N'imitez rien ni personne.

Un lion qui copie un lion devient un singe

Victor Hugo

Tempo corre

L'alba faticava a spuntarla sul respiro appannato della terra, fredda di notte e fumante del tepore che l'aveva accarezzata il giorno prima.

Il buio colpiva, attraverso il frusciare di fronte e lo scorrere severo dell'acqua che tangeva i sensi, impetuosa a tratti, sgocciolante poco dopo, che ci si doveva metter lì a cercarla, ascoltarla, che quasi di colpo pareva esser stata inghiottita dal nulla.

I cavalli sellati in fretta, il respiro di nebbia, le braccia e le gambe un poco intorpidite dal sonno agitato…

Il carico controllato, tutto in ordine…

La mente invece era rimasta impigliata agli ultimi brandelli d'un sogno che a fatica era stato relegato nel mondo dei morti.

Dobbiamo prepararci…

Un cenno all'altro ch'era poco dietro, mezzo passo dietro…

L'altro s'era fermato.

Attorno a loro un'attonita confusione, voci, grida, via vai come d'uno strano mercato, di chissà quale strada, in chissà quale città.

La mente non aveva riconosciuto nulla del luogo, la coscienza era calma perché lui era lì.

L'altro s'era fermato.

Dobbiamo andare…

No, non verrò…

Il silenzio aveva rovesciato addosso il diniego…

La negazione esplicita aveva tagliato gl'intenti.

Lo stupore che pervadeva la coscienza, ingoiato e trattenuto, come non le fosse importato quel che voleva fare lui ma poi no, tutto ciò che lui faceva era importante.

Il cuore era balzato, la mente era rimasta fredda…

Non sarebbe stato necessario chiedere ancora.

Era suo compito andare con lei, sposare la sua vita, sposarla come fossero stati marito e moglie, uniti sempre ma sempre distanti.

Un cenno…

No, lui aveva sorriso, d'un sorriso dolce ma remissivo, come a rivelare che non aveva colpa se le loro strade si dividevano.

Un nuovo invito…

Lui aveva negato. Di nuovo.

Come non fosse una scelta ma l'imposizione del destino.

La ragione combatteva contro l'ignominia dell'irrazionale, dell'incontrollabile…

Lei, al destino, non ci credeva e non ci aveva mai creduto, anzi aveva stabilito e imposto a se stessa che la decisione era scelta – sempre - e se l'altro non muoveva un passo era semplicemente perché sceglieva di non farlo.

Solo che, a poco a poco, immersa nel tramestio scuro della vita, aveva appreso che non sempre si può scegliere e che alle volte orgoglio, rancore, rabbia, dolore, solitudine, dettano strade inevitabili.

Retorica ammissione…

Dunque per evitare d'ascoltare la voce della sofferenza, si finiva per sopportare altra sofferenza…

Per timore della vicinanza solitaria degli altri si giungeva alla perfetta e ignobile solitudine.

Per timore di amare, si finiva per odiare con ogni parte di sé…

E si amava fino al finire del tempo…

C'è sempre una ragione per odiare…

Non sempre c'è una ragione per amare.

Che poi forse, tutto finisce per essere a mezzo dell'uno e dell'altro, un misto di pensieri che rimbalzano e ondeggiano, mai fermi, sempre mobili e quasi trasparenti.

Gli occhi s'erano aperti, il cuore impazzito…

Lui non c'era, non c'era più e adesso s'ingigantiva il timore che tutto si sarebbe rivelato vano e che l'esile traccia caparbiamente inseguita, altro non l'avrebbe riportata che a se stessa, sola, e alla propria ferrea e pragmatica solitudine.

Il desiderio di partire, mascherato dall'intento d'esaudire la richiesta di Sua Maestà la Regina Maria Antonietta, presto si sarebbe rivelato in tutta la sua micidiale crudezza.

Partire per cercarlo…

Partire per cercare se stessi.

Il guado dell'Hudson altro non consisteva che un punto più a nord del vaso d'acqua che s'allargava per poi andare a inondare la baia su cui era stata fondata New York.

L'Hudson era un fiume come un altro, solo era necessario risalirne il corso per ritrovare appunto un passaggio meno fondo, una corsa meno impetuosa dell'acqua, sponde meno ripide capaci di accogliere, senza distruggerla, una specie di chiatta in legno, miracolosamente sbucata fuori dalla boscaglia fitta che proteggeva un'ansa solitaria del fiume.

Chi voleva attraversare il corso d'acqua o pagava il dazio agl'Inglesi e rendeva conto ad essi oppure doveva fare da sé, di nascosto.

L'alba incombeva…

Il cavallo attaccato al carro con le armi e la polvere da sparo sulle prime s'impuntò, che forse il pavimento della chiatta un poco mobile, sollecitato dalla corrente, comunicava l'istinto d'arretrare e non fidarsi.

Per alleggerire la ritrosia, si decise d'alleggerire il carico, soprattutto quello più prezioso.

Denaro a pari merito con polvere da sparo.

Che se entrambi fossero caduti nel fiume, la messinscena, il viaggio, le tempeste, gl'ignoto, si sarebbero ritrovati vagamente a ridere da una parte, che se loro tutti non erano riusciti nell'intento di fermare gli arroganti viaggiatori, allora c'era riuscito addirittura un ronzino recalcitrante per via d'un banalissimo corso d'acqua.

D'un tratto…

In alto…

Veloci scarti d'ali, guizzi invisibili all'occhio…

Oscar sollevò lo sguardo.

Alle spalle tramestio di fronde, gl'indiani affrettavano gesti e passi saltando in acqua e prendendo a spingere la chiatta con lunghi bastoni.

Un guizzo…

Un volo rapido a fendere i rami più alti degli alberi con geometrica precisione, una sorta di saetta grigia…

"Via!" – gridarono le due guide, di colpo innervositi dal volo radente e dalle strida secche e ripetute, che parevano annunciare tempesta.

Gli sguardi si piantarono al fitto della foresta mentre gli occhi intuirono le punte dei moschetti e l'avanzare di cavalli lanciati all'inseguimento della chiatta e dei suoi occupanti.

"Tenete la testa giù!" – gridò uno degli indiani.

Oscar s'appiattì contro il carro, Madame Roma si prese addosso Lua…

Grida, richiami, fischi, insulti piombarono addosso, assieme a pallottole incise sul pelo dell'acqua, a rimbalzare contro i massi più larghi che affioravano dalla corrente.

Impossibile restare a fissare gl'inseguitori, gli occhi corsero su, in alto, attirati dalle strida secche che si perdevano nel chiarore dell'alba crescente.

Dicotomia di suoni…

Spari davanti…

Strida asciutte in alto…

Crescere d'acqua che inghiottiva i respiri…

La chiatta virò verso il centro del fiume, istanti interminabili a dividere gli occupanti dai soldati inglesi ch'erano quasi sulla riva. Difficile stabilire se quelli si sarebbero lasciati sfuggire gli stranieri.

Il cavallo s'innervosì ancora di più…

Oscar si mosse per prendere il morso, calmarlo così da tenere in stabilità il carro e la chiatta…

L'onda impose uno sforzo immane per mantenere in assetto il legno che s'impennò costringendola a tenere le redini con tutte le forze.

Comunque dovresti controllare le briglie!

Ho trovato il cuoio particolarmente coriaceo!

Nemmeno questo sarebbe mio compito – ammorbidirle e rendere migliori - ma va da sé che briglie troppo rigide potrebbero infastidire il cavallo che ne risentirebbe!

Mettiamola così…se non è un mio dovere preservare la tua vita…vorrà dire che lo farò per il tuo cavallo.

Spero che almeno quella bestia apprezzerà e non avrà di che risentirsene!

Dannazione!

Le dita strinsero le redini sul morso del cavallo che spaventato avrebbe voluto liberarsi…

Uno strattone più intenso, contratto contro la forza dell'animale aizzato dalla paura, a cui s'aggiungeva quello del carro ch'era frenato ma non del tutto immobile.

Le dita trattennero le corde di cuoio, che quelle arrotolate al palmo presero a tagliare la carne…

Uno spasmo, un grido soffocato…

Un altro sparo…

Un altro grido…

La fiammata s'espanse dal braccio mentre il sangue caldo prese a inondare la stoffa della giubba, ricadendo all'interno delle vesti, imbrattando mani e dita.

Si ritrovò attaccata alle redini con la forza della disperazione, non poteva lasciare il cavallo, non poteva prendersi il braccio.

L'onda calda incendiò la coscienza…

Udì le grida degli altri viaggiatori…

Roma si precipitò su di lei mentre Lua si aggrappava al cavallo, abbracciando il collo, parlando prima più forte poi più piano…

Il guado era quasi oltrepassato mentre la luce iniziava a ferire gli occhi…

La coscienza riconobbe suoni sempre più ovattati e lontani…

Le strida in alto si fecero prolungate e non più crude e secche come qualche istante prima, come se l'istinto avesse dettato che il pericolo era quasi svanito.

Gli Inglesi avevano preferito restare sulla riva destra dell'Hudson.

"Come vi sentite?" – chiese Roma fissando in viso l'altra.

