciono i fiori sai...".
Che per poco i due mocciosi si ritrovarono avversari...
Fiori o cielo!?
§§§
Lo stupore crebbe via via che i passi si snodavano lungo le carreggiate immonde di fango, a schivare gli schizzi odiosi sputati dall'incedere incessante delle carrozze sfrigolanti velocità e melma.
Stupore sì, perchè il padre aveva appena allungano una moneta piccola piccola all'uomo ch'era a guardia delle assi che consentivano ai signori – non certo ai poveracci mendicanti che stazionavano agli angoli delle vie in attesa d'allungare la mano per ottenere una moneta ancor più piccola – di camminare per le vie senza rischiare di imbrattare fino alla caviglia scarpe e calze.
Victoire ebbe quasi un brivido, la mano destra a tener su la vestina e la mano sinistra saldamente stretta a quella dell'uomo che avanzava un passo alla volta, per consentirle di mettere i piedi in sicurezza e non sporcarsi.
Così che, anziché guardare sempre per terra, la mano salda le permise di sollevare gli occhi al cielo e guardare in alto, dove sbucava un raggio di sole slavato e dove minuscoli petali di gerani appesantiti dalla pioggia si staccavano dai gruppi di steli che grondavano dai vasi appesi alle finestre, volando via, colorando l'aria di variopinte gocce vellutate.
Camminarono a lungo, giungendo fin sulle rive della Senna, oltrepassarono Pont Marie e Victoire scorse alla sua sinistra ma su in alto, quasi fossero sospese in cielo, la cima delle torri immobili e stupende di Notre Dame, svettanti e leggiadre, come ondeggiassero nei riflessi perlati e gorgoglianti sputati dai doccioni.
A Place de l'Hotel de Ville finalmente il padre scorse il luogo ch'era la loro prima meta, una bottega piccola da cui usciva un intenso profumo dolce e fruttato, morbido e carezzevole come forse poteva esserlo la mano di un padre che stringe forte quella di una figlia o la mano di una mamma che concede l'ultima carezza prima del sonno.
Anche se era ancora estate, l'aria pareva profumare di primavera, odorosa di nuovo, di sorprendente, di tutto ciò che era rimasto addormentato in qualche parte fonda del cuore e via via andava risvegliandosi per risorgere a nuova vita.
Una vita che Victoire non aveva mai vissuto.
Dunque quel mattino era forse ancor più sorprendente di quello di un vero giorno di primavera, che nella sua breve esistenza era sempre stato un giorno d'inverno o al più d'autunno.
Il cammino proseguì senza altre soste, la bocca impegnata ad addentare i biscotti, mentre le mani ormai avevano abbandonato la gonna che si era inevitabilmente screziata del lordo impasto che andava via via asciugandosi sulle strade più oscure e non baciate da sole.
Poco male, papà le aveva sorriso di nuovo, dunque non pareva arrabbiato per l'increscioso incidente.
Non osò dire ch'era stanca.
Argo se ne accorse e le prese l'altra mano, domandandole con gli occhi se non avrebbe voluto fermarsi.
Negò Victoire e André la consolò, la voce uscì dalla bocca, carezzevole, senza neppure averla guardata, intuendo che non sarebbe stato possibile non essere stanchi dopo una simile passeggiata.
Dunque quello era un padre?
I padri erano così bravi da saper leggere i pensieri?
"Ecco, siamo arrivati".
André arrestò il passo.
Victoire si accostò un poco stremata.
Era abituata alla fatica ma quella delle braccia che strisciano sapone sulla biancheria sporca o lucidano il pavimento con lo straccio o reggono ceste ricolme di patate e zucche.
Rue Vivienne...
Sussultò Argo nello scorrere al nome della via, che quel nome l'aveva già sentito, anzi, l'aveva letto tante volte, che ormai non le contava più, gli occhi sgranati, neri e curiosi: "E' qui la nostra casa?".
"Ancora non lo so..." - ammise André tirando un respiro fondo, chiudendo gli occhi e poi avanzando di un passo, lo sguardo appena a sbirciare in alto.
I passi avanzarono…
"A'samedi prochine" - Argo lesse, scorrendo con l'indice che puntava in alto alle lettere pitturate sull'insegna che penzolava sbilenca dal ferro piantato nel muro dell'edificio – "23...".
Il numero non era quello che rammentava.
Victoire invece non sapeva né leggere, né scrivere, intuiva solo un che di familiare in quella viuzza, come se nel fondo nella sua memoria da ignorante, scorressero uno dopo l'altro, i suoni, gli odori, le voci, di cui si era sempre nutrita la mente da quando era nata, come anche lo strano cigolio del pezzo di legno che ondeggiava al vento.
Come se le lettere fossero impresse in testa, più che lette e decifrate.
Risatine un poco viscide...
Grida...
Pernacchie...
Passi che si rincorrevano...
Odore di escrementi, piscio...
Pesce marcio, anche se la Senna era un poco lontana...
À samedi prochain…
23, Rue Vivienne…
Poco distante, La Salle du Palais Royal, uno dei pochi palcoscenici cittadini blasonati, fin a poter ospitare cortigiani d'alto lignaggio e persino i reali di Francia.
L'insegna era lì, in penombra, com'era sempre stata al mattino.
André tirò un respiro fondo, ricordava d'aver osservato spesso, in passato, la vernice scrostata e le lettere sbiadite sul pezzo di legno.
Di giorno o di notte.
Ossia ogni volta che aveva avuto la possibilità di giungere sin lì, per lasciare pane, un poco di frutta, un pezzo di stoffa.
Tutto quel che poteva essere utile alla giovane Amalie Jenevieux.
Non l'aveva conosciuta lì, Amalie.
Ma lì ce l'aveva portata lui.
Era accaduto una sera, dopo l'ennesima ronda, dopo che lei se n'era andata, richiamata da un ordine improvviso, e lui era rimasto lì, seduto un poco in disparte, sulla dannata seggiola d'una dannata bettola, della città più dannata di Francia.
In attesa che lei tornasse, forse in attesa di scorgere qualche ceffo intento a maneggiare polvere esplosiva, per far saltare qualche carrozza di gente altolocata, al passaggio in una delle vie della dannata Parigi.
O forse per restare solo, riordinare gli sghembi pensieri sul senso della sua esistenza, ch'era poco più che un giovane uomo e non si capacitava di ritrovarsi già chiuso in una specie di gabbia, le braccia legate a lacci invisibili, i giorni scanditi dalla vita dell'altra, prigioniero di se stesso, più che di lei, perché lei in fondo non aveva colpa e non l'aveva mai messo in gabbia.
Non si può incolpare una donna di tenere prigioniero un uomo entro sbarre evanescenti e solide come quelle dell'amore.
Non si può incolpare una donna se non sa ascoltare e riconoscere quell'amore, insistere e battere nelle tempie e poi nel ventre, fino a che si rischia d'impazzire...
La dannazione sibilata piano.
Era meglio così, che Oscar non avesse mai saputo nulla, perché nell'istante in cui i suoi occhi l'avessero veduto, lui, per ciò che era davvero, lei non sarebbe mai stata più Oscar François de Jarjayes ma chissà quale altro essere.
La testa appesantita dal vino, il cono d'ombra che proteggeva i pensieri scuri...
Lo sguardo quasi trafitto nello scorgere un uomo entrare e poi salire al piano di sopra.
Uno l'aveva scorto ch'erano le undici di sera...
E l'altro un paio d'ore dopo, che André stava quasi per andarsene e per poco non era ricaduto sulla sedia e poi dalla sedia a terra.
Ignari l'uno dell'altro, ma lui li conosceva molto bene.
Il Conte Hans Axel von Fersen e poi il Tenente Victor Girodel.
Nobili e libertini…
Nulla di male.
André s'era come rattrappito, nell'istante gli era balenato nella testa come lei aveva osservato il primo e come il secondo osservava lei…
Era lei il fulcro del pensiero.
