I seem to have attracted a troll reviewer, please just ignore them!
Improbabile famiglia
Soisson, a environ quatre vingt miles à l'ouest de Paris...
Non era giunta poi troppo distante dal lurido sottopasso di Parigi, dove sua madre aveva deciso di uccidersi, portandosi dietro nell'acqua nera della Senna quella bimbetta ricciuta, occhi verdi e pochi denti in bocca, e ancora meno parole imparate a memoria, per via della fame e della solitudine che aveva patito.
La missiva ricevuta da parte di Monsieur Bahamut diceva che la bambina era stata tirata fuori dal fiume, fradicia, occhi spalancati, quasi annegata, senza un soldo, le vestine all'apparenza garbate e dignitose, subito strappate di dosso e requisite e rivendute per ripagare la benevolenza dell'orfanotrofio ove era stata portata e dove non era rimasta che per pochi giorni, giusto il tempo di comprendere se qualcuno si fosse messo in cerca di lei, cosa poco probabile, che se una giovane donna si butta nella Senna e ci porta con sé pure la figlia, forse proprio per questo, nessuno s'era immaginato di provare a volerle bene, dunque proprio per questo, nessuno avrebbe mai cercato la figlia quasi annegata.
Infatti, nessuno era mai più tornato a cercare Victoire, nessuno aveva chiesto di lei, nessuno aveva domandato chi fosse.
Si sapeva solo il suo nome, che la bambina aveva cominciato a ripetere come un'ossessa qualche giorno dopo essere finita nell'orfanotrofio, forse perché lo spavento d'aver rischiato di annegare e poi d'essersi ritrovata sola al mondo aveva aggrovigliato la lingua e spento l'innocenza, ma solo per poco.
Victoire Jenevieux figlia di Amalie Jenevieux, una giovane sconosciuta ch'era giunta a Parigi, poche ore prima di decidere di ammazzarsi, dalla strada che veniva da Versailles.
Anche se quella, Amalie Jenevieux, in giro per Parigi, l'avevano veduta ancora, molto tempo prima, soprattutto dalle parti di Rue Vivienne.
La bambina non era mai stata adottata da alcuna famiglia e alla fine, troppo grande per allettare la caritatevole abnegazione di qualche insigne dama, era stata spedita in un collegio maschile a Soisson, come domestica, aiuto cuoca, insomma a fare quel che poteva competere a una mocciosa sola al mondo.
Quella anche se poco mangiava e dunque doveva ripagare la spesa di nutrirla e vestirla.
Soisson...
Erano trascorsi ormai sei anni.
Il cavaliere estrasse di nuovo il pezzo di carta.
Monsieur Bahamut si scusava di non aver compreso subito che la mocciosa che Monsieur Victor Girodel gli aveva dato incarico di cercare fosse proprio quella finita in un certo orfanotrofio, per poi essere spedita a lavorare presso quel certo collegio, a Soisson.
Certo, mocciose ripescate dalla Senna non ve n'erano state poi tante, ma nemmeno così poche da fugare il dubbio su chi fossero davvero, ciascuna di quelle.
Dal muretto che divideva il convitto degli studenti dal fazzoletto verde, ove sui fili ondeggiavano lenzuola bianche stese ad asciugare, mentre a terra danzavano caute piume e piumette di oche e polli spennati, mentre dentro paioli enormi si bollivano ossa e grasso per ricavarne sapone e candele, schizzarono tre sassolini, poi giunse un fischio, un suono a metà tra lo scherno e il richiamo.
Victoire sollevò lo sguardo, scostando il ciuffo di capelli ribelli che le ondeggiava sugli occhi, l'orecchio in attesa di riconoscere la provenienza esatta del suono.
L'ennesimo granello di pietra rimbalzò ovattato sulla biancheria appena sciacquata.
"Scemo! La finisci? Dovrò rilavare tutto!".
"Ah...Mademoiselle Victorie Jenevieux...ti si sciuperanno le mani!" – canzonò la voce da dietro il muretto.
"E a voi Monsieur le Crétin vi si sciuperà il di dietro se non la smettete! Vi prendo a calci appena vi avrò di fronte!".
"Per prendermi a calci nel di dietro..." – il ragazzetto si mostrò alla fine, mettendosi a cavalcioni del muro, tenendosi al bordo e ficcando gli occhi azzurri addosso alla bambina ch'era intenta a lavare lenzuola e canovacci – "Dovresti starmi dietro!".
Si tuffò il moccioso giù dal muretto, atterrando sui piedi, molleggiando per non rischiare di piantarsi a terra.
Tre passi e fu accanto all'altra, le girò attorno saltellando per prepararsi a fuggire.
"Mocciosetta!".
"Smettila! Sto lavorando! Mentre tu non fai altro che startene lì a prendermi in giro...".
Victorie si sollevò in piedi, un respiro fondo, da quando era giunta nel collegio di Soisson non aveva fatto altro che sbrigare faccende ogni santo giorno, il corpo si era allungato, seppur era rimasto smunto come la canna scorticata di un giunco straziato dalla tempesta.
I capelli raccolti in una cuffietta erano ormai lunghi e folti, leggermente scuriti dal tempo, le mille pagliuzze dorate dello sguardo vibravano di rabbia, immaginando il vuoto che giorno dopo giorno il passato scavava dentro di lei.
Rammentava poco o nulla della sua esistenza.
Le avevano detto che sua madre aveva tentato di uccidersi e di uccidere lei.
Amalie Jenevieux c'era riuscita, Victoire si era salvata.
E lei dunque era vissuta così, anzi era banalmente sopravvissuta, con la duplice colpa sulle spalle, esser forse stata la causa della morte di sua madre ma poi esserle sopravvissuta.
Si era sempre immaginata sola, perduta, e dunque non aveva potuto far altro che aggrapparsi al poco che le scorreva intorno.
I muri sbrecciati delle case e dei ponti, le staccionate, i denti di leone che ondeggiavano al vento di primavera, i rami lievi e sottili dei salici, le nuvole bizzarre e variegate del cielo, gli odori delle cucine, il conteggio dei passi compiuti per raggiungere le dispense o i lavatoi, il tempo che scorreva tra una sgridata e una tirata di orecchie.
E infine quello che separava il momento in cui aveva appena scambiato una parola con quel moccioso che studiava al collegio maschile e che se ne stava sempre in disparte a tirar sassi alle finestre oppure a leggere a testa in giù, a penzoloni da un ramo di quercia, e l'istante in cui l'avrebbe veduto di nuovo.
L'altro aveva circa quindici anni, i capelli chiari ma non troppo, gli occhi azzurri come il cielo, i vestiti eleganti e i modi decisamente irriverenti ed era il suo solo amico. Il migliore che avesse.
Ma si sa quando di amici se ne conta uno solo, per forza quello dovrà essere il migliore.
Si erano conosciuti e quello aveva preso in simpatia la mocciosetta che andava e veniva dalla lavanderia, portandosi dietro ceste di biancheria sporca e poi ceste di biancheria odorosa di Marsiglia, pulita, talmente bianca da abbagliare quasi, sotto i raggi di sole sgargianti di quello scorcio di fine estate.
Qualche volta l'aveva aiutata, di nascosto, perchè i giovanotti del collegio non potevano svolgere incombenze servili. Ma quello diceva sempre che le persone sono tutte uguali e che se Victoire lavorava lo poteva fare anche lui e che sarebbe giunto un giorno in cui davvero tutti...
"Vattene!"- gracidò Victoire tentando di tenere il broncio, anche se quando l'incontrava, l'altro, si sentiva felice e si rasserenava, che lui era l'unica persona che teneva a lei.
Non aveva più nessuno al mondo e lo studente non era un muro sbrecciato, un ponte, un dente di leone, il ramo di un salice, l'odore di cipolle o il sentore di Marsiglia d'un lenzuolo lindo e asciutto.
Lui era vivo...
Il nome della mocciosa gridato alle spalle, dal fondo buio del corridoio in fondo al corpo centrale dell'edificio...
Il giovane si alzò, lo sguardo rabbuiato perché non gli piaceva quando Victoire veniva richiamata così, come fosse una specie di cane fuggito per correre dietro a una pernice, perduto nel bosco ad annusare fragoline, dimenticandosi del suo dovere.
"Non andare!" – sussurrò il ragazzino, che l'altra si strusciò la fronte col dorso della mano, asciugandosi il sudore, ricacciando a terra la cesta di lenzuola.
"E poi? Se non vado ci sarai tu ad aiutarmi quando questa sera mi toccherà lavare montagne e montagne di piatti e passare lo strofinaccio per tutto il refettorio e...".
Il nome gridato, il guizzo, il giovane tentò d'afferrare l'altra che quella non obbedisse...
Victorie fu più veloce: "E tu saresti quello che non riuscirei a prendere a calci nel sedere?!" – canzonò quella – "Ah! Sei troppo lento!".
"Non..." – il respiro sospeso – "Andare!" – gridò l'altro che però la bambina era già scomparsa nel cono scuro del corridoio buio.
Gli occhi sgranati a osservare la stanza enorme, ricolma di libri e annuari e piante geografiche e alambicchi.
E poi c'era un mappamondo color Terra di Siena da un lato, istoriato di venature verdi e rosse…
E poi...
Il rettore, un prete abbastanza vecchio da saperla lunga su certe faccende e non avere nessun interesse ad accertarsi se quelle faccende non avrebbero finito per nuocere a una delle sue sguattere, era seduto alla sua scrivania.
Le fece cenno di avvicinarsi.
Un passo...
La luce ch'entrava dalle finestre non le aveva permesso di scorgere l'ombra che se ne stava di lato.
Però poi Victoire si accorse di quell'uomo che si era voltato, aveva fatto un passo e l'aveva osservata e lei l'aveva guardato...