"Non è nulla…sono…" – la nausea salì, l'onda di calore d'improvviso scemò per lasciare posto alla sferzata gelida del sangue che mancava.

Non dovevi lasciarmi!

Perché sei partito?

L'unica domanda…

Perché…

Non doveva finire così la nostra Storia!

Oscar, quale Storia?

Io e te non ci lasceremo mai.

La nostra Storia, qualsiasi sarà il pittore, qualsiasi sarà lo scrittore, chiunque penserà a noi e a chiunque noi rivolgeremo lo sguardo, sarà sempre la stessa.

Non abbiamo scampo, perché noi siamo nati per essa e la nostra Storia non cambierà mai, nemmeno se noi non volessimo più viverla!

Gli ordini riuscì a balbettarli.

Si doveva proseguire…

A ogni costo.

Le due guide indiane ammisero che in quanto francesi l'esiguo drappello avrebbe avuto maggior sorte di sopravvivere riuscendo ad entrare nel territorio delle Six Nations, più a nord, oltrepassato il Delaware River, senza avvicinarsi alle terre Mohwak ma proseguendo per raggiungere gli spazi ove governavano gli Oneida, gli Onondaga e infine i Cayuga.

I francesi erano scesi in guerra contro gl'inglesi che non avevano potuto fare altro che cercare nelle tribù indiane una sponda per controllare i territori, ma ormai, dopo decenni di combattimenti, anche le tribù indiane erano divise tra chi voleva continuare la guerra e chi aveva in animo di cessare ogni ostilità e sopravvivere mantenendo almeno le terre ch'erano state loro assegnate. Dove, di fatto, le maggiori tribù erano state relegate.

E in quelle terre i francesi, tutto sommato, non avevano di che temere perché ai francesi era sempre interessato commerciare con gl'indiani piuttosto che combatterli.

Era nota la passione europea per le pellicce e quelle di lince bianca, di ermellino o di volpe non erano disdegnate quando anche fossero giunte da oltre oceano piuttosto che dalle foreste europee.

Il carro riprese la sua strada…

Gli indiani s'impegnarono a scortare il drappello fin dove sarebbe stato possibile.

Erano Mahican…

Le loro terre si trovavano a nord ovest, quasi al confine con l'Atlantico. Inammissibile che finissero per trovarsi a invadere i luoghi sacri ai Seneca.

Oscar impose una fasciatura stretta. L'ennesima…

Ormai non li contava più gli agguati in cui era finita e nemmeno gli strascichi che solcavano la pelle, seppure si disse che la fortuna in fondo aveva inspiegabilmente offerto la gentilezza di salvarle la vita.

Ogni volta…

Fino a quando?

A cavallo, la mente prese a ondeggiare nel calco dei ricordi impressi nelle ore trascorse. Ore svanite, frantumate dal vento del tempo impietoso che scorre e non smette mai di scorrere.

Risorse d'improvviso la richiesta del Conte di Fersen…

Vorrei che un giorno, quando ci rivedremo, facessi una cosa per me…

Mi piacerebbe che tu indossassi un abito…

Un abito per danzare con me…un abito che renda finalmente onore alla tua figura così sorprendente e fiera e bella…

Non devi rispondere adesso…anzi…perdona le mie parole azzardate…ma questo pensiero…il pensiero che un giorno potrò rivederti…e che forse potremo…danzare insieme…ecco si…mi consentirà di affrontare con più coraggio questa impresa.

Sai…nell'ultimo ricevimento a Versailles…quella sera…avrei voluto danzare con Maria. E allora ti ho invidiato è vero, avrei voluto essere te…ma al tempo stesso…avrei voluto essere accanto a te…

Perdonami…sono un'egoista…avanzo una domanda del genere in un simile momento, sapendo bene che non ti concederò tempo per rispondere…

Ebbene…affronterò questo viaggio immaginandomi che un giorno tutto ciò potrà accadere…immaginandomi come potrà essere…così la mia mente sarà impegnata e sollevata…

Non le era mai accaduto di ricevere una simile richiesta…

Che poi, era davvero una richiesta di Fersen?

Oppure era semplicemente una sorta di azzardo, che Fersen le aveva letto in faccia – si proprio a lei - dettato da una sorta di inconscio desiderio, nascosto dentro di lei – si proprio dentro di lei – che avrebbe voluto dunque a rivelarsi, disgiunta dalla dannata uniforme!?

Non le era mai importato di ciò che indossava…

Ma ciò che indossava non era solo un abito…

Che Fersen l'avesse fatto per sé…

Che Fersen gliel'avesse chiesto per lei…

Mordeva la ferita, batteva il sangue imprigionato nella lasciatura stretta, doleva la testa e la nausea non accennava a diminuire mentre il drappello avanzava di giorno e s'arrestava di notte.

Gli indiani alla fine erano rimasti.

Avevano declinato i propri nomi…

Isi e Yellow Jacket…

La febbre salì un poco.

Verso sera s'affacciava la stanchezza, così l'impatto con la vastità del paesaggio appariva ancora più intenso, calando sullo sguardo il sonno agitato dall'attesa e dalla smania.

Troppi dubbi…

Troppa distanza…

Troppo tempo trascorso…

Nella notte, la voragine s'apriva inghiottendo la debole speranza, mentre al mattino, la luce opaca delle prime giornate d'autunno dispensava la fredda malinconia dell'attesa d'un raggio di sole come fosse stato un volto amico.

Si ritrovò quasi muta, non parlava praticamente più.

Mangiava lo stretto indispensabile, gli occhi puntati perennemente alla sacca del denaro e poi a quelle della polvere da sparo.

Oscar François de Jarjayes si accorse in realtà di aver ritrovato a poco a poco l'istinto della resa al silenzio.

Nell'avanzare lento del drappello, tornavano a giungere alla coscienza i suoni dapprima indistinti della campagna e della vegetazione attorno e poi quelli muti di strade appena accennate, dei grumi di catapecchie, dei fiumiciattoli che accompagnavano il cammino e poi d'improvviso viravano per scomparire dietro anse e colline…

Boschi di querce e ontani…

Rovi…

Fazzoletti di terra lavorata…

Tetti sventrati…

Tende bruciate…

E poi geometrici intagli scuri di pietose tombe, croci di legno dipinte di bianco, legate da corde consumate dal tempo, incastonate nella rena nera.

Le battaglie si erano spostate a sud, questo era ormai accertato.

Ma la presenza degl'improvvisati cimiteri riportava echi delle battaglie, soldati caduti, folgorati lì, sopra quella terra straniera.

E sopra tutto…

Oscar François de Jarjayes aveva imparato a riconoscere lo stridio che l'accompagnava.

Così che di tanto in tanto lo sguardo lasciava la misera strada polverosa per alzarsi su, attirato dal volo netto e severo, una sorta di silenziosa compagnia dalla vista acuta, capace di vedere lontano, comunicando via via col verde delle alture, il deserto di radure spoglie e bruciacchiate, la solitudine di spazi immensi.

La bestiola pareva all'apparenza la stessa, quella udita la prima volta sul guado dell'Hudson, seppur era sorprendente che davvero l'animale li stesse seguendo, come fossero prede da attaccare e finire nell'istante di sfinimento estremo oppure semplici compagni di viaggio.

"Isi ha detto che mancano poche miglia. Questo è l'accampamento di francesi più a nord che conosca…francesi che si sono stabiliti qui…e che avevano combattuto più a sud…".

Madame Roma indicò una serie di pennacchi di fumo che si alzavano da dietro una collina.

Fort Awegen...

Il passaggio entro il territorio indiano delle Six Nations avvenne un pomeriggio, all'incedere dell'imbrunire, nell'ora in cui anche i sensi e la coscienza si ritrovano a rallentare il passo, ad anelarsi fermi, così che la stanchezza abbia pregio di dilagare entro ogni più piccola fibra del corpo.

Si era entrati sul finire dell'estate dell'anno 1781.

Le miglia da percorrere erano ormai esigue mentre il cuore osservava attraverso gli occhi…

Il cuore cercava un appiglio…

Le forze residue implosero.

Che non aveva voluto distendersi sul carro e non aveva voluto riporre le sacche ch'erano appese alla sella del cavallo.

Da lontano comparve, via via che avanzavano, una sorta di accampamento, circondato da un serraglio alto e nero che abbracciava una distesa di tende più o meno ampie, tele intrecciate e tese da corde e corde intrecciate a panni stesi.

Uniformi e camice…

E poi raggiere di baionette piantate a terra e barili e casse…

Il carro s'arrestò…

Il cuore anche.

"Caz…".

La mezza imprecazione giunse netta…

Oscar François de Jarjayes, che non era effettivamente solita stupirsi ormai di nulla, l'udì avanti a sé, arrestando il cavallo, mentre giungevano incontro quattro soldati francesi, l'uniforme un poco sdrucita, capelli lunghi e barba di qualche giorno.

Le facce…

Dannazione quelle facce le aveva già viste!

I nomi non li conosceva, non li aveva mai appresi ma le facce…

Tre di loro parevano proprio gli stessi e vederli così, di nuovo appiccicati l'uno all'altro, deponeva che fossero proprio loro, quelli che aveva conosciuto a Brest.

Il quarto no, non l'aveva mai visto.