Nell'istante successivo, l'istinto aveva esploso una sorta di colpo, nella testa.
Proteggerla da colui che lei amava ma che non l'avrebbe mai amata, proteggerla non tanto dall'altro, contro l'altro, bensì custodire quella parte di lei che amava un uomo.
Proteggerla, proteggere quel barlume d'amore ch'era sorto innocente e tale doveva restare.
Proteggerla persino da colui che la amava ma che lei non avrebbe mai amato.
Senza dipingere alcuna stigma sugli altri due, senza sporcare la loro effige, così che lei ne sarebbe stata sporcata.
Lei avrebbe continuato a stimare se stessa sapendo di amare un uomo come Fersen?
E avrebbe continuato a stimare se stessa, sapendo d'essere solo una conquista?
Cher importava ormai.
Aveva sbagliato tutto.
Fin quasi a dirsi che in realtà l'unico che aveva tentato di proteggere era se stesso, dal rischio che lei potesse davvero innamorarsi, di chiunque avesse voluto.
Innamorarsi e lasciarlo solo, in balia d'un incerto sguardo di compatimento.
Alla fine però era accaduto. Lei si era innamorata.
André era rimasto lì, in silenzio...
Li aveva visti andarsene i due uomini, uno dopo l'altro, ignari l'uno dell'altro.
Aveva poi saputo che quelli salivano su, da una certa giovane prostituta.
Era accaduto altre volte.
Naturalmente non erano gli unici.
Aveva scorto, diverse volte, un ometto basso e panciuto, che aveva saputo avere una certa attività in Rue Vivienne e che smaniava per colei che abitava in quella stanza.
André rammentò che una sera aveva deciso di percorrere lo stesso sentiero.
Era salito, per dirsi uguale a loro.
Da dietro la porta da cui quelli entravano e uscivano, aveva udito un canto lieve, parole mormorate e qualche volta il pianto di colei che si chiamava Amalie Jenevieux.
E allora forse era accaduto che anche lui, chissà come, fosse stato visto da altri.
E perché lui non avrebbe dovuto atteggiarsi così come avevano fatto gli altri?!
Quello non era un bordello d'alta classe, gli uomini non godevano d'una uscita riservata o di un'anticamera discreta.
Ma di buono c'era che proprio per quello, proprio perch'era un bordello d'infimo ordine, quasi nessun aristocratico vi avrebbe messo piede.
Dunque il luogo offriva una discrezione insita nel fatto stesso d'essere d'infimo grado, che non c'era discrezione migliore di quella d'un luogo in cui nessuno vorrebbe mettere piede.
L'aveva conosciuta così Amalie Jenevieux.
Il tempo era trascorso.
Il Conte di Fersen aveva lasciato la Francia dopo la morte di Re Luigi XV, dopo che Maria Antonietta era stata incoronata regina. Era il 1775.
Anche se l'incoronazione del nuovo re e della nuova regina era stata formalmente celebrata solo l'anno successivo, il conte svedese avrebbe rischiato di diventare la peggior spina nel fianco del nuovo regnante e della sua consorte.
La famosa ragione di stato dunque che ancora aleggiava severa nella mente corrosa dall'onore di Oscar François de Jarjayes.
Doveva essere stato allora che Fersen le aveva chiesto se lei fosse mai stata felice...
E lei, allora, aveva detto di sì, ma poi...
Amalie Jenevieux s'era lasciata convincere a lasciare quel posto e André Grandier l'aveva portata via.
Perché lei non sapesse chi era l'uomo che amava e neppure l'uomo che lei comandava.
André Grandier aveva trovato per Amalie Jenevieux un lavoro da sguattera.
À samedi prochain, al numero 23 di Rue Vivienne.
Che però era accaduto che Amalie Jenevieux si fosse ritrovata ad attendere un figlio. Non se n'era voluta disfare, non sapeva chi fosse il padre.
Una bambina, per l'esattezza, venuta al mondo quasi in silenzio, senza che la madre si fosse lasciata sfuggire un grido, un lamento, senza interrompere, se non per due o tre giorni ciò che faceva e aveva sempre fatto.
Qualche moneta raggranellata facendo da balia a lattanti dell'età della figlia, così che quella era venuta su affamata e muta, senza nemmeno la forza di gridare la propria disperazione, che tanto la madre non avrebbe potuto offrirle nulla.
Chi era il padre della mocciosa?
Si è padri solo se si genera una vita o lo si è anche decidendo, in una contorta e bieca maniera, di regalare un poco di conforto alla madre che ha messo al mondo il disgraziato moccioso e al contempo illudersi – o crearsi l'illusione – di proteggere la donna amata dalla visione di un uomo – ammesso che il padre fosse stato davvero il Conte di Fersen – che aveva corteggiato dame, intessuto rapporti sociali, armeggiato entro origami politici, conosciuto banchieri e figlie di banchieri...
E non aveva mai cessato di farlo, neppure quando si era ritrovato tra le mani il cuore della prima donna di Francia, senza neppure immaginare che un'altra donna ascoltava crescere un germoglio minuto e tenero entro le pieghe più nascoste della sua esistenza verso di lui ma a cui lui non avrebbe mai fatto caso?
Perché in fondo, il conte, per quel che poteva ammettere e scommettere André Grandier, non l'avrebbe mai amata, lei, Oscar François de Jarjayes, non ne sarebbe mai stato capace, non come lei, Oscar, avrebbe voluto, non come lei avrebbe meritato.
E dunque lei sarebbe finita all'Inferno, così come André era sempre vissuto, all'Inferno, lì dove lei l'aveva ficcato, da quando lui aveva compreso di amarla.
O finanche dalla smania di un altro uomo come il Tenente Victor Girodel!?
Che in fondo, anche il buon Victor Girodel, con i suoi modi da teologo aristocratico, la sua disincantata sagacia, quel cinismo feroce con cui osservava qualsiasi altro essere umano, solo per giudicarlo e crocifiggerlo alla croce dell'ignoranza e del buonismo, avrebbe potuto essere il padre di Victoire?!
Lui e chissà quanti altri!
Vigliacco...
Aveva importanza ormai?
André Grandier si disse che in fondo non l'aveva fatto per lei ma per se stesso.
Impedire a Oscar François de Jarjayes di conoscere il vero volto di Fersen, l'avrebbe indotta paradossalmente a restare legata al conte.
Dio...
Si poteva essere più idioti di così?
Era ritornato nella bettola e con il permesso della padrona, Madame La Croque, lasciava per la giovane Amalie un cesto di pane e frutta e qualche pezzo di stoffa per confezionare babbucce e vestine per Victoire, perché così aveva saputo chiamarsi la figlia che Amalie aveva dato alla luce.
Victoire...
Allora forse era da quel nome che si sarebbe potuto dire chi fosse il padre.
André Grandier l'aveva saputo per caso che Amalie Jenevieux aveva ripreso a vendere se stessa.
Il Conte di Fersen…
Il Tenente Victor Girodel…
Ma…
Alla fine…
Amalie Jenevieux era ignorante, non aveva nulla, se non il diritto di essere ciò che voleva, se non il diritto di piacere a un uomo o il piacere stesso di un uomo o di chiunque avesse desiderato appagare la propria smania tra le sue cosce, morendo entro il minerale sentore del tiepido miele che ungeva il sesso.
Non c'era pregiudizio, non c'era connotazione morale.
Amalie Jenevieux ne era convinta.
Chiunque fosse stato il padre di Victoire, ciò che davvero aveva spaventato André era stato non essere amato e non poterla amare, se non al rischio di renderla una sorta di animale addomesticato, chiudendola per sempre nella gabbia del proprio stesso amore.
Aveva avuto paura André, più per se stesso che per lei e allora, ancora una volta, da perfetto burattinaio, era stato lui a decidere per tutti.
Davvero, si poteva essere più idioti di così?