E le mille pagliuzze dorate erano sussultate, a chiunque si fosse soffermato a scrutarle, vibrando improvvisamente nel viso fresco e un poco magro della mocciosa, come colpite da una luce differente da quella del giorno, una sorta di velatura vitrea che nasceva da chissà quale profondità passata.
Voci mai udite, mescolate a quelle della bettola in cui forse era vissuta...
Pentole sbattute, odore di spezzatino, patate, cavoli...
Rutti, risate, sentore di piscio...
Tutto era lì nascosto nella testa e lei non poteva levarsi di dosso le sensazioni che le si erano appiccicate addosso come un odore, come una macchia della pelle che non si può lavare via.
"Victoire Jenevieux…" – esordì il rettore.
Muta Victoire tentò di concentrarsi sull'autorità da cui era sempre dipesa la sua buona o la sua cattiva sorte, ma lo sguardo deglutì un'altra occhiata veloce all'uomo che restava in disparte. Pareva una statua, una di quelle che abbellivano la cappella del collegio, i capelli chiari, biondi, ma non proprio come quelli del caro amico, più come quella cenere grigia e bianca che si formava nel camino, dopo che il fuoco aveva distrutto il ceppo di legno.
Una statua appunto, immobile, fissa, bella da guardare ma che non l'avrebbe mai abbracciata.
Eppure gli occhi dello sconosciuto la osservavano...
"D'ora in avanti non lavorerai più in questo collegio" - riprese il rettore tossicchiando – "Andrai con questa persona".
Victorie era sempre stata sola. Di colpo rimbombarono nella testa le ultime parole udite prima di scomparire nella coltre ombreggiata del corridoio, come se non andare e forse nascondersi dettavano il passo della prossima imminente separazione.
Avrebbe voluto dire di no Victoire, che non voleva andare via, che anche se lavorava dalla mattina alla sera, lì c'era il suo unico amico, l'unica persona che l'avesse conosciuta per chi lei era, ossia solo Victoire, come una specie di eco fonda che la teneva legata a sé, impedendole di perdersi di nuovo, com'era accaduto quando era rimasta sola, senza sua madre.
Ma Victoire sapeva di non essere niente e di non avere alcuna possibilità di dire che cosa avrebbe voluto fare o non fare.
Le lacrime si strozzarono in gola...
"Perchè..." – sussurrò, ben sapendo che solo la presenza dello sconosciuto visitatore le avrebbe risparmiato una sonora frustata.
Ma poi, vuoi mai che non sarebbe stato proprio quello a scaricarle addosso...
Un passo...
L'uomo fece un passo, le mani erano fasciate da bei guanti bianchi.
Victoire corse alle mani, si fece piccola, immaginando che quelle mani erano belle, troppo belle per arrivare a colpirla.
Un passo...
L'uomo la guardò e poi guardò il rettore che fece una smorfia, come a dire che di fiato ne aveva già sprecato abbastanza e quindi da quel momento in poi i due se la sarebbero sbrigata da soli.
L'uomo tirò un respiro fondo. All'apparenza si sarebbe detto che nemmeno lui sapesse perché era lì.
In fondo un cavaliere così distinto e ben vestito avrebbe ben avuto a sua disposizione un qualche servitore capace di svolgere l'incombenza al posto suo, e ben avrebbe avuto educazione consona a tirar fuori quattro parole di senso compiuto per spiegare quel che stava accadendo.
Invece no, il cavaliere era lì, sulle spine…
"Sono..." – la voce uscì fonda – "Vostro..."
Era una bella voce si disse Victoire, un timbro pieno e asciutto, una vibrazione severa ma al tempo stesso importante e docile, che non metteva timore.
Finalmente una voce che non le faceva paura...
"Padre".
Victoire sbarrò lo sguardo...
Victor Girodel rimase con gli occhi sulla bambina. L'aveva osservata dalla finestra mentre quella s'accorgeva d'essere chiamata, e poi correva via, non prima d'aver battibeccato con quello studente e dalla cesta di lenzuola asciutte s'era riverberato il cangiante riflesso profumato di Marsiglia entro le ciocche ribelli dell'acconciatura.
Quella mocciosa non era capace di tener governati i capelli.
Proprio come sua madre.
Deglutì ricordi rabbiosi Victor Girodel, mentre rammentava quella sera, a Parigi, quand'era assieme a colei ch'era ancora Capitano delle Guardie Reali.
Era quasi primavera, doveva essere l'anno 1774.
Un boccale di birra - dopo aver ispezionato le strade più rinomate e ripulite da straccioni e mendicanti, in vista della visita ufficiale del Delfino e della Delfina di Francia - in una locanda che sapeva di nuovo, ma al tempo stesso recava con sé il vecchio sentore d'una qualsiasi altra bettola, ove si serviva vino, oppure…
Poi lei se n'era andata e lui era rimasto lì, a fissare il bicchiere vuoto, vetro caldo da strofinare distrattamente in attesa di sfogare la rabbia.
Era sempre accaduto a quel modo quando si recava a Parigi, d'attardarsi dentro al sesso d'una qualche puttana, il corpo estraneo d'una donna, che non sarebbe stata lei, l'allora Capitano delle Guardie Reali, anche se già allora lui l'amava, ma lei avrebbe meritato di meglio che una scopata e via.
Quella sera dunque, Victor Girodel aveva fatto un cenno, era salito che in fondo al corridoio l'ufficiale avrebbe trovato quel che desiderava. Solo che...
Il frammento riemergeva, rammentò ch'era sussultato alla vista di colui che usciva dalla stessa porta, che lo conosceva bene e forse quello era lì per lo stesso motivo.
Abbracciare un'estranea per non rischiare di impazzire.
Un'estranea non chiede conto della solitudine, non chiede conto del motivo per cui la si stringe a sé, semplicemente la si stringe tra le braccia - il consenso rimesso a qualche moneta d'oro, così che il patto sia regolare e lecito - e la si prende con la lingua e con le dita, con un bacio ed un orgasmo.
E un'estranea non chiede chi sei, né cosa accadrà il giorno successivo...
E così era stato, Victor Girodel faceva quel che doveva, com'era sempre stato nel passato.
E solo distrattamente s'era immaginato che chissà dove, in un tempo poi non tanto remoto, all'incirca del peso di nove lune, avrebbe avuto spregio di generarsi un banale errore, forse per via d'una certa smania che s'era attardata e spenta entro un ventre estraneo, disdetta che sempre lui aveva scacciato dalla mente, perché non gli competeva, perché la colpa non poteva esser sua ma della sventurata che sceglieva di adempiere a quel certo mestiere.
E vai poi a sapere di chi sarebbe stato figlio l'errore generato dalla sventurata.
Quello era il tempo ch'era scorso dunque, oltre nove lune, dalla primavera dell'anno 1774.
Il luogo non era più lo stesso.
A'samedi prochine, in Rue Vivienne 23…
Alla fine, Victor Girodel aveva smesso di cercare altrove, aveva preso a finire sempre lì, per ritrovarsi nella stanzetta odorosa di muffa e stenti, mescolati ai respiri, agli oscuri aloni di cenere che impolveravano le scarse lame di luce, ai sentori che spumavano dalla cucina tra le assi sconnesse.
S'era ritrovato lì, per altri due motivi, così almeno li aveva appresi e messi assieme.
Siccome la padrona della locanda, Madame La Croque, era parecchio avara, la giovane puttana chiedeva che tutto accadesse al buio, così da non sprecare la preziosa cera delle candele o forse perché l'ospite non si schifasse alla vista di lenzuola non proprio cangianti.
Tanto non era necessario guardarsi in faccia per lasciare che un uomo si spingesse dentro e venisse, il corpo teso, il lamento roco e discontinuo e poi borioso, prendendosi ciò per cui pagava, quando l'avesse deciso.
Quella mania un po' particolare se la rammentava anche lui, Victor Girodel, che allora aveva domandato chi fosse quella giovane.
Si chiamava Amalie Jenevieux.
Madame La Croque aveva spiegato ch'era stato un giovane uomo a portarla sin lì, a chiederle di assumerla e tenerla lì, che c'era sempre necessità di cameriere e lavapiatti.
Ma l'altra s'era rivelata un pessimo affare, perché anche se il giovane uomo giungeva spesso a portarle doni, pane, frutta e qualche pezzetto di carne secca, la puttana s'era ritrovata madre d'una mocciosa.
Che Madame La Croque s'era pure immaginata che fosse quell'uomo, il disgraziato padre.
Ma no, Mademoiselle Amalie Jenevieux aveva giurato e spergiurato di non sapere chi fosse, che il suo giovane benefattore aveva avuto pietà di lei. Solo pietà!
Per ripagare la padrona della generosità di tener lì entrambe, madre e neonata, Amalie Jenevieux aveva chiesto di riprendere a fare quel che sapeva fare.
Ma che non venisse in mente a nessuno di farne parola al giovane tanto generoso.
Dunque Victor Girodel giungeva A'samedi prochine, in Rue Vivienne 23, e restava in compagnia della giovane puttana,la prendeva al buio e quella si lasciava prendere.
Per via che non era il caso di sprecare cera per far lume e per via che la giovane puttana non voleva esser vista, né vedere colui che giaceva con lei.
Ed era accaduto allora, in una delle tanti notte di doloroso sfinimento, in quella dannata stanza, d'aver ascoltato nel buio, dove neppure il futuro aveva colore, uno strano pigolio, una specie di mugugno basso, come se quella puttana si tenesse un gattino con sé, nascosto chissà dove nella stanza.
A lui non importava.
Ma di certo quello non era un gatto!
Victor Girodel avrebbe potuto avere ben altro. Altre dame, altre alcove, altri sollazzi.
Eppure gli pareva che lì, nel buio, lì dove nulla aveva colore, anche la rabbia e la paura fossero senza tinta e dunque meno incombenti.
Nel buio, non c'erano impegni, promesse...