"Ma che diavolo…" – proseguì uno di quelli, correndo con gli occhi al compare – il quarto - rimasto impassibile alla vista del drappello.

Sì, perché quel damerino biondo in sella al baio, lui – loro - l'avevano già visto, al porto di Brest…

Era il damerino con cui aveva parlato il loro compagno…

No, diavolo!

Quello che il soldato aveva baciato, sul molo, davanti a tutti!

Che cazzo ci faceva lì, quel bel damerino, nel bel mezzo delle Six Nations, se loro l'avevano lasciato a Brest ormai tre anni prima!?

Che poi, lui, solo lui però - solo Alain Soisson -, non ci aveva mai creduto che quello fosse davvero un damerino da bettola di mare.

Forse uno degno d'una clientela ben più altolocata, ma non certo uno che finiva per ritrovarsi una sudicia locanda al porto di Brest.

Marcel Duval inghiottì stupore…

Dante Renard si diede un pizzicotto al braccio…

Gustav Dumas, il più giovane dei quattro, s'ammutolì.

Alain Soisson tradì una smorfia di disgusto, contro lo straniero o forse verso se stesso, ch'era uguale.

Non comprendeva e quando non comprendeva, non c'era verso di togliersi dalla testa che, ritenendosi lui estremamente intelligente o che dir si volesse estremamente guardingo, qualcuno lo stesse prendendo per i fondelli.

E lui detestava esser preso per i fondelli.

Anzi, ora era certo che qualcuno l'avesse fatto. Solo, restava da sapere chi.

Colui che avanzava a cavallo avrebbe potuto essere uno di quelli.

Il dannato racconto risuonò nella testa dei quattro, come un boato d'artiglieria inglese.

Non so che abbia fatto con il colonnello…con me è stato esemplare…ha fatto tutto da sé…s'è spogliato e mi ha baciato…ovunque…che quasi sarei…

Ed io…l'ho baciato…non mi pareva giusto sprecare il denaro…ma alla fine quella moneta valeva un tempo ben più lungo…e quello…

Il suo corpo…era lieve e bello…e le sue mani mi hanno accarezzato…sapeva bene quel che faceva…

Dunque…non era un pivello!?

Non so che dirti…non ho molta esperienza…e non sono così idiota da andare a raccontarlo in giro…ma di certo ci sapeva fare…e poi…

Finisci il tuo racconto!

La prima volta…non ricordo nemmeno come è stato…stava giù, nemmeno vedevo la faccia…ha fatto tutto…di sua…iniziativa…

Che figlio di…ci sa fare…

Sei soddisfatto?

Abbastanza…e la seconda?

Idiota…che t'importa!

La seconda volta è stato…come accadrebbe tra due…uomini…insomma…se non ci arrivi da solo…

No!

Era davanti a me…sopra di me…è…entrato…si è mosso così da godere…lui stesso…ha continuato più lentamente…ho creduto d'impazzire…sono venuto anch'io…poco dopo…e dopo…

Si è chinato e mentre venivo ha continuato a…

Credi che quel colonnello…

Io parlo per me! Non ho idea di quel che abbia fatto con quell'altro! Chissà…magari tutto e niente! E questa mattina…sono sceso è l'ho baciato perché mi andava di farlo! E gli ho detto che semmai ci saremmo rivisti…ci sarei tornato a letto ancora!

Diavolo…se l'incontrassi uno come quello ci andrei anch'io a letto! Quando m'hanno detto di tornarmene dabbasso…lo sapevo che stavo facendo uno sbaglio…chissà che vi siete detti…

Non ha parlato molto, se può interessarti…e nemmeno io!

E certo…quello la bocca l'aveva impegnata a tenertelo stretto…e chissà tu…spero non ci avrai fatto fare brutta figura!

Non t'azzardare!

Che vorresti dire? Se quello è un damerino come ci hai fatto intendere…non vedo perché non dovrei approfittarne?! Adesso ho un motivo in più per tornare…se riesco a restare vivo da questa faccenda della guerra contro gl'inglesi…con i soldi che mi daranno…lo scoverò e quanto meno gli darò il doppio! Voglio proprio vedere se…

Non…t'azzardare!

Non…t'azzardare!

Non…t'azzardare!

"Che diavolo ci fate voi qui!?" – esordì Marcel senza troppi convenevoli, riservandosi solo di mantenere le distanze dovute al rango.

Che però, nella testa del soldato, il rango non era da soldato a superiore, bensì da soldato a damerino, che, nella personale rappresentazione del soldato Marcel Duval, era collocato ben più in basso persino d'un soldato semplice.

Certo con i damerini ci si finiva per divertirsi, tutti indistintamente, dai soldati agli ufficiali.

Ma vedersene uno lì, davanti agli occhi, in testa allo strano drappello che avanzava lento lungo il sentiero, immaginandosi che quello avesse solcato l'oceano e non fosse giunto sin lì solo per concedersi una bella scopata…

Le parole rimbombavano nella testa…

Mordeva la rabbia…

Oscar serrò le labbra in cerca delle parole perfette.

Doveva entrare, doveva sapere…

"Sto cercando il Conte Hans Axel von Fersen…" – ammise severa, non immaginando che i soldati avrebbero preso la richiesta con tale grado d'ilarità che le risate – solo da parte di tre però, che il quarto soldato non batté ciglio - si sollevarono subitanee…

Oscar rimase zitta. Le redini strette…

Il braccio doleva e la febbre minava le forze…

"E di grazia…" – cincischiò Marcel tra un respiro e uno strepito di risa, asciugandosi gli occhi dalle lacrime – "Ma siete davvero un bel tipo! Dicevo, di grazia…fin qua sareste venuto per trovarlo!? Allora è vero quel che si dice in Francia! Lo svedese ci sa fare! Noi, a dirla tutta, l'abbiamo sempre visto fare il cascamorto con graziose damigelle…".

La chiosa colpì…

Il cuore perse un colpo…

Doveva essere la febbre…

"Allora anche i damerini apprezzano le sue doti!" – rincarò Dante Renard – "Ma guarda!".

Rideva Marcel…

Ridacchiava Gustav…

Dante si ravvivava i capelli come a rendersi presentabile…

Era troppo…

"I vostri nomi!" – l'ordine eruppe secco…

"I nostri nomi!?" – un'altra risata, una pacca sulla spalla, che però Alain Soisson, era rimasto in silenzio, che adesso cominciava a comprendere.

"I nostri nomi!?" – s'intestardì a replicare Marcel Duval, che non gli pareva vero di potersi scontrare s'una questione del genere, senza rischiare la ramanzina d'un superiore – "Volete anche sapere chi siamo?! Ma se ce ne andassimo nelle baracche…che v'importa come ci chiamiamo…siamo soldati del Re di Francia…non siamo svedesi…ma non vi andiamo bene lo stesso?! Se volete ci laviamo prima…così…sapete…per rispetto alla vostra bella persona…".

"Taci Marcel!" – ruggì basso Alain Soisson…

No, l'altro scoppiò in un'altra fragorosa risata…

"Perdonatelo…" – continuò Dante coinvolgendo nella danza anche il soldato che gli stava accanto – "Vedete, al nostro amico qui piacciono le donne. Dunque non v'offendete se non accetta di dirvi come si chiama. Ma a me, a noi s'intende, sta bene tutto!".

"Il tuo nome…soldato…e se non ti è troppo difficile…il tuo reggimento…".

Un'altra risata…

Il Soldato Gustav Dumas stavolta drizzò le orecchie, che nel piglio della richiesta s'intuiva una vena seria e nessuna ombra di canzonatura. Sgomitò a Dante che sgomitò a Marcel…

"Ma che damerino esigente!" – chiosò quest'ultimo, per nulla intimorito dall'insolita domanda, che pure il soldataccio doveva aver sentito chissà quante volte, da parte dei superiori - i propri però, non quelli di chissà chi, che s'azzardava a far certe domande senza neppure uno straccio d'uniforme sulle spalle – "Vorrebbe sapere il mio nome e il mio reggimento?! Forse vuole chiedere qualcosa in più per il servizio!? Ebbene monsier…sono un povero soldatino di fanteria che ha avuto la fortuna d'esser ancora vivo nonostante questa stramba guerra! E voi…monsieur?! A questo punto anch'io gradirei sapere – casomai avessi la fortuna di calar le mie riverite brache di fronte a voi - ecco, almeno come debbo chiamarvi!?

"Oscar François de Jarjayes…" – sibilò netta e severa l'altra – "Colonnello in forza alle Guardie Reali di Sua Maestà Luigi XVI, Re di Francia…il vostro re…".

Oscar François e Jarjayes…

Oscar François e Jarjayes…

Oscar François e Jarjayes…

Oscar…

Il nome…

Il nome…

Il nome…

Il nome rimbalzò nella testa di Alain Soisson, sospinto da un dannato ricordo.

Un amico…

Un fratello…

Un figlio…

Un amante…

L'ennesima risata si strozzò nella gola, incastrata nel groviglio del nome sillabato.

Marcel Duval provò a cacciare un'altra salva d'ilarità ma la coscienza morse gl'intenti, il respiro inghiottito…

"Chi…" – balbettò appellandosi all'ultimo residuo di speranza, che l'altro oltre che bravo a scoparsi gli uomini, fosse pure un bravo commediante.