André Grandier era divenuto una sorta di benefattore per Amalie Jenevieux. Lei gli s'era aggrappata per necessità.
Era stato un bene per entrambi.
Poi alla fine, una sera, André Grandier aveva rivelato ad Amalie chi fosse davvero, aveva osservato i passetti di Victoire pestare le assi nere e lerce della stanza che lei e Amalie occupavano, in Rue Vivienne 23, le aveva parlato di lei, come se Amalie, puttana di bordello, senza morale e incapace di giudicare chicchessia, perché nessuno avrebbe potuto vivere così in basso, fosse stata una sorta di confessore, a cui affidare il sentimento segreto, nascosto, lurido, folle, di un amore per una donna nobile, una donna che per di più vestiva l'uniforme, perché educata dal padre ad essere un uomo.
Persino Amalie Jenevieux era rimasta sorpresa da quel racconto e gliel'aveva chiesto se lui non la stesse prendendo in giro.
No...
Lei è bella...
E' bellissima...
Quelle erano state le ultime parole ch'erano scorse tra André Grandier e Amalie Jenevieux.
Poi, quel giorno, quando André si era ritrovato il suo nome, maledetto tra le labbra, aveva compreso che avrebbe finito per odiarla e allora aveva scelto di lasciare quella donna bellissima, perché non gl'importava più se lei un giorno si sarebbe accorta di lui o se, alla fine della vita, non sarebbe mai accaduto.
Nessun disprezzo, nessun giudizio morale, nessuna speranza...
Avrebbe tentato di mettere tra sé e lei, il nulla, il niente, al posto di quel disgraziato impulso che annientava testa e viscere.
Si era creato un debito, che anziché onorare assumendosi la responsabilità di una figlia che non era sua e di una giovane puttana che non aveva mai amato, aveva preferito figurarlo come alibi per la propria fuga, mettendolo sul piatto d'una bilancia, come danno da scontare senza averlo mai compiuto.
Aveva finito per usare Amalie Jenevieux e Victoire per il proprio tornaconto, ch'era consistito nel tentativo di cancellare il volto dell'altra, annientarlo, distruggerlo attraverso la vergogna, l'oblio, la perfidia, il cinismo.
Quel debito in realtà non l'aveva mai saldato, era ancora lì, solo che adesso aveva il volto paffuto e stupito di Victoire Jenevieux e quello gelido e sprezzante di Oscar François de Jarjayes.
Un fardello enorme...
André guardò in alto e superò l'insegna della bettola.
I due bambini lo seguirono, non avrebbero mai potuto comprendere cosa avesse significato il luogo, cosa fosse accaduto là dentro, Victoire sola mantenne lo sguardo al pezzo di legno, le parve ch'esso avesse ondeggiato da sempre dentro una memoria lontana, cigolando per ore interminabili, sbattendo furiosamente durante le notti di vento.
Non ricordava nulla ma la coscienza lo sapeva ciò che era accaduto.
25, Rue Vivienne...
Argo lesse il numero successivo a quello precedente.
Adesso tutto coincideva.
Solo un muro sbrecciato, intarsiato dai rami ormai secchi d'una rosa selvatica disfatta dal sole divideva i due ingressi, che chissà forse da dentro, appoggiando l'orecchio alla parete comunicante si sarebbero potute udire le voci che scorrevano nelle scure sere d'inverno, le risatine, i respiri intensi e poi ritmati e gli orgasmi lenti entro sussurrati segni della croce e rosari sgranati.
André bussò alla porta.
Attese finché quella non s'aprì e un ometto basso e panciuto, una lente monoculare all'occhio destro, faccia così spessa e dura e rugosa da figurare come non conoscesse compassione, s'affacciò per scorgere le effigi dei visitatori.
"Desiderate...".
"Monsieur..." – Andrè si schiarì la voce - "Avrei necessità di conferire con voi".
"Se state cercando la locanda, sappiate che spesso i viaggiatori si sbagliano...si trova..." – l'ometto fece per indicare l'insegna, come se gli fosse noto lo sbaglio quotidiano di quelli che volevano arrivare alla bettola e invece bussavano alla sua porta, immaginando che fosse lo stesso, vista la sorprendente vicinanza dei due luoghi.
E non vi sarebbe stata neppure tanta differenza per chi non li avesse conosciuti a fondo.
Là si dispensavano carezze e miele salato, lì accanto...
"No, vi ringrazio" – si schermì André – "Io cercavo proprio il vostro indirizzo".
"Ah..." – che l'uomo scorse i due mocciosi e ammise dentro di sé che uno straniero a passeggio con due bambini avrebbe senz'altro sfigurato a presentarsi alla bettola adiacente, anche se in passato s'era saputo che pur di cavarsi una bocca da sfamare c'erano stati padri e madri che avevano portato le figliole ad imparare il mestiere.
Proprio lì accanto.
"Prego".
Una luce timida e sbieca perforava i vetri delle finestre che s'affacciavano alla strada, ancora illuminate, disegnando lontane strisce di polvere danzante, entro quel sentore asciutto e antico, come di gesta ormai perdute, di cui spesso sanno libri che attendono d'essere aperti e letti sugli scaffali d'una vecchia biblioteca, muti custodi di gesta di eroi oppure di oscene ma curiose geometrie di scostumati narratori.
Insomma un luogo ove c'era licenza d'addentrarsi in chissà quali esistenze, che alla luce del sole avrebbero di certo condotto in una qualche prigione della città.
I passi si snodarono verso una sorta di ufficio nero e buio.
L'ometto si tolse la lente e prese a pulirla, poi la sollevò per osservare se la luce rendeva giustizia al cristallo iridescente.
"In che posso esservi utile?".
André tirò un respiro fondo.
Non aveva la più pallida idea se ciò che era accaduto in sua assenza in quel paese gli avrebbe consentito di continuare a viverci oppure l'avrebbe costretto a ricavarsi un giaciglio entro uno dei tanti sottopassi che ospitano mendicanti e puttane, sotto le arcate di Pont Neuf.
Non aveva idea se ciò che aveva fatto – da alcuni decantato come la più fonda delle idiozie, da altri come il gesto più nobile che un francese avrebbe potuto rendere al re e al suo popolo – avrebbe generato il risultato sperato.
Alle perdute avrebbe rispedito Argo e Victoire a casa Jarjayes. Almeno lì avrebbero avuto un tetto sulla testa, un letto dove dormire, e un pasto decente.
"Ma, innanzi tutto, se non v'è di troppo disturbo..." – rimarcò l'ometto severo – "Si ha necessità di sapere chi siete...sapete di questi tempi".
"Mi chiamo André Grandier. Sono reduce dalla guerra in America. Sono tornato da poche settimane a Parigi" – attaccò l'altro tentando di scovare le parole adatte per raccontare di sé lo stretto indispensabile.
"Ah...André Grandier avete detto...e avete combattuto in America...e...chi me lo dice?".
André allungò le lettere di credito vergate da Sua Maestà Re Luigi XVI ove si leggeva che il latore delle stesse era ricompensato per i servigi resi al sovrano e al popolo francese, nelle lontane terre americane.
Diavolo d'un Franklin!
Il pensiero sferzò la coscienza.
Per fortuna che l'esimio scienziato aveva preso in simpatia Argo e gli aveva insegnato qualche trucchetto!
L'ometto ingoiò lo stupore, afferrò i fogli e scorse alla grafia e ai noti sigilli regali per accertarsi che fossero autentici.
Difficile immaginare che fossero false o fossero state sottratte…
V'era una data recente e la grafia pareva davvero quella di Re Luigi XVI.
"Chi mi dice..." – attaccò perché la faccenda stava diventando interessante ma spinosa, per poi ricredersi e passare alla domanda più pregnante – "Perché siete qui?".
"Sono stato lontano dalla Francia per molti anni. Quando sono tornato, come dire…".
"Dite, dite! Non abbiate timore. Si è qui per vedere se vi si deve credere!".
