I seem to have attracted a troll reviewer, please just ignore them!
La vita io l'ho castigata vivendola.
Fin dove il cuore mi resse
arditamente mi spinsi.
Ora la mia giornata non è più
che uno sterile avvicendarsi
di rovinose abitudini
e vorrei evadere dal nero cerchio.
Quando all'alba mi riduco,
un estro mi piglia, una smania
di non dormire.
E sogno partenze assurde,
liberazioni impossibili.
Oimè. Tutto il mio chiuso
e cocente rimorso
altro sfogo non ha
fuor che il sonno, se viene.
Invano, invano lotto
per possedere i giorni
che mi travolgono rumorosi.
Io annego nel tempo.
Vincenzo Cardarelli
Alla deriva
Un souffle de vent
Chissà perché aveva pensato fosse così difficile amarla?
Sì, era difficile ma poi non così tanto.
C'era il vuoto, colmo della gravità di non sapere come avrebbe fatto a separarsi, quando le ore, tiranne e inevitabili, sarebbero trascorse, mentre il tepore del corpo tornava a espandersi lì, accanto a sé, e dunque lui l'aveva abbracciata, perché così, tenendola stretta, vicinissima, forse non avrebbe rischiato di desiderarla di nuovo.
Forse amarsi non era difficile.
Forse lo è lasciarsi.
Forse lo diviene – difficile - all'approssimarsi di quell'istante in cui i corpi si slacciano, come nodi ormai sciolti dal vento, per prendere direzioni diverse, nella consapevolezza di non sapere quando la brezza o la tempesta consentiranno loro d'incontrarsi di nuovo.
Come avrebbe fatto a lasciarla?
Come, se adesso si ritrovava in balia delle sue dita che solcavano la pelle, all'apparenza annoiate ma forse no, forse davvero alla ricerca dell'estatico tremore che fremeva al loro passaggio?
Come, se adesso udiva infrangersi contro le viscere lo squarcio dell'abbandono, della cruda visione dettata dalla separazione!?
Il bacio buio scorse sul petto.
Fu sul punto di scostarla ma lei lo baciò ancora, poco più giù, entro ondivago e misterioso percorso.
Come avrebbe fatto a lasciarlo?
Dunque alla domanda non aveva dato risposta o spiegazione, si era ritrovata lì, a baciarlo piano, non erano baci ma innocui tocchi lievi, come a recuperare il tremore del corpo appena sporcato dalla suadente lentezza della lingua.
Tutto quanto accadeva non era pensato, non più ormai, né voluto, forse solo appena desiderato. Come se un accenno di volontà, uno qualsiasi, avrebbe rotto il silenzioso muro dell'avanzare muto, come suono di vita che non ha suono.
Accadeva senza ragione, accadeva in forza di una oscura ma fulgida intenzione di esistere e vivere ed essere lì, dove l'esistenza e il cuore tornavano a pulsare e a battere e a recriminare d'essere appagati, affogati nel tiepido abbraccio di un'alba lattiginosa e fragile.
"Non dovresti..." – respirò piano André che non aveva forza di scostarsi e scostarla un'altra volta.
Impossibile...
"Non dovrei ma lo voglio. Nemmeno tu, da quel che ho compreso, saresti voluto fuggire. Ma lo hai fatto. Non dovrei fare nulla ma lo voglio".
"Sì ma...".
"Intendi che per me sarebbe diverso? E perchè? Non l'hai fatto forse per il mio bene!? Fuggire e lasciarmi?! E dunque perché adesso non dovrei far questo per il tuo bene? E se lo facessi per me? Muterebbe il senso di ciò che sta accadendo?".
Non erano proprio andati così i fatti, ma sì, era stato per lei ch'era fuggito, per non rischiare di comprometterla, ma la scusa ormai non reggeva più.
Tutto distrutto, tutto superato, come in un balzo nel vento giù da una collina, che un passo falso e si sarebbe rischiato di rompersi l'osso del collo.
"Dunque perché non dovrei...".
La mano scorse alla carne.
André l'afferrò, strinse il polso, lo sguardo si fissò a lei, senza pudore, senza ritegno.
Nessuno dei due ne rammentava più l'ombra, dunque erano lì, a sfidarsi a scacciare pudore e ritegno.