"Chi sei tu soldato!?" – punse l'altra – "Questa è la terza volta che chiedo il tuo nome. Tre volte! Una concessione che possono permettersi in pochi. Per quel che mi riguarda hai già oltrepassato il limite. Almeno saprai il nome del tuo luogotenente…".

Oscar…

Non parlare! Non dire niente! Niente di niente! Nemmeno…

Hai ripetuto un nome…tante volte…

Si…ma devi rimetterti in sesto…non parlare…non ripeterlo più. Tu sai chi è…mentre quell'uomo…quello ha detto che non può permettere che qualcuno ti faccia del male…che lo deve a lei…lei chi? Allora c'entra una donna? Chi è…

Tutto!

Lo stesso nome…

Che idiozia!

Sì…chiunque sia…troverebbe indegno ciò che sta accadendo. Se non stai fermo…Gustav non potrà comprendere che ti hanno fatto…e questa persona…forse non la rivedrai mai più! Hai detto che è tutto per te…

Tutto!

Nessuno invocherebbe il nome d'un damerino conosciuto in una bettola…

Nessuno lo vedrebbe come essenza e tutto…

Eppure…

A guardarlo in faccia quello…

"Monsieur…Sebastian Mohargen…" – sibilò Alain lì accanto, tentando d'ingoiare lo stupore che viaggiava di pari passo alla rabbia - "E' il nostro luogotenente...".

Dunque quello era un Colonnello della Guardia Reale Francese, che però s'era fatto passare per un damerino.

Perché non credergli? Che senso avrebbe avuto mentire sul proprio nome, dato che il Colonnello Fersen, con cui loro stessi l'avevano veduto a Brest, avrebbe confermato l'identità?

Quello era…

Cazzo…

Dante ingoiò lacrime e schiuma…

La mente corse a Brest, che quello l'avevano incontrato là, e proprio là gli avevo chiesto di tenere compagnia al loro compagno.

Quindi loro avevano avuto l'ardire di proporre a un Colonnello della Guardia Reale del Re di Francia di tenere compagnia a un soldato…

E quello…

Quel dannato figlio di puttana…

Alain Soisson ammise che il nome declinato dal damerino – che dunque non era un vero damerino - era credibile.

Anche gli altri alla fine si arresero alla realtà e soprattutto alla loro stessa stupidità e s'ammutolirono.

Galleggiava nella testa del soldato Soisson lo scorno dell'altra messinscena, quella della bettola a Brest.

Lui non aveva assistito alla sceneggiata ma i compari gliel'avevano narrata con dovizia di particolari, col gusto d'uno screzio tra amanti che fanno le bizze per gelosia o vendetta.

Perché dunque un colonnello della Guardia Reale di Francia avrebbe dovuto fingersi un damerino, sfidando un soldato che partiva per l'America a finire a letto con lui?!

E perché quel dannato soldato avrebbe finto di non conoscere l'ufficiale e accettato di ritrovarsi solo con lui…

L'aveva baciato sul molo, il giorno dopo…

Aveva invocato lo stesso nome…

Gli aristocratici erano davvero strani…

"I vostri…" – l'ennesima richiesta – "Nomi…"

"Marcel Duval…".

"Gustav Dumas…".

"Dante Renard…".

Le voci si sovrapposero…

"Alain Soisson…" – l'ultima s'accodò, seppure il timbro sprigionava disprezzo e stizza per via delle inconcludenti conclusioni.

Un respiro…

Ancora qualche istante…

Madame Roma accorse - "Abbiamo necessità di conferire con il Conte Fersen…si trova qui?".

"Si…" – ammise Alain che dunque declinava la resa al drappello, anche se quella che aveva esposto la domanda appariva chiaramente una donna e non un soldato.

Che una donna soldato non s'era mai vista…

L'altro invece, il damerino – che per gli avanzi di galera quello, colonnello o altro che fosse, in forza alle Guardie Reali o a qualsiasi altra guarnigione che fosse, restava sempre un damerino - pareva sofferente.

Come se nelle uniche frasi che aveva pronunciato avesse profuso tutta la residua forza e ora fosse senza respiro, quasi sul punto di crollare.

Che però no, restava in sella quello, pallido ma fermo, gli occhi chiari limpidi ma torbidi al tempo stesso, come attraversati da una tempesta imminente ma in fondo placidi, quasi rassegnati.

I soldati, senza aggiungere altro, si scostarono di lato come ad acconsentire all'ingresso del carro.

L'imbrunire incedeva lento e la luce abbracciava i volti, tingendoli d'una strana tonalità rosata, tonda e calda.

Miriadi di coriandoli ingialliti, sospinti in alto da folate di vento più intense, vorticarono nell'aria che pareva spezzarsi, incisa dai voli gentili delle foglie che ricadevano a terra, come se anche gli alberi si fossero ormai arresi alla stagione, per ritrovarsi nudi e morti, così come si ritrovava l'anima.

Lo sciabordio delle fronde occupò per qualche istante il silenzio, calato addosso come il piombo fuso che, una volta colato, inizia a rapprendersi, inesorabilmente, chiudendo il respiro, persino d'un tronco d'albero muto.

Minacciava tempesta…

Oscar s'impose un ultimo sforzo, anche se tutto doleva.

La ferita sferzava stille di raggrumato buio e ora che il viaggio era quasi giunto al termine, nulla più, nessuno spazio e nessun tempo, l'avrebbe divisa dalla verità.

Terribile era il non sapere…

Ancora più terribile sarebbe stato conoscere ciò che fino a quel momento lei aveva cercato di allontanare da sé.

Un colpetto alla gamba…

Dante tentò d'attirare l'attenzione del loro capo…

"Alain…mi sa ci siamo andati vicini! Ma l'abbiamo scampata…e chi l'avrebbe mai detto che quello era un nobile!?" – bisbigliò mentre i quattro soldati scortavano a distanza il drappello – "Un colonnello!? Bellino…cazzo…anzi no…bello davvero…ma quando l'adocchiammo un passo dietro al cicisbeo svedese…insomma…non parevano certo due pari…".

"Taci…idiota! Rammenti!? Te l'avevo detto di non immischiarti nelle faccende del conte svedese! Che diavolo v'è saltato in testa di andare a cercare proprio quello lì…per…".

"Senti! Che ne sapevamo noi? Quello è stato zitto per tutto il tempo. Quando gli abbiamo proposto di seguirci non ha mica fatto tante storie come oggi! I vostri nomi…i vostri nomi…non ha chiesto nulla a nessuno e quando s'è trovato davanti quell'altro, ci ha pure litigato perché lui…dannazione…lui non voleva saperne di farsi sotto e portarselo a letto! Valli a capire!".

Il discorso si mozzò al ricordo della lunga notte trascorsa a Brest, prima della partenza.

Era difficile pronunciare il nome di colui ch'era stato compagno fino a lì, fino alla dannata terra che s'era presa tanti compagni.

E anche…

"Ah!" – biascicò Marcel – "Chi se ne frega! Resta comunque un bel tipo quello! Si vede che è nobile…e forse i nobili fanno così! Se la sbrigano tra loro e vogliono esser sicuri di finire dentro braccia che siano della stessa pasta! E di cavarsi certe voglie solo con i loro pari! Braccia altolocate e… insomma…brache da cui non saltino fuori pidocchi o chissà quali sorprese! Ma che vuoi…alla fine abbiamo perso tutti!".

"Che intendi?" – chiese Gustav un poco sudato non si capiva bene se per la vergogna o il terrore.

"Come che intendo?" – cincischiò Marcel – "Noi siamo rimasti fregati perché pensavamo che quello fosse davvero un damerino! Di certo non avremmo mai immaginato fosse un nobile e pure un ufficiale! Ma Alain…anche lui è rimasto fottuto!".

"Caz…spiegati!" – sputò quello che stava per perdere la pazienza.

"Ma si…Alain…non ricordi che tu giuravi e spergiuravi che quello fosse una donna!? Insomma…anche se non l'hai mai detto davvero…s'era capito che lo pensavi. E allora? Non mi vorrai mica dire che quello – Oscar François de Jarjayes, Colonnello in forza alle Guardie Reali di Sua Maestà Luigi XVI, Re di Francia…il vostro re…e via dicendo – sarebbe una donna? Una donna che si veste come un uomo?!".

Alain si rabbuiò, andando con lo sguardo all'effigie del nobile che cavalcava poco più avanti, verso l'ingresso di Fort Awegen.

Non c'era verso…

S'era sbagliato dunque…

Ma non c'era verso d'ammetterlo.

"Guardatelo!" – ridacchiò Marcel Duval scostando il mento in direzione dell'ospite – "Che gradasso! Si da tante arie! Il tuo nomeil tuo nome…voleva sapere il mio nome!? Me l'ha ringhiato contro tre volte…e me l'ha pure rinfacciato! Tre volte! Che sia dannato! Glielo farei vedere io chi è Marcel Duval. Tre volte lo ripasserei per benino! Gli farei assaggiare ben altro che la sua schifosa alterigia! Se quella notte non se lo fosse tirato dietro il nostro compare…giuro che l'avrei fatto io!".