"Mi hanno detto che avevo una figlia".
"Gran brutto affare monsieur...mi spiace!" – virò l'ometto, che Victoire s'attaccò alla mano del padre, la strinse, guardò l'uomo, dispiaciuta d'essere stata definita un gran brutto affare!
"No" – che André intuì la timida richiesta d'aiuto della piccola – "Tutt'altro".
Gli occhi si abbassarono, scambiando con Victoire un'occhiata complice - "E' stata una sorpresa lo ammetto, ma una meravigliosa notizia!".
Victoire strinse ancora di più la mano.
D'improvviso la figura sorprendente del cavaliere ch'era giunto a portarla via dal Collegio di Soissons scomparve e con altrettanto incanto, apparve solitaria e splendente, la figura di quel giovane uomo, gli occhi verdi come i suoi e i capelli scuri come i suoi, che davvero poteva essere suo padre. Anzi, lo era di certo!
"E quello?" – sputò l'ometto scrutando un poco schifato Argo, che per poco il bambino non gli avrebbe rifilato una boccaccia.
"Anche lui in un certo senso è mio figlio. Ossia...non lo è...ma...alla fine lo è anche lui...".
"Monsieur...a quel che dite dunque siete doppiamente fortunato!" – chiosò l'addetto all'ufficio con fare cinico – "Quante notizie meravigliose vi hanno riservato al vostro ritorno in patria! E dite...per caso avete anche l'estrema fortuna d'avere una moglie?!".
Il cinismo s'era mutato in sarcasmo, l'ometto manteneva la guardia alta, seppur adottando il linguaggio forbito e speranzoso dell'ospite.
L'uomo era un ficcanaso ma André sapeva di non potersi permettere alcuna mossa falsa.
Doveva accontentare l'interlocutore, cedere ove quello avesse mostrato disprezzo, gioire ove l'altro avesse affondato un cinico apprezzamento.
"No, monsieur. Sono davvero fortunato credetemi, voi non immaginate quanto! Ma non ho moglie purtroppo".
"Ah beh...in questo senso non posso che darvi ragione! Già ritrovarvi padre e avere due bocche da sfamare dev'essere una bella fortuna come dite voi! Ma averci pure una moglie!? No, una fortuna così sfacciata non potrebbe che essere riservata agli dei dell'Olimpo! Non datemi retta. Il matrimonio...i figli...ma che diamine! Non s'addicono alla vostra persona!".
Silenzio...
"Ed io purtroppo non sono un dio dell'Olimpo ma solo...sono il padre di Victoire Jenevieux..." – riprese André freddo, allungando sul tavolo nero il foglio bianco vergato con calligrafia fina che attestava la sua paternità – "Questa è mia figlia. Sua madre si chiamava Amalie Jenevieux".
Che l'ometto sussultò, sgranando lo sguardo e il monocolo, privo della compressione dei muscoli dell'orbita, scivolò giù come un pezzo di sapone scivola dalle mani della distratta lavandaia.
Silenzio...
"Ebbene..." – abbozzò André tentando di mordersi la lingua per non gridare - Forse la conoscevate anche voi".
L'altro…
Le sopracciglia, folte e lunghe e bianche, s'aggrottarono, quasi a toccarsi a formare una ondulata duna di sabbia, unica e compatta, dietro cui si celava rozzo stupore, misto a guardinga rabbia.
Monsieur Soixante-Neuf…
Forse così soprannominato per via d'una spiccata predilezione per monete e conteggi, per via dei prestiti ch'elargiva a chi si ritrovava alle strette e senza un soldo per sfamare i figli – molto spesso a strozzo, che quando ne pretendeva la restituzione, li voleva tutti, fino all'ultima lira e persino oltre la lira - e che un tempo doveva aver senz'altro abitato in una delle baracche costruite sopra Pont au Change, prima che quelle fossero andate bruciate, come accadeva regolarmente ogni volta che quelli che dovevan restituire i prestiti non riuscivano ad onorare gli interessi e dunque o s'impiccavano sotto le sue arcate oppure finivano per incendiare le baracche dei cambiamonete ch'erano di sopra.
L'ometto trattenne il fiato, d'un colpo ebbe l'impressione, seppur solo come vago ricordo, di riconoscere l'ospite.
Di certo André lo aveva già visto, l'altro, nella locanda ove lui stesso aveva conosciuto Amalie Jenevieux e poi dopo, lì, a A'samedi prochine.
Ma Amalie aveva giurato che da Monsieur Soixante-Neuf non s'era mai lasciata sfiorare neppure con un dito.
Dunque c'era da fare attenzione, che l'ometto avrebbe potuto ad ogni istante tradire il suo incarico di cambiamonete, rifiutarsi perchè un tempo era stato rifiutato.
"Monsieur...poche chiacchiere!"– sputò il panciuto gnomo, che vedeva dunque una strana corda evanescente stingersi al collo – "Che volete!?"
"So che la povera Amalie non c'è più"- riprese André piano – "Io stesso le avevo inviato delle lettere dall'America, in tempo di guerra, per sapere come stava in salute e per chiedere come stesse sua figlia...mia figlia Victoire. Ebbene le ho inviate qui, ben sapendo che, conoscendo voi Mademoiselle Amalie avreste compiuto quel passo che mai mi sarei azzardato a fare inviando le lettere direttamente nel luogo ove ella viveva. Sapete, mi ha sempre parlato molto bene di voi...Monsieur Soixante-Neuf. Le missive sono state registrate ed esaminate e valutate all'Hotel de Ville come lo sono state tutte le lettere che giungevano dal fronte. L'ho appurato al mio ritorno in Francia, proprio questa mattina!".
L'ometto prese a sudare.
L'ospite era tornato dall'America ma pareva saperne parecchio più di lui di come funzionavano certi meccanismi. Ammesso che quei meccanismi avessero funzionato a dovere.
Ma di certo, ammettere una falla nel grandioso progetto del re di Francia di rendere veloce, preciso e sicuro il servizio postale del regno avrebbe rappresentato un affronto a Sua Maestà!
"E' da tanto che non la vedo infatti!" – bofonchiò lo strozzino come a schermirsi di non aver saputo che l'assenza di Amalie sarebbe stata definitiva.
Che Victoire sussultò, portandosi una mano alla bocca, come a trattenere un'obiezione pericolosa, perchè da quel che rammentava, l'unico luogo ove i tre avevano messo piede quella mattina era la bottega del fornaio per comprare i biscotti.
L'edificio dell'Hotel de Ville che pure le era stato indicato dal padre era scorso lontano, nella sua imponenza grigia e istoriata di statuine ed effigi delle corporazioni mercantili più importanti della città.
Non erano stati all'Hotel de Ville, anzi, non erano stati che a prendere biscotti!
Dunque i papà possono dire bugie!?
Se lo chiese Victoire, stringendo ancora di più la mano di André, mentre l'ammirazione cresceva, che ci voleva coraggio a raccontare fandonie di fronte a quell'ometto così rigido e cattivo.
"Ebbene ho il sospetto che la povera Amalie non le abbia mai ricevute" – concluse André – "Dunque dovrebbero essere qui. Mademoiselle Victorie è sua figlia...credo che a questo punto le spettino di diritto".
Un'esposizione semplice e lieve.
Un lieve pegno d'amore ch'era scorso per miglia e miglia, schivando pallottole, tempeste, ammutinamenti, agguati di indiani, rappresaglie di coloni americani, battaglie tra inglesi, francesi e spagnoli, e infine si era insinuato nelle sopraffini e potenti maglie del perfetto servizio postale francese, vanto di una delle più ardite riforme che Luigi XVI si era prefissato di realizzare durante il suo regno.
Un respiro fondo...
La fronte di Monsieur Soixante-Neuf s'imperlò d'impalpabile sudore - "Non so di cosa parlate!".
"Monsieur, all'Hotel de Ville le lettere sono state registrate e poi consegnate".