Erano diversi, volevano esserlo a discapito della storia già scritta, come a strapparsi di dosso un abito ch'era ormai logoro, d'orgoglio sudicio, onore disfatto, promesse, dubbi...
"Dovresti..." – tentò d'abbozzare lui – "Andare".
Sussurrato, come in realtà stesse ammettendo il contrario, come sperasse in un diniego dell'altra, testarda a non ritrarsi.
Nessuna risposta.
"Hai freddo?" – chiese, lei annuì, ma lui non riuscì che a scorgere il moto del capo mentre sussurrava respiri lenti all'orecchio, mentre la bocca si schiudeva e la lingua intuiva il caldo pulsare del sangue.
Il lobo morso piano, il naso ad accarezzare il tepore del luogo che già conosceva, lì dove lei stessa si conosceva e desiderava tornare ad ammirarsi.
Le dita s'aprirono lasciando il polso, scorrendo ai fianchi, imprigionando il tronco, sollevando di poco il corpo che s'impose, come ebbro, imprimendosi addosso lieve ma intenso, nudo eppure vestito dell'odore minerale e fondo dell'amplesso, umido e caldo, bianco e asciutto.
Le dita lasciarono i fianchi impadronendosi della coperta, caricandola addosso, chiudendola sull'altra che scomparve mentre le immagini scomparivano, incapaci entrambi di distinguere ciascuno il proprio calore da quello dell'altra, il proprio desiderio dall'altro.
Tutto mescolato ma non fuso, indistinto ma distinguibile.
Eruppe l'insano vuoto a farsi strada nei meandri della carne e della testa, lo sguardo chiuso ad ascoltare i capelli ondeggianti addosso, nel sussulto tenero di morbide voragini.
Si strinsero le dita ai fianchi, chiudendosi e affondando nella carne, si tesero i corpi spezzati dall'onda che inghiottì il respiro, inondando la gola, rompendo l'argine dell'orgoglio, dilagando fin nel profondo della coscienza, ripudiando ogni barlume di solida realtà, per inabissarsi nel vortice vitreo e fulgido dell'incoscienza che ruba la ragione, della voragine che inghiotte la geometria statica dello spazio, del tempo instabile e sospeso del sangue, che di colpo rallenta e d'improvviso s'infiamma.
Quasi gli mise una mano sulla bocca, per arginare il diniego, il rifiuto, di cui era intriso quel sussulto di bene che ancora albergava nei muscoli, come se ritrarsi sarebbe stato l'unico modo di amarla davvero, imponendosi di lasciarla.
Si perse...
Si perse nello squarcio di sangue che esplose, incandescente vetro trasparente, così che la vide, attraverso il velo di lacrime, mentre si perdeva anche lei entro l'impossibile crinale da cui nessuno dei due sarebbe più potuto tornare indietro.
Albeggiava...
La pioggia gelida aveva cessato di scendere.
Un soffio di vento scompigliò l'aria umida, infervorando le foglie secche dei platani in danze rotanti e libere.
Le pozze limpide schioccarono d'azzurre scintille, impadronendosi dei brandelli di cielo freddo, replicando note di nuvole rosate, ombre scure di chiome ormai consumate e vinte dalla stagione che moriva.
Morì piano e rimase lì, morente sul suo petto, incapace di tendersi e restare abbracciata, vinta dallo sfacelo dei sensi, distrutta.
Scacciò via dalla mente il pesante fardello del passato, tentò di tenere a bada e a distanza il vago olezzo del tempo futuro.
Rimase lì, mentre adesso erano le dita di André che solcavano lievi la schiena, orchestrando circoli vaganti, percorrendo il senso dei muscoli, accarezzando i fianchi, abbracciando il corpo come a trattenerlo lì, su di sé, così da render meno drammatica la sconfitta dell'essersi amati.
Quel sacrificio che lui aveva tentato di tenersi addosso per tutto quel tempo, arginato a fatica entro miglia e miglia di spazio, giorni e giorni di tempo, era scemato da sé, dissolto all'apparenza, in realtà semplicemente riversato addosso a lei.
Pregò che esso non sarebbe stato troppo doloroso.