"Che cretino!" – l'appellò Dante – "E sia che quello è davvero bello…ma insomma…se poi te lo ritrovi nudo tra le lenzuola…e non sai nemmeno che farci!?".

"Ah…il sistema lo trovo!" – si schermì Marcel – "Non sono stato educato a far lo schizzinoso…".

Le becere considerazioni sarebbero proseguite ancora per un po'…

Di nuovo, strida alte e secche attirarono l'attenzione dei soldati che alzarono gli occhi al cielo.

"Quella dannata bestia!" – sputò Marcel – "Eccola che rispunta! Se riesco a prenderla prima o poi giuro che la metto s'uno spiedo!".

"Ma si!" – proseguì Gustav – "Tanto a raspare per terra si tirano fuori solo patate! Un bel pollastro arrosto con patate abbrustolite è quel che ci vuole!".

"Affrettatevi idioti…il coprifuoco è anticipato!" – li rimproverò Alain non riuscendo a staccare gli occhi dalla figura del damerino…

Che fosse davvero un maschio…

Insomma, non gli pareva affatto un maschio quello...

"Diavolo…" – ammise Dante – "Era da parecchio che non si faceva vedere…credevo che quella dannata bestia fosse finita a fare da bersaglio a qualche baionetta! E invece…".

La chiosa si perse, appena udita dall'ospite che cavalcava poco più avanti.

Che fosse davvero la stessa bestiola ch'era arrivata sin lì dall'Hudson, ma che dunque era conosciuta persino dai soldati di Fort Awegen?

Dio, la febbre era prossima a disfare ogni brandello di logico raziocinio…

L'ingresso del carro e degli ospiti precedette di poco una sorta di rapido cambio della guardia, le porte del forte sprangate e puntellate con assi piantate nel terreno.

Un drappello di soldati si sparpagliò lungo il perimetro, alcuni salirono le scale appoggiate alla staccionata, così da finire a scrutare la pianura esterna sempre più scura e livida.

"Che sta accadendo?" – chiese Oscar scendendo da cavallo.

Il contatto con il terreno, dopo giorni e giorni di viaggio e soste di pochissime ore, produsse la devastante sensazione d'essere inghiottiti da una specie di voragine che però non c'era.

Nulla attorno si muoveva, eppure la dislocazione dei soldati, lo scatto dei moschetti, il vociare che si era sollevato all'ingresso del carro, tutto si rovesciò addosso, ingigantito a vendicarsi e a risucchiare le ultime forze.

Il Soldato Alain Soisson fece il saluto militare presentandosi e mettendosi sull'attenti.

Poi lo sguardo corse verso l'alto così da indurre quello dell'ospite a fare altrettanto.

La coltre rosata striata di nuvole sottili e morbide sospinte dal vento colmò gli occhi che scorsero di nuovo la docile saetta scura che planava, compiendo cerchi ampi…

Un altro stridio, questa volta più lungo…

"Quel falco…" – ammise Alain Soisson – "Non è un buon segno…".

"Un falco?" – in quale modo un semplice falco avrebbe potuto essere un cattivo segno – "Che intendi?".

La domanda si perse nel vuoto…

Alle spalle comparve il Luogotenente Monsieur Sebastian Mohargen avvertito dell'arrivo di un ufficiale della Guardia Reale francese…

La domanda non ebbe risposta…

Oscar François de Jarjayes si presentò, porgendo la mano e chiedendo se il Conte Hans Axel von Fersen alloggiava in quel luogo.

Ne ebbe conferma…

Il cuore sussultò…

Forse era la febbre…

Il viaggio era terminato.

§§§

La forchetta tesa a tener ferma la fetta di carne.

Il coltello affondava deciso nello spessore un poco rigido, forse per via della pessima cottura, forse del pessimo animale, macellato in fretta, vecchio, sicuramente nulla a che vedere con i deliziosi arrosti ch'erano come burro, serviti su letti di verdure cotte al vapore, accompagnati da salse agrodolci o piccanti, così da render la pietanza ancora più succulenta.

Nulla a che vedere con la cucina francese, come del resto la tavola, fintamente apparecchiata, così da indurre l'ospite a immaginarsi non certo sperduto dentro una specie di fortino - avamposto in terre cedute agli indiani, così ch'essi si credessero ancora nativi d'un paese in cui ormai non contavano più nulla - ma come catapultato al desco imbandito al margine d'un boschetto d'una signorile magione, il prato falciato di fresco, ove solo teneri fiorellini facevano capolino a ingentilire il paesaggio, al paio con arbustelli di raso, ricamati sui drappi svolazzanti degli abiti delle dame che s'intrattenevano divertite a sbaciucchiare una ciliegia o a piluccare una tartina…

Nulla di tutto ciò, se non un blando barlume di civiltà pareva insinuato nei gesti e nel silenzioso desinare dell'uomo.

Lo sguardo si sollevò dal piatto…

Una giovane donna ch'era seduta lontano, gli occhi fissi a colui che mangiava, si alzò, come per aiutare l'uomo nei gesti d'afferrare il tovagliolo, pulirsi la bocca, e restare nell'insofferente attesa delle parole di colui che s'era permesso d'interrompere il pasto.

"Conte…monsieur…" – prese a balbettare il Luogotenente Sebastian Mohargen – "Ci sono alcune persone che chiedono di voi…".

L'uomo, il Conte Hans Axel von Fersen, non si scompose, la mente per nulla sorpresa, che accadeva spesso d'esser coinvolto in qualche accidente, che però non riguardava più la guerra, dato che le battaglie s'erano ormai spostate a sud, mentre lui era rimasto lì, viziato da una strana febbre che l'aveva costretto a letto per molti mesi e che gli aveva impedito di seguire il resto dell'esercito.

Aveva combattuto lì, al nord, appena giunto in America…

Aveva scritto alla donna che amava, ogni volta che aveva potuto.

Poi…

"Dite loro d'attendere…" – chiosò il conte riprendendo a tagliare la carne – "Sto cenando…offritegli di ristorarsi con acqua e quel che c'è da offrire…dannazione…siate ospitali…".

"Veramente…".

"Che altro c'è?" – spazientito – "Sapete che non amo essere disturbato…almeno nei pochi istanti che mi concedo per mangiare…".

"Ecco…una di quelle s'è declinato d'esser un colonnello…".

L'appellativo fece effetto…

"Un colonnello? E sentiamo…chi sarebbe questo colonnello? Chissà che desidera…non lo sanno che ormai qui non si combatte più!?".

"Dice d'essere il Colonnello Oscar François de Jarjayes…".

L'appellativo colonnello aveva sortito effetto…

Il nome indusse una sorta di scossa, come se la terra si fosse aperta sotto i piedi…

Fersen si alzò, quasi cadde la sedia, mentre il tavolino traballò.

"Dannazione…dovevate avvertirmi subito!" – rimproverò l'uomo affrettandosi a pulirsi e a riassettarsi la giubba sbottonata.

Dunque quel barlume di civiltà era ancora lì, attaccato addosso al corpo dell'ufficiale svedese, seppure un poco smagrito dalla febbre e dall'esistenza sbattuta dal destino.

Fersen aveva combattuto in America…

Poi una strana febbre l'aveva preso, inghiottendo le forze, la smania di vedersi eroe, il risentimento verso un amore impossibile, persino verso l'amore.

Un respiro fondo come a saggiare l'equilibrio…

Un respiro fondo…

"Suvvia! Fatemi strada…e mandate qualcuno a ripulire la baracca giù in fondo! Quella che funge da polveriera. E la più asciutta…la migliore…fate portare dell'acqua…fate portare legna per il fuoco…e…".

Il Luogotenente Sebastian Mohargen pareva in bilico s'un precipizio.

Mai aveva udito il superiore spandere ordini a raffica, come se d'un tratto le tribù dei Mohicani e dei Seneca e dei Sioux si fossero alleate e avessero deciso di circondare il forte, lasciando a intendere che la resistenza sarebbe stata vana e che persino l'onore del re di Francia ne sarebbe uscito a brandelli.

E la vita, quella sarebbe stata spacciata per sempre.

"E assicuratevi che ci sia carne migliore di quella che m'avete servito!".

Si precipitò fuori Fersen, seguito dal luogotenente.

I due uomini presero direzioni diverse, il luogotenente a rifilare a terzi gli ordini ch'erano stati rifilati a lui, mentre l'ufficiale aveva aguzzato la vista ed alla fine l'aveva veduta, lei, laggiù, poco lontano, mentre lei ancora non lo guardava.

Si fermò Fersen, un istante, come a rimirare l'altra, finalmente libera dal luogo ove si erano conosciuti.

Tutto pareva così lontano, Versailles, la corte, i pettegolezzi, i ricevimenti, le piume, la cioccolata, i merletti…

Tutto pareva così lontano e vago che sì, forse davvero colei che Fersen si trovava davanti, era solo una donna…

Solo una donna…

Nell'accezione più pura e disincantata…

Nella declinazione più mistica e dura…

Libera…

Così come lo era lui che sì, davvero in quell'istante, si disse che lui avrebbe potuto amare di nuovo e forse cominciare a vivere per la prima volta.

A grandi passi s'avvicinò.