"Io...".
"So per certo che Amalie Jenevieux non può averle ricevute. Mi hanno detto che se n'è andata subito dopo la mia partenza per l'America".
Il tempo, ecco cos'era quello strano laccio che pareva stringersi attorno al collo di Monsieur Soixante-Neuf.
L'ometto sbuffò.
Le lettere di credito esibite da Monsieur André Grandier deponevano per un personaggio abbastanza vicino al re. Quanto vicino?
Abbastanza da rischiare di fargli chiudere bottega se fosse venuto fuori che Monsieur Soixante-Neuf faceva preferenze e trattava i clienti a seconda della loro estrazione sociale?
André Grandier pareva personalità ben vista, altolocata insomma, da trattar bene o comunque meglio d'un qualsiasi disgraziato morto di fame!
Monsieur Soixante-Neuf si voltò dunque, andando a sfilare un cassettino che stava in basso, entro un enorme mobile composto tutto tutto di cassettini.
Victoire s'immaginò che da ognuno di quei cassettini sarebbe potuto uscire un topolino.
Parigi ne era piena zeppa, dalle cantine, ai sottotetti.
No, non era un topolino quello che, con una discreta stizza da parte del latore, ricadde con un tonfo sul piano lucido del tavolo. Era una pila di lettere, di svariate misure, alcune piccole, altre più grandi, tenute assieme da una corda di tela giallognola, uno o forse due o addirittura tre nodi a stringere il pacchetto.
Victoire intuì la mano di André stringersi alla propria.
Stavolta accadeva il contrario, non comprendeva ma si adeguò e come d'istinto strinse quella del padre.
Dunque anche i papà alle volte, quando dicono sciocchezze, temono d'essere scoperti e hanno paura?!
Argo alle spalle sussultò riconoscendo le lettere che il soldato André Grandier giunto a Fort Awegen gli aveva via via consegnato, da recare all'ufficio postale, perché quelle prendessero la via della Francia.
Erano proprio quelle ma il moccioso si accorse che alcune erano state aperte.
Digrignò Argo, intuendo che qualcuno ne avesse profanato il contenuto, non poteva essere stata la madre di Victoire, la destinataria Amalie Jenevieux, perchè il rapido conteggio dava conto che vi fossero praticamente tutte e poi perché da quello che aveva raccontato André, la madre di Victoire era morta, dopo che André se n'era andato dalla Francia.
Se fossero state di meno, qualcuna poteva essere stata recapitata ad Amalie, ma in realtà parevano esserci tutti, seppur alcune erano aperte.
Contestò il guaio Argo, facendosi avanti, afferrando con rabbia il bordo del tavolo, piantando addosso al cambiamonete uno sguardo di commiserabile disgusto, come se quelle lettere affidategli, lui non fosse stato capace di custodirle al meglio, anche se ad un certo punto della loro esistenza le lettere se ne erano andate oltre oceano.
"Calmati" – che fu André a rispondere, tentando di restare lui stesso calmo – "Vedi...sulla busta c'è solo un indirizzo. Le avevo inviate qui sperando che Monsieur Soixante-Neuf le avrebbe aperte…".
L'ometto divenne paonazzo. Gli pareva che l'altro anziché far tutto dall'America, fosse stato lì, alle spalle, a scrutare che il cambiamonete facesse esattamente come s'era immaginato.
Lo strozzino – che s'era creduto re - era accerchiato.
"E allora, una volta aperte, il nome di colui a cui sono davvero destinate compare solo all'interno di della seconda busta e solo a quel punto qualsiasi uomo di buon cuore avrebbe compreso che esse erano dirette ad una ben precisa persona, offrendosi di consegnargliele! Il nome della povera Amalie è all'interno. Nessuno avrebbe potuto saperlo se non aprendole. E come vedi quando il nostro bravo destinatario si è reso conto che non avrebbe potuto consegnarle, non ha aperto le successive, forse sperando che Amalie sarebbe tornata, per consegnargliele!".
Scacco matto!
Monsieu Soixante-Neuf si ritrovò inchiodato alla propria stessa cupidigia che gli aveva dettato di aprire le lettere, dirette al suo ufficio di cambiamonete, ma poi, nonostante vi avesse letto il nome di Amalie Jenevieux, non aveva fatto in tempo a consegnarle, che l'altra era sparita.
Aveva letto le prime, richiesta di notizie, auguri di rivedersi presto, banali saluti tra gente che si conosce e si vuole bene.
Si menzionava anche il nome della mocciosa, Victoire, che quella adesso era lì, davanti a sé e dunque...
"Monsieur, siete stato previdente!" – sputò l'ometto acido.
"Sì, previdente nello scegliervi come destinatario di queste missive!" – replicò André serafico – "E custode!".
La questione non era ancora del tutto conclusa.
André aprì con lentezza la bisaccia che recava a tracolla, indicando ad Argo di prelevare il pacchetto e infilarlo dentro.
"Un momento!" – Monsieur Soixante-Neuf intuì che stava per essere fregato, non sapeva come, ma sapeva che stava accadendo.
André trattenne il respiro, avrebbe voluto chiudere gli occhi ma non poteva più fuggire.
Doveva onorare il debito contratto con la povera Amalie Jenevieux, per averla usata come scudo per smettere di amare Oscar François de Jarjayes...
"Monsieur...che intendete!?" – si schermì André senza avanzare altre domande, senza fornire all'avversario, che quello era un avversario, altri spunti.
Meglio una domanda vaga, che una richiesta che contiene la risposta!
Monsieur Soixante-Neuf di fatto avrebbe voluto tenersi le lettere. Aveva compreso che banali missive di saluti, ricercate fin lì, da un soldato tornato dall'America, dovevano in qualche modo avere chissà quale valore.
Ma lui le aveva aperte, non c'era null'altro dentro che una flebile scrittura debolmente giallastra.
Aveva pensato che l'inchiostro fosse stato diluito per via della sua scarsità...
Ma non aveva altri appigli.
"Nulla monsieur...mi domandavo solo se...".
"Oui monsieur...avete visto giusto! Allora gradirei ricevere il controvalore di queste lettere di credito!" – sorrise André, immaginando così di catturare l'attenzione del vecchio strozzino, scostandola dalle lettere al denaro – "Sapete la mia corrispondenza non è altro che un ricordo. La madre non l'ha potuta leggere, ma ora lo farà sua figlia! Ve ne sarà grata per sempre!".
La colata di gratitudine stava prendendo a infastidire, che l'ometto si sentiva ormai fregato in pieno.
Pochi gesti rassegnati…
Le lettere di credito vergate da Sua Maestà Re Luigi XVI scomparvero mentre sul tavolaccio apparve un sacchetto di tela ove Monsieur Soixante-Neuf fece scivolare a uno ad uno trenta luigi d'oro.
Una fortuna...
André allungò la mano prima che l'ultima moneta scivolasse nel sacchetto, come a interrompere l'operazione del cambiamonete.
"Monsieur sareste così gentile da cambiarmi l'ultimo pezzo? Vorrei lasciarvi la metà del suo valore per compensare il disturbo che vi ho arrecato usando il vostro recapito".
Fregato in pieno!
Dannazione!
Monsieur Soixante-Neuf aveva le labbra serrate, il viso rosso, la giugulare gonfia di rabbia mentre vedeva allontanarsi il terzetto soddisfatto e lui lì, con due pezzi d'argento sul tavolo e tre di volgare rame.
Un gran brutto affare!
Disprezzare un povero racconto composto entro brevi lettere di saluti, baci casti e dignitosi abbracci, che aveva letto con disprezzo entro le prime righe vergate nelle missive, gli aveva fatto perdere chissà quale fortuna.
Il sospetto s'ingigantiva nella testa.
Ma il punto era che non sapeva né come, né quando, lui era stato fregato. Sapeva solo che era stato fregato.
"Padre…".
"Dimmi Victoire…".