Pregò che lei sarebbe stata capace di sopportarlo e che lei lo avrebbe amato ugualmente, nonostante entrambi avessero varcato i confini scuri di un'altra storia in cui nulla era stabilito e scritto e ove tutto sarebbe potuto accadere.
Non era la loro storia quella e lui non aveva idea alcuna se sarebbero stati capaci di viverla.
Se non fosse stato possibile, André promise a se stesso che avrebbe fatto di tutto per riprendere su di sé quell'amore, quell'intrigante sacrificio che li aveva annientati e distrutti.
Non disse più nulla, non volle lasciarla.
Si ritrovò egoista nella propria incapacità di organizzare le ore successive, impossibile separarsi, eppure, ancora più impossibile immaginarla restare lì.
Oscar si sollevò sedendosi al bordo del letto, la schiena nuda e bianca, i capelli un poco arruffati, le ciocche piangenti a coprire la pelle tesa.
André la osservò, in silenzio, scorrendo alla nuca, alle spalle tonde e aggraziate, ai fianchi asciutti alle natiche lievi, morbide.
La mano scorse ad accarezzarle, lisciando la pelle, attendendo di scorgere sotto al tocco quel brivido che non tardò a rivelarsi, anche se a quel punto non era certo se di piacere o di freddo.
"Copriti!" – s'impose allora allungandole la coperta addosso, chiudendola in un abbraccio, sedendosi in ginocchio dietro di lei.
Silenzio...
"Adesso devo andare" – respirò piano.
"Sì. Devo tornare anch'io. Per quanto sia qui accanto, Argo e Victoire si chiederanno dove sono finito...e tu...".
Oscar scostò i capelli dalla faccia in cerca d'una risposta.
Nessuno in effetti l'attendeva a casa. Nanny, forse l'unica, sapeva che lei era a Versailles.
Victor...
Il nome spuntò piantandosi nella gola.
Non amare una persona non equivale a prendersi gioco dell'affetto che si nutre per lei.
Il male sottile emerse da sotto le dita, come il dolore inferto ma scacciato dal chiarore pieno del ventre che batteva ancora, torturato dall'insana follia.
Eruppe la pazzia, non le importava nulla, sentiva di aver attraversato il confine d'una terra sconosciuta, novella Eva che ha appena disobbedito, assaggiando, in un morso di rabbia, il frutto proibito che un tempo aveva osservato spesso maneggiato dall'altro.
Nell'affondo il desiderio di conoscere, sapere, ribellarsi al bene puro e incontaminato riservato dall'Onnipotente alle creature più nobili e importanti del creato.
Eruppe una sorta d'insana risata, subito soffocata in un rigurgito di pianto.
Si ritrovò sporca, distrutta, annientata, mentre intuiva, istante dopo istante, il cuore raffreddarsi, per ogni istante che il corpo tornava ad esistere silenziosamente solo e freddo.
Ebbe paura di restare sola.
André appoggiò la testa alla schiena, ascoltò il battito, lisciò la scia morbida dei muscoli, poi la mano corse ad abbracciare il corpo magro come a contenere il pensiero impudico, l'insano miasma d'orgoglio, per riprendersi il sussulto della carne e rimediare allo sfregio dell'amore.
Scorse la mano sul ventre, le dita s'annidarono al sesso un poco chiuso tra le gambe chiuse, intuì la peluria tenera, il tepore minerale della carne sconfitta.
S'addentrarono le dita sfrontate come per addentrarsi entro l'anima, frugare nei meandri, trattenerla a sé, egoista e impotente, incapace di amarla se non così, attraverso il docile ondeggiare della carne, accarezzata piano, sfregata più veloce e poi di nuovo piano, così da scovare il sospiro inabissato nella gola...
Eruppe il frammento vitreo incastrato nella frana umida del sesso, costringendo il corpo ad aprirsi, inclinarsi un poco, spingendosi indietro così da ritrovarsi avido e ferocemente incapace di respingerlo.
D'istinto lo cercò voltando la testa, uno sguardo ebbro, disfatto di desiderio, malato di piacere...
Si strisciò contro di lui e lui contro la sua fronte, per inebriarsi del sentore aspro del calore dell'amplesso ancora imprigionato nella pelle, nei muscoli bianchi e tesi...