Se non che nel buio, chissà con quanti accadeva e con quanti doveva essere già accaduto.
Di certo con quel conte svedese, Hans Axel von Fersen, che lui stesso aveva scorto lì, A'samedi prochine, in Rue Vivienne 23, ma persino un anno prima, uscire dalla stanza ove alloggiava la giovanissima Amalie Jenevieux.
E poi...
Forse, anche col servo della famiglia Jarjayes.
Perch'era lui che aveva scorto giù, dabbasso, anche se rare volte.
Non rammentava d'averlo mai visto salire, ma vai a sapere se anche quello si era premurato di tenere per sé quel luogo, per sfogare chissà quali smanie, come del resto sarebbe stato ragionevole accadesse per qualunque uomo.
André Grandier pareva diverso da loro, semplicemente più scaltro, più riservato.
Oppure più semplicemente...
Innamorato...
Dopo ciò che era accaduto, Victor Girodel aveva compreso che André Grandier era sempre stato innamorato di Oscar François de Jarjayes.
Chissà allora se era proprio André Grandier il padre della mocciosa che Amalie Jenevieux aveva messo al mondo?
L'unico che si fosse preso cura di Amalie Jenevieux.
E dunque, per lavarsi la coscienza, André Grandier l'aveva cavata fuori da una bettola, e condotta lì, A'samedi prochine, in Rue Vivienne 23, perché quella si trovasse un mestiere per vivere, ma poi quella era tornata a fare la puttana.
Poi un giorno Amalie Jenevieux era scomparsa.
E anche André Grandier.
Lui era partito per l'America, l'altra era giunta a Versailles e poi s'era ritrovata, grazie alla generosità del Colonnello Oscar François de Jarjayes, a far da domestica a Le Petit Trianon.
Dunque Victor Girodel si era immaginato che fosse proprio André Grandier il padre della mocciosa e che quello se la fosse svignata per non restare incastrato nello scandalo, per non vedersi defraudato del sorprendente la sorprendente amicizia che lo legava ad Oscar François de Jarjayes che, c'era da scommetterci, non gliel'avrebbe mai perdonata.
E se non il padre, perché quel servo, proprio a lui, a Victor Girodel, aveva chiesto di cercare quella bambina!?
E se fosse stata trovata, André Grandier avrebbe rinunciato all'unica donna che avesse mai amato?!
Si poteva essere più pazzi di così?!
O talmente lucidi da ammettere che la questione avrebbe travolto il servo disprezzato dalla padrona d'un tempo?
Quanti anni ha Victorie?
Tre…quasi…
Si…e tu…
Io…venti…
Dunque è accaduto quando avevi diciassette anni…la piccola sa poche parole…pare una bambina di due…come mai? Io non ne so molto sui bambini…ma…
E' colpa mia! Io non so leggere, non so scrivere…sono una povera ignorante! Non lo so chi è il padre di Victorie! Non lo so perché io ero…
Eri…
Dite pure ch'ero una poco di buono! Non avevo di che mangiare e quello era l'unico modo per vivere!
Dunque è così…
Avevo trovato una stanza a Parigi e stavo lì…una sera ero uscita per recuperare qualche foglia d'insalata…quelle che buttano via al mercato…ma era già tutto finito. Les Halles era deserto…i poveri a Parigi…siamo tanti…avevo fame…e vagavo per le strade…e avevo fame…e…e mi hanno detto ch'ero bella e se avessi voluto…mi hanno detto che mi avrebbero dato da mangiare e un letto per dormire...mi sono fidata! E sono...
Che vi importa? Se volete saperlo solo per giudicarmi?!
Io non giudico te ma chi ti ha usato...
Usato? Io sarei stata usata? Vi farebbe comodo pensare che sarei stata usata?! Così da lavarvi la coscienza e dire a voi stessa ch'è un bene esserci incontrate?! Così potrete essere ancor più caritatevole...
E se vi dicessi che io invece stavo bene?! Che mi piaceva dare ciò che altre donne non sanno offrire?
Che importanza ha...amare?! E' accaduto…dopo la prima volta…se hai fame…tutte le volte sono uguali…dunque io non lo so chi è il padre di Victoire…
Conoscerai almeno il volto di questa persona…
Non lo so che faccia ha!
Cosa? Ma se…
Vi prego…basta…è accaduto…
Dove sei vissuta a Parigi?
Dunque è stato un caso se sei giunta fino a Versailles?
Perché allora sei venuta alla reggia? Perché sei venuta proprio qui? Se stai cercando quella persona…potrebbe essere ovunque…e se non sai nemmeno che faccia ha e neppure come si chiama…
Nelle cucine...ho compreso che mi conoscevi...
Sono Oscar François de Jarjayes…puoi fare il mio nome…e se qualcuno avrà qualcosa da obiettare digli pure di venire a conferire con me!
Voi…siete…voi…
Che cosa sai di me?
Nulla…
Chi ti ha parlato di me? Conoscevi già il mio nome!?
Monsieur…tutti…tutti sanno chi siete!
Ho sbagliato lo so! Ma ho pensato che se questa persona non voleva far sapere nulla di sé…ho pensato che fosse una persona importante…e se aveva avuto pietà di me…
Potrebbe essere che sia qui, alla reggia? Potrebbe essere un nobile!?
Sei sicura di non rammentare nulla? Tu sai chi sono...chi te lo ha detto?
Era gentile…
Cosa? Ma come fai a dire che era gentile se non rammenti neppure la sua faccia? Come avrebbe fatto…
Come faccio…come faccio?! Non lo so!
Ti ha preso con la forza?! E tu dici ch'era gentile?".
Serrato interrogatorio…
No! Non volete capire! Me ne vado! Non accetterò un solo granello di sale da voi!
Vi piacerebbe se ammettessi d'esser stata presa con la forza! Così davvero...pensereste a me come una poverina che non ha avuto scampo e invece...
Una vera sfortuna…
Ce ne aveva messo di tempo Victor Girodel per trovare Amalie Jenevieux e mai avrebbe immaginato di scovarla mescolata alla servitù de Le Petit Trianon.
Ne è passato di tempo mademoiselle. Vi ho fatto cercare a Parigi. Mai mi sarei immaginato di ritrovarvi qui…ebbene…avete avuto fortuna oppure…
Amalie Jenevieux s'era tappata la bocca da sola per non strillare, muta, pietrificata dal terrore. Non era riuscita più a dire una parola.
Victor Girodel ammise allora che Mademoiselle Amalie Jenevieux s'era molto probabilmente spaventata nel rivederlo.
S'era avvicinato e la mano era corsa ad accarezzare il viso, una carezza languida e lieve. Poi aveva stretto la faccia, tenuta lì…
Nel buio mescolato ai respiri, agli orgasmi muti, alle vesti stropicciate e raccattate in fretta, quella giovane doveva aver scorto un lembo del viso, oppure aveva semplicemente conosciuto l'altro, non come si chiamasse o quale posto occupasse nella società o che fosse un nobile piuttosto che un benestante borghese o addirittura uno spiantato letterato, ma semplicemente chi fosse, con la sua smania di perdersi tra le cosce d'una donna, con la sua sprezzante consapevolezza che le donne servivano solo a quello.
Victor Girodel si disse che doveva essere accaduto così, perché lui stesso, a un certo punto, aveva cessato di frequentare quella bettola, intimorito d'essere riconosciuto e dunque diffamato entro la cerchia delle sue conoscenze.
Di chi è?
Non ho detto nulla…
Bene…
Poche parole…
La risposta era comunque corretta. Victor Girodel aveva lasciato il viso e se n'era andato.
Ma poi s'era ritrovato davanti quella bimbetta ricciuta. Anzi, era stata proprio la bambina a corrergli incontro, sollevando lo sguardo per cercare di scorgere quello dell'uomo che aveva di fronte e che in un certo qual modo le sbarrava la strada.
Chi sei?
Un amico di tuo padre…
E poi gliel'aveva detto ad Amalie Jenevieux…
André Grandier è morto!
E quella…
Amalie Jenevieux dunque l'aveva conosciuto per chi lui fosse in realtà.
E ne aveva avuto talmente paura ch'era fuggita non appena l'aveva rivisto.
E ne aveva avuto talmente timore che s'era sentita perduta e non aveva trovato altra ragione per vivere, bensì mille per morire.
E non aveva trovato altra via d'uscita che portare con sé la figlia, Victoire Jenevieux, che avrebbe rischiato di restare sola al mondo e che, al mondo, alla fine, sola, c'era rimasta.
Amalie Jenevieux, s'era buttata nella Senna, forse proprio per via di quelle parole, per via ch'era rimasta senza speranza, perché anche se André Grandier non era il padre di Victoire, per lei era come se lo fosse.
Victor Girodel e le sue parole avevano ammazzato Amalie Jenevieux.
Dunque Victor Girodel era lì adesso, per mantenere fede al patto che aveva stabilito con André Grandier. Ritrovargli Victoire Jenevieux, a cui l'altro aveva scelto di fargli da padre, anche se non lo era affatto.
Victoire quasi cadde per terra, le gambette presero a tremare, il corpicino ad afflosciarsi come una torta che aveva preso aria senza lievitare abbastanza.
Victor Girodel l'afferrò per il braccio, tenendola su.
S'accorse d'aver commesso un errore, avrebbe dovuto mostrarsi un poco più cauto nelle parole e sprezzante nel dispensarne di bastevoli a rendere la situazione meno equivoca e dubbia di quel che già non fosse.
Invece no, il cavaliere era lì e gli era pure uscita quell'altisonante parola dalla bocca. Forse perché la parola era sgusciata dal cuore prima che dalla bocca, forse più velocemente di quel che più cauto e cinico la testa gli avrebbe imposto d'essere.
"Per procura!" – sputò asciutto, quasi senza respiro – "Che cosa hai capito? Sono qui per conto di tuo padre.".