"Ma davvero quell'uomo si chiama Soixante-Neuf? E perché?".
"Non lo so di preciso. Tanti anni fa, quando avevo incontrato tua madre, proprio qui accanto, sapevo che lui veniva spesso alla locanda per bere e giocare a carte. Era stato allora che avevo appreso il suo nome. Vediamo, sai quanto vale un luigi d'oro?".
Victoire strinse le labbra…
No, non lo sapeva, ma doveva esser tanto.
"Eh…" - si permise di rispondere Argo, guardando negli occhi la bambina, come a rassicurarla – "Ventiquattro livres?".
"Bravo! E quattro luigi d'oro?".
Victoire si zittì, il calcolo per lei non era semplicissimo.
Un'occhiataccia ad Argo che stava per sputare la risposta…
No, la domanda l'avevano fatta e lei e lei avrebbe risposto!.
"Nov…nov…" – le dita a mimare la cifra.
No, era troppo difficile. Victoire ricambiò l'occhiata, ammettendo d'accettare l'aiuto del fratello.
"Novantasei!" – trillò Argo.
"Molto bene" – ammise André – "E sapete qual è il numero opposto a novantasei?".
Questa era facile, il padre la stava facendo troppo facile…
Argo si zittì e Victoire saltò su trionfante, che finalmente anche lei poteva rispondere – "Soixante-Neuf!" Ah! Ho capito!".
"Ecco, chissà magari è per questo. Oppure perché quell'uomo presta i soldi alle persone, ma se può ne da sempre meno di quel che poi chiede in cambio. Così il suo nome è diventato Soixante-Neuf…!".
§§§
Fiori o cielo?
Denti di leone o nuvole?
Terra e vermi oppure escrementi di piccione e fumaiole di camini?
Giù dabbasso, al piano a raso della strada, sarebbe stato piacevole osservare dalle finestre in grata di ferro, il via vai sconnesso e frettoloso durante le ore del tramonto, oppure il silenzioso sgocciolare della notte che disegna sui muri intorno ombre sempre più deboli e luci via via intense e colorate, al mattino.
Mentre su, in alto, sarebbe stato impagabile osservare il profilo della città, i tetti sbilenchi, le mansarde bucate d'ombra, i panni stesi di vento bianco, i comignoli ondeggianti di fumo grigio, disegnati dal volo radente e fiero del piccolo falco, che avrebbe avuto libertà di planare verso il basso e poi spiccare su veloce, oltre i mattoni, e poi virare all'improvviso, per poi ripiegare le ali entro un'accogliente piccionaia riparata dal vento e dalla pioggia.
Non si sarebbe potuto aver tutto e invece...
La dritta gliela diede proprio quel soldato più giovane di lui, quell'Alain Soisson che d'un tratto André Grandier si ritrovò davanti alla faccia mentre camminava per strada, nelle ore del pomeriggio, i bambini stanchi e ormai affamati di nuovo, i pensieri a comprendere dove andare a rifugiarsi per dare ai mocciosi un letto asciutto e possibilmente senza morsi di topi nei piedini o pulci a invadere i materassi.
Quasi si scontrarono.
Alain Soisson fece una faccia, come avesse visto un compare resuscitato dalla terra nera d'una tomba sperduta nell'oceano, che da quel che rammentava, il soldato triste André Grandier avrebbe dovuto essere a cuocere i farneticanti pensieri e il sedere in quel della Cayenna, che sulle prime Alain Soisson nemmeno sapeva dove fosse, la Cayenna, ma poi Gustav Dumas s'era messo d'impegno e un giorno s'era presentato ai vecchi compagni di ventura recando le coordinate giuste del luogo.
Di là dall'oceano ma non sulla direttiva di New York, bensì a sud, molto più a sud...
Quanto a sud?
Davvero tanto, non puoi comprendere. Quell'idiota non tornerà mai più!
Invece l'idiota era lì, appunto, ci aveva quasi sbattuto contro, perché vederlo camminare contro di sé, per di più con due marmocchi al seguito, sulle prime, gli aveva dato l'impressione non fosse l'idiota, proprio quell'idiota.
Ma poi la cicatrice all'occhio, l'andatura forte e lieve al tempo stesso, quasi quello fosse stato nobile, che però non lo era affatto, gli avevano dettato che l'altro fosse davvero André Grandier.
Alain Soisson aveva balbettato poche volte nella vita, era difficile prenderlo di sorpresa, e ancor meno s'era trovato a corto di parole.
Due infatti, ne uscirono dalla bocca, a distanza abissale l'una dall'altra, che André ebbe tempo di sorridere e in cuor suo ammettere che alla fine era bello essere di nuovo a Parigi e ritrovarsi addosso uno sguardo amichevole e conosciuto.
"Sei..." – mandò giù Alain – "Vivo...".
"A quanto pare!".
"E sei tornato?".
"Ovvio!".
Il dialogo scarno e idiota s'infranse contro gli occhi dei due bambini che scrutavano il giovane uomo che conversava con il padre.
Alain riconobbe Argo, il moccioso indiano sgranò lo sguardo sorridendo all'altro, riconoscendolo.
"Diavolo d'un moccioso dalla pelle rossa! Quindi sei riuscito a ritrovare il tuo soldato?! Gli stai sempre appresso eh?! E quel pennuto...quella specie di gallina che vola? Anche quello...".
"Sì" – sputò Argo a cui non piaceva che la piccola Pur fosse appellata pennuto, peggio ancora gallina, anche se pennuto era – "C'è anche lei! E stiamo andando a cercare una casa per lei, con una torre alta, così che Pur potrà volare libera e poi ritornare da me!".
"Sì però a me piacciono i fiori!" – attaccò Victoire che aveva preso coraggio e non voleva esser messa da parte – "E si era detto che ci sarebbe stato anche un giardino! Vorrei mettere dalie e rose e mughetti in primavera".
Il padre le strinse la mano, di nuovo, proprio come era stato quando lui stesso s'era sentito la terra venir meno sotto i piedi durante la strana conversazione con l'uomo delle monete.
Dunque Victoire non temeva più d'essere rimproverata, anzi le pareva che il padre fosse lì ad attendere ogni suo più recondito desiderio e voleva far valere le sue ragioni.
"Sì ma Pur è più importante! Non possiamo tenere un falco in un giardino!" – rimbeccò Argo mollando la mano della mocciosa – "O vuoi farlo stare in mezzo a cavoli e insalata!?".
"E allora? Lui ha le ali, può volare! Se non gli piacerà il mio giardino potrà stare sui tetti!".
"Ma non capisci? Un falco non è un piccione che cammina sui tetti!".
Alain Soisson s'ammutolì, andando con lo sguardo ora al bambino, ora alla bambina e poi al vecchio compare di battaglie, che pareva in difficoltà quasi più di quando s'era trovato sotto il tiro incrociato dei dannati indiani, che poi non s'era neppure compreso s'erano davvero nativi oppure coloni americani che ambivano a trovarsi a tutti i costi un nemico su cui far convergere il rancore e la sete di vendetta dei soldati impegnati nelle battaglie contro i nativi.
Sciogliere il nodo della diatriba sulla casa ove sarebbero andati a stare tutti e tre era giunto ad un punto tale che il serafico equilibrio del terzetto incrociato lungo la strada zozza di Parigi sarebbe esploso esattamente com'era esploso il carico affidato al soldato André Grandier nella dannata missione da Fort Awegen a Northampton.
"Se non ho compreso male state cercando casa?" – abbozzò Alain per tentare di comporre il guaio.
"Sì" – ammise André – "Verrò ad abitare a Parigi. Vorrei accontentarli entrambi ma non ho idea dove potrei trovare un'abitazione che abbia un poco di terra per piantarci dei fiori...".
Victoire gongolò facendo la lingua ad Argo.
"E una torre che svetti per poterci tenere il falco!" – concluse rapidamente André, per evitare di lasciare indietro le esigenze del bambino.