Lo sguardo s'aprì alla vista dell'altro, che dunque lui era vivo.

Dunque quella storia era giunta al termine…

Quale storia?

La tua…

O quella di chi….

Fersen…

Resta…

Fersen…

L'uomo avrebbe voluto abbracciarla…

Oscar se ne avvide e s'irrigidì, d'istinto, come se – al contrario di ciò che aveva vissuto l'altro – nulla attorno a loro fosse mutato.

Anche se non erano a Versailles, anche se non erano a corte.

Anche se, tutto sommato, non erano solo le dame a spandere chiacchiere lungo i vialetti che portavano alle fontane della reggia, ma pure i buontemponi che stavano lì, con gli occhi addosso e il fiato sospeso, capaci di rivelare lingua e arguzia sufficienti a tessere maldicenze e pettegolezzi.

Ma non era neppure quella la ragione.

Il Colonnello Oscar François de Jarjayes ammise che in qualunque storia lei fosse finita, nulla le importava in quell'istante.

Se non che rivedere Fersen…

Cercarlo, essere arrivati sin lì…

Era stato per cercare altro…

L'altro…

Il nome sussurrato…

Parole di scherno e stizza!

Non dovevi lasciarmi!

Perché sei partito?

Perché…

Non doveva finire così la nostra Storia!

Oscar, quale Storia?

Io e te non ci lasceremo mai.

La nostra Storia, qualsiasi sarà il pittore, qualsiasi sarà lo scrittore, chiunque penserà a noi e a chiunque noi rivolgeremo lo sguardo, sarà sempre la stessa.

Non abbiamo scampo, perché noi siamo nati per essa e la nostra Storia non cambierà mai, nemmeno se noi non volessimo più viverla!

Augurami buona fortuna…

Non dimenticarmi…

Fersen non era Fersen…

Fersen in quell'istante era André, il suo destino, la sua storia…

La loro Storia…

André…

Oscar avrebbe voluto chiedere…

Il nome sgusciò dalle labbra, come fosse stato respiro…

Non aveva senso…

Fersen s'avvide che Oscar era sulle spine.

La osservò, gli pareva terribilmente provata.

L'istinto ebbe gioco facile…

Un mormorio strozzato accompagnò il gesto di prenderle la mano, anche se lei non l'aveva porta ma lasciata abbandonata, pari al corpo, come perduta nell'incedere dell'altro.

Così che Fersen s'era chinato a porgere saluti trattenuti, ch'erano poi sfociati nella stretta vigorosa ma dolce.

Le prese la mano, muto, la fissò negli occhi, muto…

Contemplazione iridata e fissa…

In quell'istante fu come se tutto ciò che entrambi avevano vissuto, la partenza dell'uomo, il saluto e poi l'incontro a Brest e quella strana richiesta…

Resta…

Tutto svanito o forse tutto concentrato in quella stretta…

I compari attorno fecero smorfie strane…

Alain tirò un calcio a un sasso, come a tentar di scaricare la stizza…

S'era sbagliato ma non c'era verso di farsi andar giù quel boccone amaro.

Gustav rimase lì un poco estasiato dalla visione, che i due, all'apparenza sconosciuti, parevano invece aver molta stima l'uno dell'altro e reciproco affetto.

Che fossero due uomini per lui non aveva importanza…

Di colpo la visione dell'altro nella bettola a Brest era risorta alla mente e di colpo, assieme ad essa, era spuntata, di nuovo, la mistica attrazione, strana mescola di stupore e appagamento, che l'aveva pervaso e costretto a mordersi il labbro e a tacere, prima ancora che con i compagni, proprio con se stesso.

Vai a capire come fosse accaduto che lui…

Dante, per parte sua, tirò una maledizione…

Marcel fece spallucce…

La mano stretta nella mano - "Non mi sarei mai aspettato di vederti qui…" – il respiro quasi trattenuto…

"Ebbene…".

"Va tutto…bene?" – il respiro sospeso…

"Si…" – ammise Oscar – "Per quello che so…va tutto bene…".

Implicita ammissione che nessuno dei due stava parlando dell'altro ma di altro

"Caz…si conoscono quei due!" – chiosò Dante, sgomitando ad Alain.

"Me ne vado!" – grugnì l'altro che a quel punto aveva visto abbastanza e del resto gl'importava poco.

Il soldato badava ai fatti suoi.

In fondo, ricevere la visita di una persona conosciuta, ch'era arrivata sin lì, sin dalla Francia, altro non poteva dar ad intendere che l'affetto fosse estremamente radicato.

Chi mai avrebbe attraversato l'oceano e affrontato i pericoli d'un simile viaggio di centinaia di miglia e persino le ultime frange d'una guerra che stava volgendo al termine se non per ottenere quel contatto, quella stretta di mano…

Gli occhi indugiarono…

Per un istante la mente implose e i sensi sussultarono.

Come se il tempo che pure mai avrebbe arrestato la sua corsa, si fosse improvvisamente fermato mentre i due si guardavano.

Il tempo davvero, non s'arresta mai!

"Fersen…vorrei…".

"Axel…ricordi?" – chiosò l'altro con un sorriso, sempre tenendo la mano, come se il contatto avesse risvegliato ogni senso di sé, come se d'improvviso l'anima fosse stata attinta da una immensa onda di gelo incandescente – "No…taci! Non ho idea del perché tu sia qui…".

"Ho ricevuto l'ordine…di…recare armi e…" – il respiro tentennava – "Denaro…".

"E sia…qualunque questione la rimanderemo a dopo…vieni…".

La tenne per mano come si tiene una bambina che ritorna da una passeggiata e nel cammino è caduta a terra e s'è sbucciata un ginocchio e nonostante tutto il coraggio sta per mettersi a piangere ma non può, non davanti a tutti.

"Messieures…" – lo sguardo si volse agli altri compagni di viaggio, che poi Fersen se ne avvide, che gli altri non erano propriamente tutti uomini - "Chiedo venia…mesdames…".

La chiosa colpì i soldatacci, che gli altri due viaggiatori erano donne…

Eppure…

"Vogliate accettare la nostra accoglienza. Il Luogotenente Mohargen vi condurrà in un luogo più adatto alle vostre esigenze…" – gli occhi s'adagiarono su di lei, la mano tirò un poco impaziente, che però Fersen prese a indietreggiare, a passi dapprima lenti poi più veloci, la mano stretta nella mano….

"Soldato…" – gli occhi fulminarono Dante Renard – "Presto…porta altra legna nella mia tenda…".

L'altro annuì…

I gruppi si sciolsero…

Madame Roma osservò l'invisibile legame che traspariva muto nella stretta della mano.

La sera avanzava…

I passi avanzarono sopra foglie accartocciate, erba secca, odore di fuoco appena acceso, braci spente…

La foga condusse dentro la tenda allestita per l'ufficiale dei Dragoni di Svezia…

Oscar si fermò…

Fersen davanti a lei, di spalle.

Si voltò l'uomo e lì, al buio, lasciò la mano e l'abbracciò mentre l'aria si tingeva dello straziante sentore del ricordo di tante giornate d'autunno, tutte simili, trascorse altrove, in un altro tempo, in un altro luogo.

Tempo fermo dunque…

Impigliato chissà dove mentre il corpo accoglieva l'abbraccio.

Il tempo davvero, non s'arresta mai!

Istanti sorprendentemente lunghi e fermi colmati dal respiro muto.

Dante Renard sbuffò tre accidenti mentre sollevava il lembo di tenda che dava nell'antro ove dormiva e viveva il Colonnello Hans Axel von Fersen.

Un ceppo cadde, il soldato imprecò una mezza dannazione chinandosi a raccoglierlo.

"Non m'importa perché sei qui!" – le parole sciolsero lacrime appena accennate, l'aria carica dei canti della sera, del peso ruvido della stanchezza, dell'aroma della calma, intrecciato a opachi aloni di luce morente…

Dante Renard s'ammutolì…

"Fersen…aspetta…" – un mugugno, Oscar avrebbe voluto sapere e al tempo stesso sapeva che anche l'altro avrebbe voluto sapere.

Ciascuno del proprio destino…

Lei no…

"Mademoiselle Oscar François de Jarjayes…" – sussurrò Fersen abbracciandola, la testa di lei schiacciata lì, contro il petto, sul cuore, così che fosse libera d'ascoltarlo, una mano a trattenere i capelli, l'altra aperta sulla schiena…

Il soldato perse la presa del ceppo di legno, di nuovo…

Un tonfo sordo…

"Caz…" – che quello fece un passo indietro per riguadagnare un poco d'ombra, serrando le labbra per trattenere l'imprecazione.

"Lasciami parlare…" – continuò Fersen mentre il cuore innalzava la sua corsa – "Mi dirai tutto…tutto ciò che rechi con te ma ti chiedo solo un istante per lasciarti abbracciare…sei una donna di rara bellezza e intelligenza…vorrei avere il tuo coraggio…".

Un passo in avanti stavolta…

La mano scostò un poco la tenda.

Dante Renard scorse la sagoma unica, i due corpi abbracciati, che sì anche il damerino ora aveva chiuso le braccia sull'altro, come se ci si fosse aggrappato, come se, senza il sostegno dell'altro, sarebbe caduto.