Prese a baciarla, lingua mobile e fissa al contempo, all'unisono con le dita e il respiro, sempre più fondo, sempre più folle, sempre più intriso dell'orgasmo che saliva a pervadere ogni fibra, ogni istante...
Rammentò quella volta o forse le tante volte...
I polsi stretti dalle mani di André, il corpo di André, gli occhi atterriti di André che imponeva di non cedere alla rabbia.
La pozza macchiava implacabile il selciato polveroso d'una strada di Parigi.
Il sangue d'un bambino ammazzato lì, come un cane, da un nobile…
Le mani, le sue mani...
Le sue dita a stringerla.
Le sue dita...
I frammenti via via si stracciavano mentre la coscienza restava impigliata nel chiarore sempre più fondo che saliva a distruggere i primi...
Ancora...
Una carezza più fonda, il corpo quasi impaurito tentò di sottrarsi o forse semplicemente chiedeva di più, chiedeva di non essere lasciato solo.
Ancora...
La sinistra di André allungata per prendere la mano di Oscar, afferrata con impostata delicatezza.
Una leggera forzatura per vincere la resistenza che l'altra non comprendeva...
La presa sarebbe sgusciata via...
Rammentò, mentre la coscienza si ritrovava avvolta da seta suadente, soffocata dall'onda umida.
Rammentò che lui aveva stretto la sua mano...
Aveva girato il palmo...
L'aveva guardata fisso, il sottile disprezzo imbastito nello sguardo...
Ora anelava a quel disprezzo, lo voleva addosso per coprire il nudo desiderio, il roco avanzare del sussulto sordo.
Tremò piano, rannicchiandosi contro di lui, il rimbombo del sangue alle tempie, il battito impazzito...
Rammentò i finimenti ammorbiditi cacciati nel palmo della mano...
Il corpo cadde in quella mano, la sua mano, tendendosi, per poi abbandonarsi al muto disfarsi del tenero orgasmo, la bocca dischiusa, incapace di baciarlo, le braccia abbandonate incapaci d'abbracciarlo.
La sorresse, l'abbracciò, la tenne stretta ascoltando il brivido sordo scuotere il ventre, il corpo tremare fin nel profondo del sesso e dell'essere, quasi fosse disarticolato e disarcionato dai brandelli di ragione, annientato e caduto in un vuoto mondo impossibile da scorgere o ascoltare.
L'attese mentre giungeva piano, il respiro annientato, il sesso contratto e docile.
La cullò piano, la coperta addosso, la pelle come scoperta accarezzata piano, come a contenere lo smarrimento, il senso di abbandono, il vuoto dell'anima svuotata, orfana della trafitta vibrazione.
La eco dispersa dell'amore puro rimbalzò al cuore e poi all'intelletto colmandoli e subito dopo disfacendo la materia che rimase nuda, vuota, via via di nuovo fredda...
Di nuovo fredda...
Di nuovo sola...
Rammentò il dannato sogno...
Cercare...
L'altro appoggiato al muro della scuderia, braccia consente, aria severa, in attesa, come al solito.
Aggrappato alla vita di lei, ai suoi ordini, alle sue balzane pensate.
Avvicinarsi...
Non resse al distacco, ebbra del palpito lieve, si voltò chiudendosi sopra di lui che si ritrovò il volto addosso e fece per ricacciarla indietro.
Non sarebbe stato capace di tenerla lontana.
Nessun rumore, nessun rimestare di ferri o nitriti di cavalli o grida di fabbri o inservienti.
Nessun andirivieni nonostante fosse quasi il tramonto.
Luce lilla a tingere le cime dei pioppi poco più in là, le tenere foglie di betulla agitate dal vento.
Zampillare di fontane, esigui getti, le condotte chiuse dal mastro fontaniere, in previsione della notte.
Perle liquide disegnate sul selciato di mattoni rossi, asciugate dal calore della pietra e dissolte in un istante.
Le dita strette attorno al bavero della giacca dell'altro…
Che lei s'aggrappò alle mani, le dita inanellate, strette quasi a far male, sospinte su, le braccia via da sé, così da tenerle lontano e averlo lì, sotto di sé...
Che lo baciò piano, di nuovo, via via intuendo il desiderio innervato nei muscoli tesi e caldi...