Argo strabuzzò gli occhi restituendo la smorfia alla mocciosa.
"Io sì!" – tagliò corto Alain Soisson trionfante – "Mia sorella Diane ci lavora poco lontano!".
"Tua sorella?".
"Devi sapere mio caro Grandier che vivo accanto alla famiglia di Dante e di Marcel. Gustav sta in fondo alla nostra via. Ci conosciamo da quando eravamo mocciosi e ci siamo arruolati assieme. A parte questo...ognuno di noi ha la propria famiglia e ognuno deve guadagnarsi il pane come può. Io ho chiesto di entrare nei Soldati della Guardia Metropolitana...forse ci arruoleranno a breve. Invece mia sorella lavora per una fornaia poco lontano da una specie di ostello per gente che viene a fare affari in città! Stanze con un letto e un pitale per la notte. Me lo ha raccontato perché poi gli ospiti si affacciano ad acquistare quel che serve per sfamarsi. E mi ha raccontato che tutti sono d'accordo nell'ammettere che quel posto è davvero pulito. Sai io le avevo detto delle pulci che ci mangiavano vivi in America e poi dei pidocchi...e lei ha fatto una faccia schifata…in quella casa la padrona non lo permetterebbe mai…che un ospite si ritrovasse i pidocchi nel letto...e poi mi ha raccontato che di fronte c'è una strana casa...alta e lunga...sembra una torre ma in realtà non è altro che l'angolo di un edificio che un tempo veniva usato da un mugnaio. Al piano terra c'è ancora una vecchia macina, forse ci scorre una specie di rivolo sotterraneo...poi si sale su...il mugnaio ci teneva i sacchi di grano, lontano dai topi...a metà della salita teneva gatti...tanti gatti. Non so se potrebbe fare al caso vostro. So che a Parigi dove c'è l'acqua…insomma…ci sono i topi e…non è proprio un affare...".
Victoire sbadigliò, evidentemente stanchissima per l'interminabile giornata ma all'udire la descrizione della stramba costruzione tornò a rianimarsi, con Argo accanto che aveva preso a pestare e saltellare come un ossesso da un piede all'altro per timore che il proprio progetto naufragasse di fronte al desiderio dell'altra di circondarsi di fiori e piante e terra e vermi...
"Alain..." – l'interruppe André.
"Meglio e se vi ci porto vero!?" – convenne l'altro grattandosi la testa.
§§§
"Madame Fabér!" – sputò la vecchia, pugni ai fianchi tendendo la mano come stava prendendo piede tra i popolani – "Sono Madame Anne Fabér!".
Alain aveva chiamato sua sorella Diane.
Quella aveva fatto un inchino, un'occhiata lieve agli stranieri, l'uomo e i due mocciosi, le scarne spiegazioni da parte del fratello – l'uomo era stato soldato in America, proprio come lui, ed era sopravvissuto e ora cercava casa assieme ai due marmocchi - ed era scomparsa nuovamente, infilandosi nel portone, dentro la specie di ostello, un edificio a tre piani, un poco sbilenco da un lato, tenuto su grazie alle mura possenti e meglio conservate degli edifici vicini.
Il nome era altisonante e lieve al tempo stesso…
Un nome evocativo…
André annuì, e la vecchia, ch'era accorsa chiamata dalla giovane Diane Soisson, dopo la presentazione, fece un unica domanda, ossia se era vero che l'uomo avesse combattuto in America, che quello aveva annuito di nuovo e l'ammissione pareva aver sprigionato la stessa forza splendente e immortale d'un novello Prometeo che reca il fuoco agli uomini, consentendo loro di uscire dall'oscurità per intraprendere una nuova era della loro esistenza.
La vecchia, come illuminata da un'apparizione, batté due volte la mano sulla tasca sinistra del grembiule, un poco rigonfia, per poi cavarne fuori un mazzo di chiavi che pareva il custode di Notre Dame.
"Le chiavi per entrare le hanno lasciate a me! Quando siamo arrivati a Parigi non avevamo che poco denaro...spiegò la vecchia facendo strada - "Sei luigi d'oro per l'esattezza".
L'eloquio stupiva...
Non era da tutti sviolinare le proprie ricchezze in quella città famelica e straziata dalla miseria, eppure pareva che la vecchia fosse orgogliosa di spiegare la storia delle sei monete.
La chiave lunga e nera girò nella toppa della porta un poco corrosa da tarli e sole.
I passi che avevano condotto lì, dall'ostello che stava di fronte, erano stati poco più di quindici.
Quindici passi dividevano gli ingressi dei due edifici, così che chi avesse occupato una stanza dell'ostello avrebbe di certo potuto ficcare il naso nella casa che stava dirimpetto a quello.
Ciò rappresentava un problema, il principale vulnus dell'edificio, anch'esso un poco sghembo, che la vecchia s'era messa in testa di mostrare ai forestieri.
Chi avrebbe mai avuto in animo di ritrovarsi dentro una stanza col dubbio d'essere scrutati e spiati così da vicino?
Madame Fabér proseguì, che lei invece aveva intravisto la possibilità che la strana compagnia avrebbe gradito l'altrettanto strana dimora.
"Abbiamo avuto la fortuna d'incontrare una persona che ci ha concesso fiducia. Nonostante fossimo in miseria e ci fossimo ritrovati a commettere un atto spregevole" – il racconto si snodò abbastanza semplice, il senso no, quello restava oscuro ai presenti - "Volevamo rubare. Denaro destinato ai soldati francesi in America. Tre dei miei figli purtroppo non sono più tornati. Ero arrabbiata. L'ammetto. Ma poi ecco…da un destino crudele accade di cavarci qualcosa di buono. Rischiavamo di finire in galera...ma…quella persona era lì per recuperare le monete, ha detto che sarebbero servite per far terminare la guerra, che la guerra è crudele, così che i soldati sarebbero tornati a casa. E invece di sbatterci in galera ci ha regalato sei luigi d'oro. E alla fine...ecco...voi siete stato un soldato, siete tornato. Non vi conosco. Ma almeno voi siete tornato. Potreste essere uno dei miei figli. Quella persona ci ha salvato e in fondo…ha salvato anche voi".
Una storia un po' confusa...
André ascoltò mentre nella testa si aprivano e si chiudevano porte, ma lui non trovava la strada, gli pareva di riconoscere un volto ma si diede del pazzo che non poteva davvero essere quel volto.
"E allora mi sono detta che se un giorno il destino mi avesse concesso di aiutarne uno qualsiasi, un soldato che avesse avuto la fortuna di restare vivo, ecco, l'avrei fatto!".
Una spiegazione davvero singolare.
André rimase zitto.
La vecchia era stata davvero fortunata a incontrare qualcuno che non li aveva lasciati marcire nella loro miseria, che non li aveva condannati in quanto poveracci, come se esser povero fosse dipeso dalla volontà del disgraziato e non dal destino, come se la miseria fosse una scelta e non invece la conseguenza del malgoverno o della ingordigia di pochi privilegiati.
"Insomma..." – che la vecchia si piazzò nell'atrio giù dabbasso, un poco buio, odoroso di farina e polvere, mentre dalle persiane chiuse filtrava l'intensa luce del pomeriggio inoltrato – "Ci siamo ritrovati la possibilità di comprare le stanze dell'edificio di fronte. Così anche i miei figli, Paul e Claude, quelli che Nostro Signore m'ha permesso di tenere con me, che gli altri non sono più tornati dall'America, adesso hanno un lavoro. Si occupano dei cavalli degli ospiti, li strigliano e li ferrano, riparano porte e finestre nelle case di chi ha necessità. Non si guadagna molto, ma almeno non si muore di fame. Le mie nuore invece, Lèa e Roseline, stanno in cucina. Ed io sono persino riuscita a dare lavoro ad alcune giovani...".
Alain s'era messo in disparte.