"Che..." – balbettò Victorie – "Volete dire monsieur?".
"Sono venuto a prenderti. Me l' ha chiesto lui di cercarti".
Victoire corse al rettore, implorandolo di non lasciarla andare via.
La parola padre era risuonata per un solo istante beffardo e subito se n'era corsa via, ingoiata dall'altra, procura, che neppure sapeva che significato avesse.
Chissà se il suo amico lo sapeva?
Sarebbe voluta correre via, Victoire, che ne sapeva dove l'avrebbe condotta quell'uomo, chissà nelle mani di chi!?
Un padre lei non ce l'aveva mai avuto, sua madre non ne aveva mai parlato. Non rammentava nulla a proposito di questo famigerato padre e chissà come mai adesso quello la voleva con sé?!
Era davvero suo padre?
Un respiro fondo...
Victor Girodel si contrasse come attraversato da un'onda salata, capace di bruciare la gola e mozzare il respiro.
Un tempo, nulla di tutto ciò che stava accadendo avrebbe avuto pregio di scalfire l'esistenza, anzi, neppure avrebbe avuto pregio d'annidarsi nella testa il tarlo del dubbio d'avere una figlia.
Victor Girodel combatteva tra il se stesso d'un tempo e colui ch'era diventato.
Non si piaceva.
Quella dannata indiana gli aveva sfregiato l'anima e doveva ammettere che i tentennamenti e gli scherni del cuore lo stavano defraudando della freddezza che l'aveva sempre guidato.
La mascella serrata, instupidito dalla propria mollezza, dalla propria incomprensibile incapacità di tornare a essere quello di un tempo, chiuse gli occhi, scorse giù, inginocchiandosi, così da ritrovarsi quasi all'altezza di quelli della bambina che adesso lo guardava con terrore, di certo avendo compreso che quell'uomo non era suo padre e lei sarebbe stata portata via per conto di qualcun altro. Nemmeno sapeva chi.
Victor estrasse dalla tasca interna del pastrano una bambola di pezza.
Macerata dall'acqua e dal tempo, stropicciata e in alcuni punti lacera, l'aveva conservata.
"Sai, questa era la bambola di Madame Royale".
Che sussultò il rettore, aggiustandosi gli occhialini sul naso...
"E chi sarebbe?" – chiese Victoire.
"La figlia della nostra regina".
"Oh...e perché ce l'avete voi la sua bambola? Giocate con le bambole!?".
Era una bambina un po' sciocca...
Ma faceva domande sensate.
Victor trattenne una mezza risata.
"No. Quando hai perduto tua madre, questa è stata trovata vicino a te".
"Come mai?".
"Non ha importanza. Tuo padre mi ha chiesto di portartela e dirti che...".
Che avrebbe dovuto dire Victor Girodel alla mocciosa?
André Grandier gli aveva solo chiesto di cercarla, non aveva spiegato nulla. Ciò che stava accadendo, le parole che uscivano dalla bocca, erano frutto d'un sorprendente e recondito istinto, spuntato da chissà dove.
"Vorrebbe che ti portassi da lui...per questo mi ha dato la bambola...".
"Oh..." – Victorie allungò la mano un poco dubbiosa – "Però...non è molto bella".
"Lo so...hai ragione...".
Parlava Victor Girodel e mentre la voce usciva pensava che quella bambina avrebbe potuto davvero essere sua figlia.
Il viso ovale, magro ma non sciupato, i riccioli sparpagliati, la fronte un poco alta, le sopracciglia ben disegnate, non foltissime, il naso piccolo, dritto...
Gli occhi che vibravano sciocchi e incoscienti, impauriti e sprezzanti...
Una bambina stupida che però non aveva paura d'esserlo, semplicemente perché non lo sapeva d'essere stupida, proprio come era accaduto a lui quando era più giovane.
Saccente e ignorante, anche se non faceva altro che leggere e studiare tutto il santo giorno.
Anche lui era sempre stato solo.
La famiglia impegnata a tessere omaggi a corte e il fratello maggiore intestardito a fregiarsi con il maggior pregio possibile del titolo di conte.
E lui, Victor Clement de Girodel, a dirla tutta, s'era detto essere nato per caso o per sbaglio, come avrebbe fatto più comodo o meno male.
Un po' come quella mocciosa...
E poi, quel nome...
Era stato attento, non aveva mai detto a quella giovane prostituta come si chiamasse, lei non gliel'aveva mai chiesto.
Chissà dunque perché quella aveva chiamato sua figlia proprio Victoire?
La solitudine che da anni Victor Girodel aveva tentato di scacciare riemerse, così che finì per rammentare ciò che era accaduto e la dannazione che adesso gli scorreva come veleno dentro le vene.
Nel buio...
L'aveva avuta tra le braccia...
L'aveva baciata e lei aveva risposto al dannato bacio e in quell'istante Victor Girodel aveva scorto la disperazione di un bacio di rabbia.
Dio...
Com'era stato con la giovane indiana…
Da quando era divenuto capace di riconoscere rabbia piuttosto che disperazione nel bacio di una donna?
O non invece desiderio, stizza, rancore, delizia, sotterfugio, bugia, amore...
Odio?
Da quando gl'importava poi?
Che necessità c'era di sapere se lei lo amava oppure lo stava usando per rabbia, proprio come lui aveva usato tutte le donne da cui s'era fatto spogliare e baciare e amare?
Che diavolo era accaduto?
Che razza d'incantesimo era quello, che adesso Victor Girodel era capace di riconoscere che la donna che aveva baciato, in Normandia, Oscar François de Jarjayes, ch'era stata una sorta di preda, una terra di conquista, non l'amava, e che dunque lui aveva perduto la sua battaglia, perché adesso Victor Girodel non poteva che ammettere che solo quello avrebbe desiderato e voluto!?
E che la disperazione d'essere stata messa da parte, respinta, rifiutata per il suo stesso bene, soffiava dentro il respiro, scorreva entro le dita che s'erano inanellate alle sue dita ma poi...
Non bastava più.
Né un bacio, né le dita inanellate...
Né il disprezzo per qualsiasi legame che rifuggisse l'amore e che, fino ad allora, lui stesso aveva sempre considerato adatto a sé, all'indole forgiata dalla solitudine.
Il corpo cedette.
Victor Girodel rammentò d'essersi ritrovato a sfiorare la guancia dell'altra, quel giorno, nella villa dei Jarjayes, in Normandia.
La bocca s'era disgiunta mentre anche lei aveva voltato il viso, tremando...
Vattene!
Sibilato, che lui alla fine s'era imputato di vederla, chiederglielo se lei lo amava quel servo, quello che ora era lì, tornato di nuovo dall'Inferno.
Lui voleva averla, e forse…
Vattene!
Aveva eseguito la sua richiesta, il corpo s'era come sciolto, sferzato dall'ordine secco.
Oscar François de Jarjayes non aveva ancora imparato ad amarlo.
Forse non aveva ancora cessato d'amare André Grandier.
Ci voleva pazienza!
Un tempo Victor Girodel avrebbe ammesso che quel tremito fosse derivato dalla smania, dalla leziosa concessione indotta dalla moina del corteggiamento.
Dove avrebbe mai imparato Oscar François de Jarjayes, ammesso che non fosse del tutto naturale per una donna avanzare e poi indietreggiare e poi fuggire...
Ma poi...
Victor Girodel si ritrovò in ginocchio di fronte alla mocciosa, proprio come quel giorno si era ritrovato in ginocchio di fronte ad Oscar François de Jarjayes, implorandola di non lasciarlo solo.
Lei, una donna intensamente sensuale e bella, seppur d'una bellezza ferocemente dilaniata dal dubbio e lì, una bambina sciocca, un poco ignorante, bella ma non bellissima, magra, incapace di parlare devotamente ma capace di fare domande sensate.
Avrebbe potuto essere sua figlia e lui si chiese dove avrebbe mai trovato il coraggio di accogliere quell'essere strambo nella sua famiglia, che anche se lui era solo un cadetto e anche se in fondo a nessuno della sua famiglia era importato molto di lui...
Sua madre l'avrebbe guardato con disprezzo, finanche a schernirlo che lui stesso si fosse lasciato ingannare...
E poi lui non sarebbe mai stato capace di farle da padre.
André Grandier ci sarebbe riuscito. L'aveva già fatto, era già diventato suo padre e dunque avrebbe continuato a esserlo.
"Aspettate monsieur!" – s'agitò Victoire, che Victor Girodel si spaventò temendo che quella avesse cambiato idea, perché stava quasi per buttarsi giù dal cavallo, sul sentiero che portava fuori dal collegio di Soisson.
"Che cosa c'è...".
"Un momento...vorrei scendere...devo salutare...un...".
Che Victor fu costretta a tenerla per un braccio, Victoire fece un balzo, i piedi a terra, la polvere sollevata a posarsi sugli stivaletti lucidi e nuovi, portati per lei.
Victoire Jenevieux non s'era resa conto che la sua volontà non avrebbe fatto differenza. Non sapeva d'essere una mera merce di scambio, un pegno da offrire in cambio dell'uscita di scena d'un personaggio troppo scomodo sullo strano palcoscenico di quella strana storia.
Lo studente si fece avanti. La bambina l'aveva scorto ed era intenzionata a spiegargli...
"Allora te ne vai?" – chiese quello risentito e triste, sotto gli occhi vigili ma sprezzanti del cavaliere.
"Mio padre è venuto a cercarmi!" – replicò Victoire sollevando la bamboletta stracciata – "Guarda!"
"E sarebbe..." – gli occhi sollevati al cavaliere.
"No...non è lui..." – Victorie s'ammutolì, nemmeno aveva chiesto dove si trovasse suo padre e dove sarebbe stata portata. Si voltò verso il cavaliere – "Ma lui mi porterà da mio padre!".