"Porca puttana!" – masticò Dante appoggiando con delicatezza il secchio con la legna sul limitare della tenda – "Alain…quel demonio di Alain aveva visto giusto!".

Silenzio…

Oscar si ritrovò senza alcun pensiero nella testa, l'abbraccio la sorreggeva, che senza sarebbe crollata.

"La mia Oscar…devi aver affrontato un lungo viaggio…".

"Fersen…ascolta…".

"No…aspetta…ascolta tu…te lo chiederò solo una volta….perchè sarebbe assurdo se non lo facessi e so che il mio silenzio ti risulterebbe estraneo. Dunque…come sta…Maria?".

Un passo indietro, un altro passo ancora - "Che mi venga un accidente!" – sputò Dante tra sé e sé, tappandosi la bocca con la mano.

"Sua Maestà sta bene…anche la sua prima figlia…Marie Therese…".

Fersen fu costretto a staccarsi, guardò l'altra - "La sua prima…" - l'implicita affermazione ruppe il silenzio – "Figlia?".

"So che vi siete scritti…" – ammise l'altra che non sapeva fin dove fossero giunti i messaggi scambiati…

"Si…ma poi…non l'ho più fatto…e…non importa…vorresti dire che…".

"Sua Maestà…quando l'ho lasciata e sono partita…lei attendeva il suo secondo figlio…credo anzi che forse nascerà a breve. Non ho avuto altre notizie dalla Francia, notizie dubbie intendo, nulla di strano neppure quando siamo sbarcati. Non ho certezze ovviamente ma credo che tutto proceda per il meglio. Dunque il bambino dovrebbe nascere tra qualche settimana…".

"Un altro figlio…".

S'era immaginata la reazione.

Così come era accaduto la prima volta, Fersen aveva declinato stupore misto ad affetto, come se la gravidanza di Sua Maestà fosse stata una condanna e al tempo stesso una salvezza.

Come poteva l'amore racchiudere in un'unica persona entrambe le sue facce?

"Un figlio..." – Fersen afferrò la testa dell'altra, la strinse, accarezzò i capelli, come se quella mocciosa con le ginocchia sbucciate ora avesse smesso di frignare e fosse lì, docile, a lasciarsi consolare della sconfitta – "E' un bene per Maria…".

Tremava la voce…

Silenzio…

"Io credo…credo d'aver fatto chiarezza…" – balbettò Fersen come in preda allo spasmo del ricordo fatto a brandelli dal tempo ch'era corso – "Credo di amare Maria, come si ama un dolce ricordo, come si ama una giornata di sole oppure una pioggia ristoratrice. Dio…forse davvero non la amo più come un uomo amerebbe una donna…come potrei amare…un'altra donna…".

Che si staccò Fersen, come a voler imprimere il senso delle sue stesse parole proprio a se stesso.

Fersen non amava più la regina di Francia…

"Porca…porca…porca…puttana!" – imprecò Dante, di fuori, pestando i piedi come per cavarsi di dosso fameliche termiti moleste che l'aggredivano sulla gamba - "Quando lo sapranno gli altri…".

"E dunque ecco. Lei sta bene. Questo mi basta e mi rende felice. E dunque non voglio più parlare di lei ma di te. Oscar…sei…qui…" – sussurrò Fersen, che Dante Renard indietreggiò, prese a correre, sgusciando come una lepre tra i compari che allestivano la brace, di fuori, scansando un paiolo d'ossa scarnificate, pronte per esser messe a bollire…

La domanda uscì, sussurrata, fonda…

"Fersen…André…dov'è André?".

Il respiro sospeso…

Dante entrò come una furia nella tenda occupata dai soldati ch'erano stati compagni di viaggio e anche compari di quella strana storia, fin dalla prima piega ch'essa aveva preso al porto di Brest.

Gli occhi strabuzzati a cercare il compare che a quanto pare aveva avuto la vista o forse l'olfatto più lungo di tutti.

Alain Soisson era giovane, di poche parole, guardingo e sprezzante…

Ma le donne, quello le annusava lontano un miglio.

"Alain!".

"Che c'è".

"Alain…".

"Cazzo…che hai!?".

"Avevi…ragione…" – balbettò Dante pallido e malfermo sulle gambe…

"Avevo ragione su cosa!? Ma vuoi spiegarti! Sembra che tu abbia visto un animale selvatico…che…".

"Quelle sono femmine! Donne!".

"Che scoperta! Ma sei rimbecillito? Le abbiamo viste tutti! Una è indiana, l'altra sembra uscita da un ritrovo di streghe…e…".

"No! Dannazione! Sono – tre – femmine! Tre donne!".

L'altro si alzò dalla branda e si mise a sedere…

"Senti…s'è uno scherzo…" – che tanto tutti quanti sapevano bene a chi si riferisse Dante, chi fosse il famigerato terzo

"D'accordo…a me non pareva un uomo" – sputò immusonito Alain seppure gli occhi s'assottigliavano in un'espressione di feroce disappunto – "Mi sarò sbagliato, che vai blaterando adesso?"

"Senti tu invece! Chiariamo e facciamo i conti! Tre uomini! Due dannati pellerossa e un bianco, un ufficiale di quart'ordine. Non parlo di loro. Sai bene a chi mi riferisco! Il dannato damerino!".

"Il damerino...".

"Quello ha detto di chiamarsi Jarjayes?!" – farfugliò Dante alla ricerca d'un appiglio – "E gli ufficiali se non sbaglio sono nobili!?".

"Dannazione si...ma che c'entra adesso...".

Dante indietreggiò cercando con lo sguardo il povero Gustav Dumas che, a occhi sgranati e un poco timorosi per via dell'irruenza del compare, stava lì, in attesa d'una domanda, che quando gli altri non sapevano dove andare a parare, toccava sempre a lui dipanare una qualche strana matassa.

"Giusto te...Gustav...dimmi un po'...tu hai avuto a che fare con i nobili? Insomma…stai sempre a dire che tu sai il latino…e sai leggere e…allora conoscerai anche le famiglie dei nobili!?".

"Sss...ì" – sibilato e sospeso che Gustav non comprendeva – "Non capisco che diavolo vuoi?!".

"E allora...dimmi...dimmi un po'...questi Jarjayes...li avevi mai sentiti prima?".

Annuì Gustav anche se dubbioso. Aveva già sentito quel nome...

"E allora..." – Dante pareva trasecolato – "Siccome sai che tutti i nobili hanno uno stemma di famiglia…conosci per caso anche quello dei Jarjayes? Lo conosci?".

Gustav strabuzzò gli occhi.

Era cresciuto in una specie di convento, alle porte di Parigi. Aveva appreso qualche rudimento di scrittura e di Storia della Francia, e s'era ritrovato tra le mani gl'istoriati araldi trascritti s'uno strano registro.

Se n'era appassionato...

Se n'era sempre vantato con i compagni, siccome non era proprio avvezzo alle armi, per lo più perchè gli piaceva essere più in gamba di quelli a cincischiare dei nobili e delle loro stravaganti abitudini di darsi uno stemma che rappresentasse la famiglia.

La plebaglia di Parigi sapeva solo che spesso si trattava di animali, nostrani o esotici...

Ma nulla di più specifico o complesso.

Lui invece, li rammentava bene e ne era fiero, ma che dannazione era quella, adesso, di averci a che fare così, su due piedi, con quelle effigi!?

"Ecco...i Jarjayes..." – balbettò Gustav grattandosi la testa – "Credo...il libro dell'arme…quello degli stemmi…".

"Avanti!" – l'incalzò Dante che attendeva di poter sciorinare la sua strabiliante verità.

Il pidocchio aveva solo da sincerarsi con quale animaletto avrebbe avuto a che fare, uno o l'altro non avrebbe fatto differenza...

Oppure chissà, magari si trattava d'una pianta, un tralcio di vite, una rosa, un arbusto...

Ma se quella era nobile ed era un ufficiale, andava da sé che non poteva ch'esserci di mezzo un qualche marchingegno da battaglia!

"Lasciami pensare Durante!" – si stizzì Gustav.

"Durante…che…" – rintuzzò Dante…

"Che non lo sai? Che il tuo nome non sarebbe proprio Dante…ma Durante?! Sei proprio un ignorante! Passami la rima!".

"Se la finisci con queste ciance…" – l'incalzò l'altro che aveva fretta…

"Dunque…se non ricordo male, dovrebbe essere un leone di colore blu…o con lo sfondo blu…e chi se lo ricorda?! E il leone regge una spada!" – sussurrò Gustav continuando a grattarsi la testa, roteando gli occhi nocciola alla ricerca d'una conferma entro i meandri della memoria – "Sì...un leone blu che regge una spada!".*

"Ah! Un leone!" – gridò quasi stravolto Dante – "Ebbene...messieurs...allora…qui sovviene in aiuto lo stemma! Dunque né un gatto, né un serpente! Ma nemmeno un dannato coguaro! Come si definiscono qui in America…i dannati leoni selvatici! Che adesso per via che non si trova più niente da cacciare…son tutti spelacchiati e magri!".

"Che…".