La storia ormai la sapeva a memoria. Sua sorella Diane gliel'aveva raccontata ormai fino alla noia, ma c'era da scommettere che, a sua volta, Diane l'avesse ascoltata altrettante volte da tutti quelli che passavano al forno.
André alzò gli occhi intuendo una specie di scala che saliva al piano di sopra.
Argo scomparve risucchiato dall'ignoto del piano superiore.
Victoire prese a scrutare la stanza buia. D'improvviso udì il rumore dell'acqua che scorreva chissà dove.
Corse per ritrovarsi in un'altra stanza, anch'essa buia, dove la vecchia s'affrettò ad aprire con un'altra chiave una specie di porta che dava all'esterno.
La luce invase le pareti, colpendo gli occhi che si ritrovarono ricolmi dell'ombra sinuosa e tremante di lunghe braccia avvolgenti, rami d'un un salice che mal governato istoriava invadendola la visuale della finestra, come fosse una sorta di fresco tendaggio, su di un verde e fresco fazzoletto di terra umida, cosparsa di erbacce e fiori selvatici.
Victoire quasi cadde a terra - "Padre..." - balbettò come instupidita e commossa – "Vi supplico...è così bello qui..."
Un tonfo...
I piedi uniti di Argo erano piombati giù, tre scalini macinati in un'unica falcata...
"Vi prego monsieur" – s'attaccò alla mano di André – "Andiamo a prendere Pur! Subito! Lassù...da lassù si vede Notre Dame e le colline e i campanili delle chiese!".
"Vi piace? Il vecchio mugnaio è morto da un pezzo. Io ho le chiavi...se la volete..." – concluse Madame Fabér – "Intanto che non c'è nulla...i vostri bambini possono stare da me! Sapete, quella specie di angelo ha salvato anche Léonie, Flore e Aubry, i miei nipoti. Sono poco più grandi dei vostri figli".
Rimbombava nella testa l'assurdo racconto della vecchia Madame Fabér, inspiegabilmente intenso.
Secondo le conoscenze del soldato, quelli che si erano occupati di recuperare il denaro necessario a finanziare la guerra in America erano per lo più ufficiali dell'esercito.
Non certo della Guardia Reale...
Eppure...
"Va bene" - ammise André, i pensieri subito risucchiati dalle necessità incombenti – "Alain, potresti accompagnare Argo a riprendere il falco? Ci sono anche due sacche di abiti. Io resterei qui con Victoire. Credo sia troppo stanca per camminare oltre. Dormiremo qui questa notte. Madame Fabér, vi sono grato della vostra generosità, ma staremo qui".
"Va bene" – Alain Soisson rimase sorpreso, così come Madame Fabér che avrebbe voluto aprir bocca per rammentare allo straniero che vi era ancora un dettaglio non da poco da discutere, che no, fu proprio lo straniero a volgere gli occhi a madame...
"Il prezzo non ha importanza. Per il momento posso darvi dieci luigi d'oro" – la prevenne André – "Semmai fosse più alto...".
"Dieci..." – balbettò Madame Fabér – "Veramente...".
André volle saggiare il terreno, comprendere se davvero Madame Fabér avesse raccontato una favola, una fandonia, un racconto buono solo per impietosire e truffare il soldato.
"Monsieur, questa casa non vale così tanto! E' grande ma è vecchia. E i corrimano cascano a pezzi. I pavimenti sono da lucidare. Posso accettare al massimo sei luigi d'oro...".
Chiunque fosse stato a risollevare le sorti di quella famiglia aveva compiuto dunque un gesto che si era via via propagato fino a giungere a lui, come un sasso lanciato nello stagno genera una sequenza di onde concentriche che si espandono e si allargano fino a toccare punti lontani, anche opposti tra di loro, ricongiungendoli simbolicamente entro la stessa forza che ha schioccato il tonfo nell'acqua ferma.
"Sta bene allora" – concluse André – "Apprezzo la vostra onestà!".
"Dovere monsieur. Abbiamo un debito di gratitudine, sapete...quella persona disse di aver perduto suo fratello in America...".
L'appellativo si espanse nella coscienza.
André deglutì amaro...
"Ed era un amico...così mi disse...il suo migliore amico..." – respirò a fondo Madame Fabér – "Ebbene...le dobbiamo molto".
La chiosa sussultò, rimbombando nella testa...
Un fratello, ch'era anche il suo migliore amico...
Un amico...
Un fratello...
§§§
Stava ricominciando a piovigginare.
Rue de la Contrescarpe era ampia e senza alcun portico ove ripararsi, eccetto quello che ornava l'ingresso dell'edificio ove il giorno precedente era stato predisposto l'incontro tra Madame Glacé e suo nipote André Grandier.
I pochi effetti personali dell'uomo, assieme ai documenti erano stati recapitati, così come consegnati i due mocciosi che l'uomo avrebbe tenuto con sé.
Non vi erano altre incombenze.
Monsieur Bahamut era all'ingresso, il cappellaccio calcato sulla fronte, in procinto di andarsene dopo aver sigillato a doppia mandata le stanze ormai non più necessarie per ospitare il soldato e i due bambini.
Quando lo vide, Argo cacciò uno strillo, tentando di richiamare l'attenzione del domestico che si stava avviando a risalire in carrozza.
"No! Aspettate! C'è Pur là dentro! Che vi salta in mente! Non potete lasciarla là dentro! Morirà...".
Anche Alain corse parandosi contro la carrozza, il cocchiere per poco non gli avrebbe schioccato addosso una frustata.
Allargò le braccia, lo sguardo furente, inimmaginabile chiudere dentro una stanza un animale ch'era destinato a librarsi nel cielo.
Rammentò quando lui stesso aveva sparato addosso al piccolo falco, l'aveva colpito lui stesso, forse per rabbia, forse spinto dalla malsana gelosia d'essere lui solo un maldestro uomo inchiodato con i piedi alla terra, mentre il falco poteva andarsene a zonzo per il cielo.
Forse perché quella dannata bestia gli rammentava un sentimento istintivo, puro, impossibile da piegare, impossibile d'addomesticare sino in fondo.
Mentre lui era già addomesticato.
Dalla povertà, dal rancore, dalla mancanza di speranza.
Il falco viveva del suo istinto, non perseguiva alcun fine, non godeva che della propria stessa libertà, non voleva che essere un falco.
Si portò di lato Alain, aprendo d'un colpo lo sportello della carrozza.
Monsieur Bahamut sollevò la pistola, pronto a fare fuoco, immaginando un gesto di sfida, chissà forse il tentativo di assaltare la carrozza.
Che Argo prese a gridare ancora più forte...
"Apri la porta!" – gridò contro l'uomo – "Pur morirà!".
"Che diavolo vuoi moccioso!?".
"C'è un falco...in quella casa...dannato idiota!" – intervenne Alain – "Se lo lasciate là dentro non sopravvivrà! Dobbiamo liberarlo!".
"Liberarlo!?" – ghignò Monsieur Bahamut – "L'ho già fatto io! Gli ho tolto il cappuccio, ho aperto la finestra e quello se n'è volato via. In quella casa non c'è più anima viva. Quindi non è più necessario che voi entriate!".
Argo s'ammutolì, impietrito...
Pur era un falco che proveniva dall'America, era nato libero, ammaestrato certo, ma restava sempre un animale selvatico, l'istinto di volare non sarebbe mai scemato dal suo cervello, dalla sua indole...
Si sarebbe perduta.
Quasi cadde a terra il moccioso, come tramortito, gli occhi ficcati su al cielo scuro che piombava pioggia fina inumidendo l'aria.
Due carri passarono in velocità emettendo un frastuono inconcepibile, schizzando mota, lordando le vesti e i sensi.
Monsieur Bahamut si richiuse lo sportello da solo: "Il resto ch'era nella stanza sta lì, in quell'angolo. Affrettatevi prima che sparisca! Sapete com'è fatta Parigi?!".
Sparire...
Pur era scomparsa.
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