"Per il momento sarai mia ospite..." – rispose Victor dall'alto del destriero.
"Ma..." – obiettò l'altro – "Non siete suo padre allora! E questa bambola...perché Victoire dovrebbe accettare una bambola rotta e...".
"Non la sto prendendo in giro se è quello che temi! Suo padre mi ha chiesto di cercare Victoire" – sferzò Girodel – "Sto eseguendo la sua volontà. Questa bambola era accanto a lei….
Un respiro fondo...
Il cavaliere tacque. Non era necessario aggiungere altro. Scorse allo sguardo feroce del giovane studente che lo osservava dal basso verso l'alto.
Gli occhi l'interrogavano, come a chiedergli s'era vero che quello avesse sulla coscienza la vita di tante persone di cui si era servito e che aveva usato né più né meno come fossero stati oggetti, la coscienza ripulita per via che almeno una la stava cavando dal fango?!
In fondo i nobili così se la lavavano la coscienza!
Migliori per via che gli altri, i poveracci, volevano restare tali!
E chiedendogli, muto, perché mai gli servisse una povera anima giovane come quella della piccola Victoire Jenevieux?
Il giovane sputò a terra in segno di disprezzo.
Victoire si spaventò...
"Ci rivedremo?!" – chiese preoccupata, tentando d'ammansire il distacco e il disprezzo..
"Non so neppure dove andrai?".
Victor tacque, non gli piaceva il sordo sprezzo del ragazzino...
"Monsieur...dove andremo?" – chiese Victoire al suo accompagnatore nella speranza di aver un appiglio da affidare al destino per piegarlo ad una speranza di incontro.
"Io debbo portarti da tuo padre...non so altro...".
"Ma..." – che gli occhi si velarono di lacrime...
"André Grandier, questo è il nome di tuo padre. Non so cosa vorrà fare di te. Dunque non posso risponderti...".
"Bene monsieur!" – sibilò il moccioso sempre più cupo – "Allora...lo cercherò...ma...voi chi siete?!".
La domanda sferzò addosso.
"Victor Clement de Girodel, Tenente della Guardia Reale di Sua Maestà Re Luigi XVI!".
Il ragazzino non mosse ciglio, né fece una piega per nulla intimorito dall'altisonante sequela di nomi.
Victor se ne accorse, la chiosa affondò, che da una parte strideva che il moccioso non si fosse messo sull'attenti o che per lo meno non avesse mostrato una qualche condiscendenza, mentre dall'altra stupiva quella sorta di vago sentore protettivo che s'allargava nel cuore verso la mocciosa.
Che fosse così che un padre sentiva ardore verso un figlio?!
Senza neppure sapere se quello fosse realmente il proprio?!
"E voi...monsieur...voi che vorreste essere amico di Mademoiselle Victoire...chi siete!?" – domandò severo il cavaliere sibilando disprezzo.
Un istante di silenzio...
"Louis Antoine Léon de Richebourg de Saint Just!" – scandito per bene, anche se l'ordine declinato era lontano da quello del cavaliere – "Sono stato mandato in questo collegio dopo la morte di mio padre...".
"Bene...Monsieur Louis Antoine Léon de Richebourg de Saint Just. Dunque, se un giorno accadrà di voler rivedere Victoire...dovrete per lo meno guadagnarvi un titolo...".
"Monsieur...i titoli li lascio a voi! A me...e credo anche a lei...basterà l'amicizia!".
Louis Antoine fece un inchino - "Stai bene Victoire! Un giorno...ci rivedremo!".
§§§
Port du Brest, juillet 1784…
Diluviava...
La Ville de Paris, una prima classe ch'era uscita vittoriosa dalla battaglia di Chesapeake, attendeva.
Brest era lì, invisibile, dietro l'impalpabile ma intenso muro d'acqua, la costa appena emersa da lontano, come fosse una sorta di castello sospeso tra cielo e acqua.
Si sarebbe detto che il vascello non avrebbe avuto necessità d'avvicinarsi di più, perché prima o poi sarebbe stato quello strano castello a muoversi dolcemente sul pelo delle nuvole, per venire incontro all'imbarcazione.
Invece il mare in tempesta impediva l'attracco, lasciando il tempo di qualche ora in più, per pensare, ancora qualche momento per restare in compagnia di se stesso, in solitudine, maledirsi e al tempo stesso galleggiare, proprio come quella terra, in un mare di contraddizioni miste a feroci speranze.
Nessuna donna con un poco di orgoglio l'avrebbe mai accettato nella sua vita.
Su quello aveva sempre fatto affidamento.
E l'orgoglio di Oscar François de Jarjayes lui lo conosceva bene.
Ma André Grandier aveva imparato che alle volte neppure l'orgoglio è sufficiente barriera utile a distanziare un amore e che dunque solo colpendo quell'amore, infangandolo, sbeffeggiandolo, esso avrebbe battuto in ritirata.
Una battaglia assurda...
Una guerra inutile.
Il corpo era seduto a terra, entro una specie di stanzetta che avrebbe dovuto essere una cella, ma la porta in realtà era rimasta sempre aperta e lui non aveva più ferri alla caviglia.
Nulla che lo trattenesse dall'essere libero.
Persino di buttarsi a mare.
Era libero.
Sorprendentemente libero.
Non più legato al suo passato, alla sua condanna, alla sua professione di colpevolezza.
La missiva che decretava la sua salvezza era giunta ormai un anno dopo ch'era arrivato in Cayenna.
Dunque, un altro anno era trascorso, un'altra stagione s'era dilatata entro il cuore dove albergava sempre la stessa spina.
André Grandier si domandò se anche nel cuore dell'altra si fosse piantata quella stessa spina o se lei non fosse riuscita nell'intento di voltare lo sguardo altrove.
Dimenticarlo per salvarsi.
O forse dimenticarlo per consentire a lui di lavarsi la coscienza.
In fondo era lo stesso.
Che blasfema idea quella di obbligare una donna a odiare un uomo?!
Così che quello sia salvo dall'averla amata e distrutta?!
Che assurda battaglia quella di sfruttare l'innato cinismo umano per abbruttire un cuore puro?!
Si può insegnare a odiare?
Si può scavare così a fondo nel cuore umano, nel cuore di una donna, nel suo cuore, così da riuscire a scovare l'odio, come fosse una sorta di diamante unico e prezioso, materiale impossibile da scalfire, così che quella donna divenga capace di difendersi attraverso lo scudo di quell'odio?!
Dio...
Oscar avrebbe imparato a odiarlo?
In fondo non sarebbe stato difficile.
In fondo lei era una donna, umana, orgogliosa, molle, docile, lieve, testarda...
Era bella...
Era...
Però, lui non era riuscito a vivere senza di lei.
Se non con le mani piantate nella terra, le braccia allungate a tirare avanti e indietro assi, tronchi, pietre, malta, canne da zucchero.
Lui non era riuscito che ad accarezzare la testa riccia di Odile...
E lei?
André Grandier l'aveva rifiutata due volte.
Sperò, pregò, che adesso sarebbe stata lei a tenerlo lontano.
Che idiota!
Che idiota l'uomo che rimette alla donna che ama il proprio destino...
E per giunta dicendosi ch'è per il suo bene!
Rivederla...
Dio...
Quando gli avevano detto che sarebbe tornato in Francia...
Dapprima era rimasto muto, poi s'era messo a respirare piano, poi a gridare, nemmeno lui sapeva se di rabbia o disperazione.
Il re in persona aveva annullato la sua condanna. Nel messaggio si accennava al fatto che la mancanza dell'oro non derivava da una sua condotta. André Grandier non poteva aver rubato ciò che non c'era mai stato.
Dio...
E Monsieur le Comte Hans Axel von Fersen aveva messo una buona parola, che non era possibile che André Grandier fosse responsabile della morte di due soldati francesi.
Che figlio di puttana!
Che dannatissimo e stramaledetto figlio di puttana!
André Grandier s'immaginò che Fersen volesse solo lavarsi la coscienza! Anche lui!
Non poteva rischiare d'essere l'artefice della condanna del servo della famiglia Jarjayes.
Non poteva rischiare d'arrecare un simile danno a lei, Oscar François de Jarjayes!
Sarebbe stato troppo facile perorare la causa della colpevolezza. Invece no, meglio ritrovarsi l'avversario appresso, nelle vicinanze, così che il confronto tra il conte svedese e il servo plebeo sarebbe stato così evidente e dirimente da togliere ogni dubbio.
Dunque nel dubbio, neppure un reo confesso avrebbe potuto star sicuro d'essere lasciato in pace.
E poi...
Che lui fosse un donnaiolo...
Una specie di risata isterica sgusciò dalle labbra, l'unico occhio emanò una luce di commiserazione.
Che lì ci aveva già pensato lei a smascherarlo, che chissà che doveva aver domandato a quelle giovani, quelle a cui lui aveva dato il proprio nome, dopo che quelle erano scomparse entro le gloriose stanze occupare dal Conte di Fersen durante la traversata della Jason.
Non doveva nulla a lei e non doveva nulla a Fersen. Eppure aveva tentato di difenderla da quello scenario...
Aveva tentato di difenderla da se...
Si domandò che sarebbe accaduto...
Se l'avesse rivista...
Il rimorso più grande…
Lasciare Odile…
In nessun modo sarebbe riuscito a portarla con sé.
Era libero certo ma non aveva nulla con sé e una giovane schiava aveva un prezzo troppo alto.
Nell'ultima notte, prima della partenza, si concesse di lasciarla dormire accanto a sé.
Ascoltò il respiro dell'altra, mescolato a mute lacrime, tenute strette nella gola.
Un amore che mutava e si nascondeva.
"Monsieur…dove andrete?".
"In Francia…te l'avevo detto…".
"La Francia è grande?".
"Sì…".
"Allora dove…in Francia?".