Si alzarono gli altri, sbigottiti all'ennesimo ridicolo appellativo…

Coguari in quelle terre ce n'erano, ma nulla a che vedere con le bestie che da bambini qualcuno di loro aveva adocchiato, rinchiuse nelle gabbie di saltimbanchi o girovaghi, raminghi per la Francia.

Animali spelacchiati, abbruttiti dalla prigionia, così terribilmente vaghi nella somiglianza alle fiere strane e asciutte ch'erano state viste girovagare per le montagne d'America, magre, velocissime, tanto silenziose quanto infallibili, pericolose insomma.

"Insomma quello non è un coguaro!"– soffiò Dante, cadendo con un tonfo sopra un mucchio di sacchi e teli abbandonati in un angolo…

Un istante di silenzio…

"Quella è una femmina!" – mimò il soldato aggiustandosi la giacca dell'uniforme, come a sistemarsi le pieghe sul petto – "Una donna!".

Silenzio tombale…

Dapprima un paio di respiri muti poi un fischio…

Poi lo scroscio di risate…

"Che significa?" – chiese Alain quasi inferocito.

"Una femmina?!" – canzonò Marcel – "Quello!? Il damerino sarebbe una…" - il respiro mozzato dalle risa, non riusciva neppure a proseguire il discorso - "Femmina?! Ma non dire idiozie!".

Marcel guardò in aria, prendendo a pestare i piedi a terra, come per scaricare una specie di forza immane, sgorgata repentina dal fondo delle viscere, una sorta di frustata, alla stessa stregua che se si fosse appreso d'un tratto che la guerra era finita e loro se ne sarebbero tornati a casa, portando la pelle in salvo.

Pareva una danza indiana a esorcizzare l'esito fatale d'una battaglia…

La polvere insinuata dentro il tendone, si sollevò…

"Il Conte Fersen…l'ho sentito con le mie orecchie…l'ha chiamata mademoiselle!" – sferzò Dante piantandosi davanti agli altri – "Anch'io non ci potevo credere!".

"Ma l'avrà detto per prenderti per i fondelli! Magari avrà capito che stavi lì, a origliare!" - contestò Marcel, tentando di darsi e dare al compare una spiegazione plausibile – "O non gli andrà di far sapere a mezzo mondo che si scopa un bel giovane biondo…".

"Senti…" – Dante l'afferrò per il bavero della giacca, fissandolo in faccia, a muso duro, accordando la voce al tono languido sgusciato dalla bocca del conte svedese – "Mademoiselle Oscar François de Jarjayes…sei una donna di rara bellezza e intelligenza…vorrei avere il tuo coraggio. L'ho sentito con le mie orecchie…perché dovrei mentirvi? Che ci guadagno?!".

Gustav Dumas tossicchiò e soffiò a vuoto nell'aria.

Gli pareva un'eresia la conclusione a cui era giunto il compare, seppure una sorta di chiarore vago e tiepido al tempo stesso frustò i muscoli, mentre la testa cercava il senso corretto per inquadrare la faccenda e le immagini scorrevano davanti agli occhi, quando a Brest aveva veduto i due uomini, il Conte Fersen prima e il soldato dopo, avvicinarsi al damerino.

Rammentò la posa, anche se veduta da lontano nel tempo.

"O imitatores, servum pecus!"** – disse piano lisciandosi le unghie nella giacchetta sdrucita.

"Ehhh…".

"O imitatori, gregge di schiavi!" – spiegò, con un mezzo sorriso, perché se davvero Dante aveva scoperto la verità, se quella era la realtà delle cose, tutto s'aggiustava e si ricomponeva e lui stesso – il giovane soldato Gustav Dumas - intuiva il senso della caduta dei sensi e persino quel che poteva essere accaduto, che lui – il dannato soldato che non c'era più - aveva osato tutto, aveva accettato di servire il demonio, era sceso all'Inferno.

Solo lui…

Mentre l'altro…

"Dai! Spiegati!" – l'incitarono i compari tra pacche sulle cosce e sulle spalle, le facce deformate dalle risa irrefrenabili, che mica l'avevano poi compresa la questione.

"Idioti!" – gridò Alain…

Gustav negò, il volto incupito, un sussurro tra sé e sé, immaginando il viaggio e forse l'origine del dannato viaggio – "Quello è solo scimmia!".

"Ma non ci si può credere!" – prese a rimproverare Marcel, l'unico scettico, all'indirizzo di Alain e adesso anche del soldato Gustav Dumas, che pareva essersi convinto, anzi forse non aveva avuto alcuna necessità di ritrovarsi convinto di quel che aveva appreso, ch'era come se lo sapesse già – "Dev'essere uno scherzo! Alain…Gustav…quello ha detto di essere un Colonnello della Guardia Reale!".

Marcel intercalò respiri fondi, a parole e poi ancora a risate – "Dante! Ma che avrai capito!? Non si è mai udito un racconto talmente inverosimile…ma quando mai… una donna ufficiale!? Una donna!?".

Alain s'ammutolì davvero…

Davanti agli occhi scorse il bacio…

Il loro compagno aveva baciato una donna, là, al porto di Brest.

Adesso era chiaro.

E chissà che diavolo doveva essere accaduto…

E, dannazione…

Ma qual era la spiegazione…

No, non era necessario ottenere altre conferme o spiegazioni.

Erano lì, lui gliele aveva messe sotto gli occhi, fin dall'inizio.

Alain si alzò in piedi…

"Lui lo sapeva!" – sibilò sputando a terra – "Lui sapeva chi era! Ecco perchè ha fatto finta di non conoscerla...nella bettola...non voleva che si sapesse chi era lei!".

Marcel e Dante respirarono piano.

D'improvviso le risa scemarono per lasciar posto a un silenzio piombato.

Gustav intuì che il compare aveva svolto lo stesso ragionamento.

"Che stai dicendo Alain!? – chiese Dante – "Che lui…che…che l'avrebbe sempre saputo chi era quello!? Per la miseria…quella?!".

"Si! Anche voi eravate al porto, prima della partenza. Non si è trattato d'un bacio per salutare qualcuno appena incontrato, insomma conosciuto la sera prima. L'avevo capito ma non riuscivo a spiegarmelo…".

"Dunque…lui…" – sibilò Marcel…

"Lui sapeva chi era il damerino…dannazione! Lui sapeva che quella era una donna…e chissà da quanto! E' difficile conoscere una persona del genere senza sapere chi è davvero. E poi…è un colonnello…è un ufficiale francese! Possibile che non sapesse neppure questo?! Come diavolo potrebbe mai un soldato semplice finire a letto con un ufficiale…senza saperlo!?".

"E il conte allora?" – rincarò Marcel.

"Li abbiamo visti camminare assieme, la sera prima, rammentate? Credo che anche il conte conoscesse quella donna!" – sibilò Alain furioso, guardando Gustav, ammettendo allora di comprendere il senso delle parole, anche se lui del latino non sapeva proprio un accidente.

"Allora quella è furba! Se la fa col conte e pure col soldato!" – tamburellò Marcel un poco stremato dalla conclusione.

Stavolta fu Alain a negare, che a parer suo la questione non era così banale.

Gustav ammise che il compare aveva ragione.

"Che intendevi con quella scimmia?" – chiese Dante rammentandosi della chiosa.

"Penso che qualcuno abbia voluto prendersi un amore che non gli spettava!" – spiegò Gustav lieve – "Dunque come se un leone volesse imitare un leone…che però…così diventa solo una scimmia!".

Stavolta la chiosa non produsse ilarità.

"Quel conte non m'è mai piaciuto! Sì…" – ammise Marcel un poco rattristato – "Non gli sarà andato giù che quella donna l'abbia piantato in asso a Brest! E che se ne sia andata…si vedeva che quel dannato nobile…avrebbe voluto essere come…come…",

Dante tirò su col naso e si passò il palmo sulla faccia…

"In ogni caso…ormai è tardi…".

E' tardi…

E' troppo tardi…

"Ma non l'hai saputo?" – disse piano Fersen guardando l'altra negli occhi – "Credevo…so ch'era stato compilato l'elenco…".

Le mani del conte scivolarono sulle spalle come per tener fermo il corpo dell'altra, che quando anche l'altra l'avesse saputo, adesso era lì, a chiedere conto d'una esistenza.

"E' morto…è accaduto molti mesi fa…è…".

Strinse le spalle Fersen…

La stretta incise la carne…

Gridò la carne già spezzata e ferita…

Forse fu un bene, che le parole esplosero lacerando i sensi e la coscienza.

Oscar François de Jarjayes non ci aveva mai creduto…

Era vissuta fino a quel momento, correndo, sperando, vivendo sempre senza vivere il tempo.

Era vissuta inchiodando il tempo al passato, rifiutando d'immaginarsi un futuro, uno qualsiasi.

E' morto…

Implose il corpo…

Giù…

Perché il tempo, in realtà, non si era mai fermato. Aveva continuato a scorrere ma lei no, lei non l'aveva accettato.

Ma adesso avrebbe dovuto farlo.

Il buio scese addosso, come velo di morte che toglie il respiro e chiude la voce.

* Traduzione dai sottotitoli inglesi della descrizione dello stemma della famiglia Jarjayes riportato nella puntata 32 dell'anime, in versione giapponese – The prelude of the storm.

** Orazio, Epistola I

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