"Credo che tornerò a Parigi…".
"E Parigi è grande?".
"Sì Odile…".
"Allora…".
"Allora…tu dovrai continuare a vivere, anche se resterai qui…".
Si chiuse la gola, che André le aveva insegnato a scrivere qualche parola, seppure ammetteva che concedere conoscenza alle volte equivale a illudere, perché se poi nulla muta attorno, la conoscenza resta ambizione inutile, se non addirittura fonte di malinconico rimpianto per ciò a cui non si sarebbe mai potuto ambire.
Un bacio…
Aveva trattenuto le lacrime Odile…
Non le era stato concesso di lasciare il villaggio, così, l'ultimo sguardo si era allacciato alla mano che si schiudeva e lasciava andare quella dell'altro.
L'ultimo tocco…
Il respiro rimasto sospeso, si troncò di netto quando, appena messo piede a terra, al porto di Brest.
Un cenno, gli fecero strada indicando una carrozza che l'attendeva al molo.
La porticina s'aprì, un uomo lo fece entrare.
Si presentò come Monsieur Bahamut, inviato dal Tenente Victor Girodel per scortare il prigioniero fino a Versailles. Avrebbero viaggiato senza fare soste, dunque con due cambi di cavalli alle stazioni di posta.
L'uomo sputò le sue istruzioni, porgendo poi una missiva a Monsieur André Grandier con la richiesta di aprirla immediatamente perché al loro arrivo a Parigi lui avrebbe dato le necessarie disposizioni a seconda della risposta.
Tutto sarebbe accaduto in fretta dunque.
Chissà se l'avrebbe mai rivista?
La presenza dell'emissario di Victor Girodel deponeva per una risposta negativa, dal momento che questi, saputo del suo arrivo, si era premurato di organizzare il suo ritorno a Parigi e di scrivere poche righe.
In sostanza, si disponeva che Monsieur André Grandier, su espressa richiesta del re, sarebbe stato ricevuto da Luigi XVI in persona per un colloquio riservato riguardante la precedente condanna e il suo successivo annullamento.
Si informava Monsieur André Grandier che Mademoiselle Victoire Jenevieux era viva ed era stata ritrovata e condotta in un'abitazione di Parigi ove avrebbe atteso il ritorno di suo padre.
Che André sussultò, lo sguardo si sollevò a quelli del silenzioso compagno di viaggio che però era intento a osservare lo scorrere del paesaggio, dando ad intendere che non avrebbe aggiunto altre parole a quelle già vergate dal suo padrone sulla carta.
Si informava Monsieur André Grandier che anche il bambino indiano Argo, ospite fino a quel momento della famiglia Jarjayes, era stato informato del ritorno in Francia di Monsieur André Grandier e che quello aveva espresso il desiderio di rivederlo e se fosse stato possibile di stare con lui.
Dove?
Dove avesse piaciuto a Monsieur André Grandier...
Come?
Se Monsieur André Grandier non avesse avuto mezzi sufficienti, la famiglia Jarjayes si sarebbe presa cura di Victoire, continuando a prendersi cura di Argo.
Che André sollevò di nuovo lo sguardo all'ospite muto e quello, sempre muto, lo degnò di sbieco d'un misero respiro di sufficienza.
Si informava infine che se Monsieur André Grandier avesse espresso il desiderio di rivedere e salutare sua nonna Madame Marron Glacé, avrebbe potuto incontrarla nell'abitazione ove erano stati portati i bambini, per il tempo necessario a conferire con la governante sulla sua salute e sugli sviluppi della sua sorte.
Si pregava Monsieur André Grandier d'adoperarsi per la massima discrezione onde non rischiare di infangare il buon nome della famiglia Jarjayes che non aveva più voce o interesse verso la sorte dell'antico attendente.
Un altro respiro ingoiato...
Per il tempo necessario...
Il buon nome della famiglia Jarjayes...
Di fatto, nel giro di poche righe vergate sulla missiva, Monsieur André Grandier – che quello si chiese da quando era divenuto monsieur - si ritrovava padre o comunque tutore di due bambini, senza neppure sapere dove sarebbe andato a vivere.
Da quel che aveva letto, era evidente non sarebbe stato a casa Jarjayes.
André si domandò se Oscar ne fosse al corrente.
Perché non avrebbe dovuto esserlo?
E dunque lei aveva accettato che il giovane Argo se ne sarebbe andato.
E dunque lei doveva aver saputo che Victoire era viva e che alla pari anche la bambina sarebbe diventata figlia di André Grandier.
Il suo silenzio rivelava disprezzo?
Ciò che lui stesso aveva indubbiamente coltivato, seme ficcato nel cuore germogliato in una stanca pianta velenosa?
Perchè dunque dolersi di ciò in cui aveva sempre sperato?
La coda dell'unico occhio sano scorse alla geometria della strada, al muro sbrecciato del molo...
Rimbombarono i suoni di allora...
Risorse il bacio...
Morse l'immagine lontana.
Tutto era cominciato lì o forse tutto aveva iniziato a precipitare esattamente in quel momento, quando lui si era preso ciò che non gli spettava, quando l'aveva amata, anche solo a mezzo di quel bacio fondo, rammentandole che era bella, insinuando nel cuore puro dell'altra, il tarlo della gelosia, del risentimento, dell'avversione, del dubbio...
O forse...
No, tutto non era mai iniziato e tutto non si era mai concluso, che lui l'amava da sempre e in fondo, nonostante ciò che era accaduto, era come se non se ne fosse mai andato, era come se non l'avesse mai lasciata.
Certo non in quella storia, che la loro storia non era quella.
Certo solo dentro di sé, che lei non poteva essere più la stessa di prima.
Oscar François de Jarjayes era pura, della purezza disarmante del cinismo, della purezza asciutta del disprezzo, della purezza immacolata dell'amare se stessa al di sopra di tutto.
Oscar François de Jarjayes era ruvida, sprezzante, fredda, crudele...
Oscar François de Jarjayes era sensuale, lieve, diversa, bella...
E lui l'aveva sedotta, ammaestrata, trascinata nel fango, l'aveva indotta a cercare quel respiro morbido, quella caduta di sé entro le proprie viscere.
L'aveva resa umana e splendente, capace di distruggere tutto ciò che il suo sguardo avesse sfiorato.
§§§
Château de Versailles, juillet 1784...
Diluviava...
Il cuore ebbe un balzo, inondato dai ricordi, fradicio d'ovattata pioggia che sgocciolava dai doccioni, gorgogliava attraverso le grondaie, scorreva entro impercettibili rivoli lungo i sentieri dei giardini.
Tutto pareva drammaticamente uguale a sei anni prima, ch'erano trascorsi ormai sei anni da quando aveva messo piede per l'ultima volta alla reggia.
Quasi s'immaginò che da un istante all'altro lei sarebbe apparsa, silenziosa, lo sguardo severo, l'impercettibile smorfia della bocca, un poco imbronciata che però lei era così, imbronciata quand'era calma, appena increspata all'approssimarsi d'un riso contenuto.
Era sempre lieve, anche quando rideva...
Una risata feroce e cristallina, pura, innocente, persino quando se l'era ritrovata stretta tra le braccia, nel tiepido abbraccio della sua pelle nuda, e lo sguardo l'aveva raggiunto disarmando l'ultimo baluardo di vergogna.
Tutto si era spezzato...
Il suo cuore e quello di lei...
E' così che va il mondo.
Lei non era da nessuna parte. Ed era ovunque.
Tutto si era spezzato.
Gli erano stati recapitate vesti più dignitose. Gli era stato consentito di lavarsi e radersi.
In ginocchio, nella Salle du Conseil, il cuore batteva all'impazzata, lo sguardo a terra, in attesa.
Monsieur Bahamut era scomparso, evidentemente capace di condurre sin lì il condannato che non era più tale ma non abbastanza titolato per fare anticamera innanzi alle stanze del re.
"Alzatevi pure".
André Grandier si alzò in piedi pur mantenendo lo sguardo basso che poi, a poco a poco, si sollevò per posarsi sopra la figura del sovrano ch'era in piedi.
Un passo, il re, ch'era solo nella stanza, si avvicinò, gli sorrise, l'antico sorriso del goffo ragazzo terrorizzato d'essere diventato re troppo giovane, declinato via via in una docile ma fiera ammissione di smarrimento di fronte all'incedere della Storia.
Dunque Luigi XVI si fidava a tal punto del condannato André Grandier da restar solo con lui.
"Bentornato...".
"Maestà...".
"Mio caro André...non esitate...spero siate felice d'essere tornato in Francia".
Il cuore alla fine s'allargò inevitabilmente dinnanzi alle parole di Luigi XVI, anche se il re non sapeva nulla e in fondo non avrebbe neppure avuto necessità di sapere.
"Maestà...vi sono grato, dal profondo del cuore...".
"Ebbene ho fatto solo ciò ch'era giusto...".
"Sì...".
"E dite...André...".
"Maestà...".
"No...permettete...".
"Maestà...perdonatemi..." – gli occhi di nuovo bassi...
Un respiro fondo...
"Prima che siate voi a parlare, mio caro André, vorrei esprimervi il mio sincero ringraziamento per ciò che avete fatto. Vi siete preso la colpa di un increscioso guaio. Monsieur Benjamin Franklin...a proposito...rammentate vero...".
"Sì maestà. Si parlava spesso di lui in America".
"Bene! Insomma, si è venuto a sapere che voi non potevate aver sottratto ciò che non c'è mai stato".
"Maestà!".
Che l'altro alzò la mano, come a fermare l'incedere del suddito sulle spine.
"E dunque sono del parere che voi dobbiate accettare il mio perdono...".
"Maestà, voi volete perdonarmi dopo che ho rifiutato la vostra grazia?!".
"S'è per questo avete anche detto...oh...però non rammento quando sarebbe accaduto, so solo che qualcuno mi ha rivelato la questione...insomma...che voi non avreste mai più giurato fedeltà al re di Francia!?".
Colpì la chiosa...
Le parole riemersero dal passato, il timbro disperso accanto al grande fuoco che saliva verso il cielo, nel buio del villaggio indiano, ove aveva ammesso che non avrebbe più potuto essere devoto ad alcun sovrano e che non avrebbe mai più potuto giurare fedeltà a un re.
La testa si abbassò di nuovo.
Luigi XVI invece sollevò gli occhi sul suddito.
"Maestà..." – riprese piano André – "Ho sempre ammirato la vostra persona...siete un uomo di straordinaria generosità".
"Sì, che io sia un uomo non v'è dubbio" – sorrise mesto il re – "Ma per sfortuna vostra o forse dei miei sudditi tutti, sono anche il vostro re e per mia sfortuna la mia persona si declina a re prima che a uomo".
"Maestà…nutro profondo rispetto per la vostra persona…ma credo che voi siate un uomo…come…".
"Come lo siete voi? André Grandier?".
"Non intendevo…".
"Ebbene…lo credo anch'io!" – proseguì il re, sorprendendo il suddito, come se finalmente il sovrano avesse potuto rivelare liberamente a chi non lo considerava un re, d'essere ciò che avrebbe sempre immaginato d'essere, ossia un uomo, anche se l'affermazione sarebbe suonata addirittura blasfema alle orecchie della corte e dei ministri - "Pensate che io sia stato felice di diventare Re!? Non ho la stoffa di mio nonno…non sono coraggioso…e sapete cosa penso? Nemmeno vorrei che lo diventasse mio figlio. Conosco il peso di essere re ma non posso sottrarmi a questo peso".
"Vedete…io non dubito che voi siate un buon re. Non intendevo negarvi il mio rispetto e la mia fedeltà in quanto uomo generoso e buono. Ma in quanto re…no!".
"Negate dunque la monarchia!? Ma essa è il cardine su cui si fonda l'ordine del nostro paese!" – chiosò Luigi XVI con fare preoccupato, come avesse avuto sentore che l'ospite sarebbe stato così audace da giungere a contrastare tale verità assoluta e dunque mettere il sovrano di fronte a una visione imbarazzante e infelice – "La sola splendida luce capace di instillare nel nostro popolo il senso del dovere a servire il proprio re, la propria terra, i propri simili!? Capace di suscitare negli uomini tutti il senso del sacrificio!? Un re nasce per servire il suo popolo, nulla potrebbe distoglierlo dal compito per cui Dio stesso lo ha scelto! Come… ".
"Ebbene…Maestà…io…la nego per i vostri stessi motivi!".
"Non ho scelto di essere Re ma ho accettato questo peso perché Nostro Signore ha stabilito così" – s'affrettò a precisare Luigi XVI, colpito dall'inusitata schiettezza del suddito che non esitava, nonostante la sua delicata situazione, a mettere in discussione lo status quo del governo francese.
"Perdonate" – ammise severo André, il tono un poco freddo ma intenso – "Perdonate...ammettiamo per un istante che Nostro Signore potesse concedervi il diritto di scegliere. Nostro Signore può ogni cosa e dunque potrebbe anche lasciarvi la libertà di scegliere il vostro destino, la vostra vita, di non essere dunque ciò che voi siete. Dunque…se voi, maestà, aveste potuto scegliere…cosa sarebbe stato della vostra vita?!".
La domanda era solo all'apparenza una domanda, perché la premessa conteneva già la risposta.
"Comprendo il vostro ragionamento, ma non si può disattendere una decisione di Nostro Signore...".
"All'uomo è stato donato intelletto e ragione ma anche inventiva e libero arbitrio".
"Dunque per governare si dovrebbe scegliere!?" – l'interruppe il sovrano.
"E si dovrebbe essere scelti" – concluse André – "In questo modo anche voi avreste potuto vivere la vita che desideravate…poi…certo…è necessario averne i mezzi…ma di certo solo se l'aveste voluto voi…sareste potuto diventare Re…".
"Teoria affascinante…ma di certo una teoria che porterebbe al caos…la monarchia è dogma di stabilità. Essa discende da Dio!".
"E la Rivoluzione…" – proseguì André freddo ma convinto, che quasi Luigi XVI sussultò – "E' caos, dolore, rabbia e follia. E dove ciascuno può essere artefice del proprio destino…".
"La…Rivoluzione?" – il re sgranò lo sguardo atterrito.
"Sì, un palcoscenico ove la ragione ha diritto di ribellarsi e può anche essere considerata folle, ingiusta, caotica, disastrosa. Dove le persone si illudono e pregano e gridano e vincono e…muoiono…ma sono vive…non sono sonnambuli che adorano un simbolo perché così gli è stato imposto! Pensate dunque che Dio non avrebbe concesso a un re il diritto di scegliere la propria vita, così come lo ha concesso all'ultimo giglio che ondeggia silenzioso al vento di una collina? Ecco dunque questo credo sia…la vita…la vita che ciascun uomo ha diritto di scegliersi, così come di poter scegliere il proprio destino. Anche di morire. Ma soprattutto…di esistere…".
"Ed io…" – ammise Luigi XVI intimorito dalla conclusione – "Io sono il primo tra i sudditi francesi che non ha mai potuto scegliere. Ah…lo so…sapete…se potessi lasciare anch'io il mio posto?!".*
"E' così! Voi avete scelto di innamorarvi?".
"Cosa? No...Dio mi ha donato la mia meravigliosa consorte..." – l'eloquio prese a vacillare – "Io sono il re!".
"Dunque di nuovo la vostra fortuna discende da una scelta che non avete potuto compiere. Siete stato fortunato. Ma se questo non fosse accaduto?".
"Nostro Signore ha compiuto il Suo volere. Un re ha il dovere di accettare la consorte che gli è stata scelta, confidando nel volere di Dio...".
"Un re...allora..." – sussurrò piano André – "Non può neppure innamorarsi liberamente...".
Luigi XVI si stupì, il discorso lo affascinava e lo intimoriva al tempo stesso.
L'affidamento della propria vita e del proprio destino ai precetti religiosi, alla fede salda, rendeva in fondo qualsiasi scelta molto più semplice o comunque in ultimo rimessa alla volontà divina.
Ma Dio non ha reso forse tutti gli uomini liberi di scegliere?
E Dio non ha forse posto sul capo di ciascun uomo la responsabilità delle proprie scelte?
André scorse fuori dalla finestra, a scrutare i giardini che tante volte aveva percorso, mezzo passo dietro a lei.
Chissà se l'avrebbe rivista?
André Grandier aveva scelto, ma così facendo aveva obbligato lei a scegliere.
"Io credo che Nostro Signore, nella sua magnificenza...abbia donato a ogni uomo la capacità di scegliere..." – concluse André – "E dunque...anche di ribellarsi al destino che altri hanno stabilito per lui…perché solo ribellandosi, l'uomo può comprendere di esistere…".
"Allora...voi pensate che io non mi stia comportando da buon re? Non ho scelto di esserlo è vero ma sto facendo ciò che è bene per il mio popolo".
Un respiro fondo...
Sarebbe stato impossibile spiegare a un re che essere re era il principio stesso della non scelta.
Sarebbe stato impossibile spiegare a un re che essere re avrebbe implicato che chiunque gli sarebbe stato suddito, sempre, per tutta la vita.
Sarebbe stato impossibile spiegare a un re che essere suddito, per tutta la vita, era l'essenza stessa del diritto di ribellarsi, per conoscersi e riconoscersi essere umano libero, e dunque esistere oltre l'etichetta imposta da altri.
Sarebbe stato impossibile, per quanto un re si fosse atteggiato a buon padre, spiegare a un re che ciascuno dei suoi sudditi, in quanto sudditi, non avrebbe mai potuto decidere di non essere suo figlio.
"Maestà" – riprese André estraendo dalla tasca interna della giacca un libriccino nero.
Luigi XVI si zittì, le labbra increspate come un bambino che teme d'essere punito per chissà cosa avesse combinato.
André appoggiò il taccuino sul tavolo.
"Maestà, ascoltate..." – riprese André Grandier – "In America ho conosciuto i nativi...persone a cui è stata strappata la terra, le case, le sorgenti, i figli. Persone massacrate con le baionette e con le nostre malattie, intontite dal nostro vino e dai nostri vizi. Nessuno di loro si è mai sentito suddito di un altro ma sono sempre vissuti in uguaglianza, prendendo della terra ciò che serviva, lasciando alla terra ciò che non era necessario. E tutto questo si avvicina molto a ciò che sento. Non ho mai combattuto contro la Francia o contro Sua Maestà ma ho combattuto contro l'idea che i francesi avrebbero potuto prendere ciò che non appartiene a loro...".
"I miei soldati hanno fatto questo?".
"Non tutti e non sempre".
"Ma alcuni...".
"Sì. E lo hanno fatto anche i coloni...coloro che i francesi sono andati a sostenere contro gli inglesi".
"Ciò che dite...mi provoca immenso dolore...".
"Ne sono desolato. Ma il fatto che voi proviate dolore, testimonia la vostra grandezza. Testimonia che siete un uomo di buon cuore e saggi ideali. Ebbene...un bon père de famille doit être partout, dernier couché premier debout...." – André Grandier appoggiò il taccuino sulla scrivania – "Qui dentro è annotato tutto ciò che Monsieur Bonnard, sorvegliante della colonia penale della Cayenna ove sono stato per quasi un anno, sottrae ogni giorno a Sua Maestà e ai suoi...".
Luigi XVI sgranò gli occhi incredulo...
"Sudditi!" – concluse André consapevole che la Storia non si può forzare oltre i limiti consentiti dalla ragionevolezza d'un sovrano che si ritiene tale per diritto divino.
"Maestà, ho sempre agito perchè al nome del Re di Francia non fossero mai avvicinati gesti odiosi".
Luigi XVI s'ammutolì...
"Massacri, violenze, sottrazioni di grano, terre, donne uccise e violate..." – concluse André – "Dunque non ho combattuto per la gloria della Francia ma perché voi siete un uomo per bene, un uomo buono che non merita onta del suo nome. Ma come re, il vostro nome purtroppo si è unito a questi eventi e dunque a quel re io non potrò mai più giurare fedeltà!".
"Ho compreso..." – la voce del sovrano tremò, turbata dallo scenario, laddove i grandi sogni di gloria assumevano la putrida distorsione di meri atti di conquista e distruzione – "Vi ringrazio. Farò ciò che è in mio potere per rimuovere e punire quel sorvegliante".
"Fate ciò che farebbe un buon padre per i suoi figli. Proprio come avete fatto con me...".
"Lo farò..." – sospirò amaro il re.
"Ma...sappiate...che...".
L'interlocutore guardò l'ospite...
"Potrebbe non bastare..." – ammise André rammaricato.
"Che dite, i figli hanno il dovere di onorare il padre!? Chi mai oserebbe mettere in discussione...".
"E se quei figli non fossero davvero figli di quel padre?! E se quei figli un giorno giungessero ad ammettere che un sovrano non è il loro padre? E se vorranno scegliere chi avrà diritto di governarli?! I figli desiderano essere...".
Lo sguardo s'abbassò, la figura del sovrano quasi si rimpicciolì.
"Liberi...".
"Io...credo che i miei sudditi lo siano...".
"Maestà...avete detto...sudditi...semmai un giorno essi non vorranno più essere chiamati sudditi ma semplicemente con il loro stesso nome e cognome...".
"Io li renderò liberi...".
André tacque.
Sarebbe stato impossibile spiegare a un re che suddito è colui che è sottoposto alla volontà del sovrano e che non importa se possiede terre o cavalli o carrozze o denaro...
Non sarà mai libero di decidere per se stesso.
E se anche esisterà una sola persona che non può decidere del proprio destino...
Luigi XVI indicò un plico...
"Vi ho rilasciato alcune lettere di credito...".
"Siete troppo generoso Maestà!" – annuì André rassegnato.
Luigi XVI era un uomo buono...
Luigi XVI era il Re.
"Accettatele...".
"Vorrei rifiutale..." – sussurrò André – "Vi prego di non vederla come una mancanza di rispetto nei vostri confronti".
Il re sussultò...
Un altro rifiuto...
Che razza di suddito ingrato...
"Ma le accetterò!" – si schermì André inorgogliendo il tono - "Sapete, adesso ho due figli".
"Cosa? E...".
"Ebbene, anche io sono diventato padre. Sono fanciulli già grandi...staranno con me...e dunque accetterò volentieri la vostra generosità".
Sorrise Luigi XVI...
Un inchino, l'ultimo sguardo a concedersi il consenso delle proprie vedute, che anche se uno era il re di Francia e l'altro un semplice plebeo...
Uno sguardo al corridoio...
Il cuore...
Lo sguardo tentò di scorgerla, che lei avrebbe dovuto essere lì, ma in fondo non avrebbe dovuto esserci.
Chissà se l'orgoglio avrebbe prevalso sul cuore...
Che dannata battaglia le aveva rovesciato addosso!
Scorse la figura del Tenente Girodel, o meglio lo riconobbe quando quello si avvicinò.
"So che avete chiesto di rivedere vostra nonna".
Dunque era davvero il Tenente Girodel colui che s'era incaricato di far da tramite.
L'occhio scorse al lungo corridoio...
"Monsieur Bahamut vi accompagnerà nell'alloggio dove potrete incontrarla. Ci saranno anche i due bambini".
Annuì André distratto...
Il cuore cercava, la ragione dileggiava quel cuore così idiota...
La smania...
Lui l'aveva usata, l'aveva indotta a lasciarsi ammaestrare. Perché mai adesso lei non avrebbe dovuto eseguire alla lettera ciò che lui stesso, l'ammaestratore, le aveva chiesto di fare?!
Obbedire alla richiesta...
O, al contrario, disattenderla?
Il Tenente Victor Girodel fece strada.
Diluviava...
Entro lo scrosciare dell'acqua che sgorgava a terra, veloce e irruenta, sormontando i battiti del cuore, inondando il cervello del suo immacolato sentore, perduto entro l'ultimo abbraccio, il cuore la scorse.
E fu come se per tutti quegli anni lui non avesse fatto altro che rincorrerla e lei non avesse fatto altro che sfuggire.
E fu come se lui non se ne fosse mai andato e lei...
Gli parve di vederla proprio lì, persino poco distante da sé, davanti alla porta del gabinetto privato, vicino agli appartamenti della Guardia Reale.
André aveva compreso che la discesa dalla stanza del re l'aveva portato proprio lì.
La vide, dunque lei non s'era lasciata ammaestrare.
O forse era accaduto proprio quello, d'essersi lasciata ammaestrare così bene, che adesso era lei a sfidarlo, a stabilire quale distanza sarebbe intercorsa tra loro.
Per un istante sentì venir meno il respiro, le tempie presero a battere furiosamente, il cuore balzò in gola mentre il corpo disfatto dal viaggio, colpito dalla lontananza che lui stesso gli aveva imposto, d'improvviso si ritrovò molle, instupidito dalla visione, che pure lui se l'era prefigurata mille e poi altre mille volte.
Lei rimase lontano però, non troppo distante da impedirgli di vederla, perchè lei lo sapeva che lui non ci vedeva più bene, ma non abbastanza vicino da consentirgli di osservarla.
Un istante...
Victor Girodel lo sollecitò a uscire.
André Grandier tentò di restare con lo sguardo sull'altra, che fu l'altra a compiere un passo, poi un altro e un altro ancora in direzione opposta alla sua.
Scomparve alla fine Oscar François de Jarjayes, portandosi via il sentore della pioggia sulla pelle, il profumo delle rose appena sbocciate, abbarbicate sui marmi istoriati, il lugubre e stantio olezzo della rabbia provata, rimarcata così, sfrontata, dileggiando il ritorno, allontanandosi così da scavare il solco definitivamente.
§§§
Neppure riuscì a riconoscerla subito, Madame Marron Glacé...
André era risalito nella carrozza, lo sguardo sbarrato, inimmaginabile calcolare il devastante effetto indotto dal fugace incontro.
Si riebbe solo quando si ritrovò chiuso nell'abbraccio lieve e disperato di sua nonna, che quella piangeva e non si capacitava di potersi di nuovo stringere al nipote.
André Grandier si disse che Victor Girodel, alla fine, si era dimostrato di parola.
Pur non sapendolo, pur non avendo calcolato nulla, aveva di fatto risparmiato a sua nonna lo strazio dell'attesa d'una qualche missiva dall'America e poi, una volta che s'era saputo che lui era finito nella lista dei caduti, non ne aveva fatto parola con lei.
Le braccia si chiusero a bearsi del corpo piccolo e un poco sperduto dell'anziana, come ripiombato entro l'antico passato, quando lui era rimasto solo e sua nonna era giunta da Parigi per prenderlo con sé.
Come quella sera, in cui per la prima volta nella sua vita s'era ritrovato davvero solo, per sempre, nella casa dove era nato.
Quando rammentava d'aver avuto freddo e quel freddo non se n'era andato, nemmeno quando la mano di sua nonna lo aveva toccato, gli occhi di sua nonna l'avevano guardato e la voce lo aveva abbracciato, spiegando che presto entrambi avrebbero lasciato quella casa per andare ad abitare altrove.
Aveva ripensato spesso all'esordio di quella seconda nascita. Dopo essere morto, André aveva rammentato quando i suoi occhi s'erano sollevati a percorrere, gradino dopo gradino, la grande scalinata che dava al piano superiore di casa Jarjayes.
Dalla sommità scendeva un moccioso, ciuffi biondi un poco scomposti, a incorniciare un viso di pelle chiara e lampi azzurri e labbra rosate.
Nessuna moina, nessun accenno di distanza tra sé – che lui era il figlio del padrone – e l'altro – ch'entrava in quella casa come servo.
Lo sguardo s'aprì, sgranato alla vista dei bambini, ch'erano rimasti un poco indietro, nascosti nell'ombra dell'arco che divideva l'ingresso dalle tre camere messe a disposizione.
Gli parve di rivedere se stesso, impaurito, sbattuto fuori da un'esistenza tutto sommato confortevole, per finire in una vita del tutto sconosciuta.
Victor Girodel aveva mantenuto la promessa.
Aveva ritrovato Victoire Jenevieux che adesso era lì, mani giunte sul grembo, piedi un poco storti uno sull'altro, faccia un poco stravolta che le era stato detto che quello che avrebbe incontrato, era suo padre.
Argo parimenti se ne stava muto, la bocca dischiusa, in attesa di cacciare un grido di disperata gioia, di sollievo, che l'attesa era finita...
Diluviava...
Il sapore salato di ciascun sentimento scorreva nella bocca, grani puri e sfuggenti, d'una effimera vittoria contro la parte dannata di sé, quella pura, quella che non avrebbe mai accettato di rompere la promessa di bene che le aveva fatto, dopo averla incontrata.
La rabbia tesa a poco a poco si dissolse, mentre i bambini, Victoire più timida, Argo più sfrontato, si avvicinarono e lui si ritrovò giù a terra in ginocchio ad abbracciarli, in quella storia che non sarebbe mai stata la loro storia ma che adesso acquistava un senso assoluto e degno.
* Frase pronunciata da Luigi XVI nel 1776, nell'accettare le dimissioni di Malesherbes: «Beato voi! A me, invece, tocca di rimanere!» - Pierre Gaxotte – La Rivoluzione Francese
71