Gli occhi aperti, lo sguardo severo.
A un pollice da lei ma lei non sentiva nessun odore di sapone, nulla…
Lo sprezzante intento di cavargli dalla faccia quell'espressione…
Neppure sapeva cosa sarebbe accaduto, sentiva soltanto di volerlo su di sé, dentro di sé, piano, intenso, arreso, vivo, mentre lo stringeva a sé, i fianchi madidi, il sesso avvolto e chiuso.
Rivide entro il tepore tiepido delle lacrime quella resa limpida e scaltra, il volto trasfigurato nell'acuta visione della stessa morte.
Rimase lì avida del suo tremore, della dissoluzione orgiastica dei sensi che s'abbandonavano a lei e lei lì ad accogliere l'ultimo roco respiro...
Intuì la eco del bene puro riecheggiare senza particolare veemenza o intensità.
Fluttuava e rimbombava entro le tempie...
Straziava acutamente il sesso...
Annichiliva la coscienza...
Il tempo di sporgersi e catturare le labbra…
Il tempo di scorrere alla nuca e tenere lì la testa, mentre il corpo, senza peso, s'adagiava su quello di lui, attirato dalla presa, tenuto fermo dal bacio.
Lo stesso bacio...
Lo stesso sogno.
§§§
Le briglie strette, il cavallo lanciato al galoppo, la coscienza disfatta, inchiodata all'istante in cui si era voltata per l'ultimo sguardo.
Anche André si era voltato e l'aveva guardata, mentre entrava nel portone della spelonca sghemba e lei invece si avviava per lasciare Parigi.
Il tempo del distacco.
Un tempo istantaneo che pare eterno.
Che cos'è dunque la libertà, se non aggredire quel tempo, farlo proprio, secondo il proprio piacere e il proprio desiderio?
Che cos'è dunque la libertà, se non una sorta di chiave per dominare il tempo?
Lo sguardo di nanny non prometteva nulla di buono.
L'anziana governante le era venuta incontro, un saluto appena accennato, un respiro fondo.
Uno sguardo di muto rimprovero, ch'era quasi mezzogiorno.
"Sei attesa da un ospite" – il tono di chi intuisce l'inaspettato evolversi d'uno scenario che non avrebbe dovuto essere, non così, non a quel modo.
Nanny aveva ammesso che suo nipote, alla fine di tutto, aveva compiuto la scelta giusta.
Nanny non avrebbe mai accettato che la sua bambina fosse disonorata, nello spirito e nel corpo, da nessuno.
E chiunque le si fosse avvicinato avrebbe dovuto essere all'altezza del suo rango e della sua libertà.
Adesso però il sacrificio di André pareva sfumare, asciugarsi come una pozza arsa dal sole d'estate.
Ora nanny ammetteva che era proprio Oscar François de Jarjayes a violare l'immenso sacrificio, rischiando di compromettersi lei stessa e al contempo rendere vano il dolore dell'altro.
Se l'ospite era giunto sino a casa Jarjayes e l'attendeva, altro non significava che lei non era stata là dove aveva detto di essere.
Oscar non domandò chi fosse, lo intuì.
Victor si alzò non appena lei entrò nella stanzetta degli ospiti.
Lo sguardo di entrambi si contrasse perché entrambi erano consapevoli del legame, dell'affetto, ma soprattutto di quel rispetto che lui le aveva sempre dimostrato.
Oscar fece per aprir bocca, l'altro la prevenne.
"Nelle prossime settimane dovremo predisporre servizi d'ordine più impegnativi" - accennò come distratto, come a distrarla dalle ore trascorse lontani, che lei si contrasse, non aveva senso che Girodel fosse giunto sin lì, a riferire ordini che potevano benissimo essere comunicati appena giunta alla Reggia.
Questo sarebbe stato ovvio un tempo.
Ora non più.
Ora Victor Girodel giungeva spesso, alle volte anche inaspettato, perché non vi era più la necessità di una ragione per compiere una visita.
S'era compiuto il tempo d'accettare quella visione, il moto del cuore era incespicato, aveva rallentato, poi aveva ripreso la sua corsa, grato della gradevolezza d'una scelta sicura, scontata ma proprio per questo più che corretta.
Sarebbe stato difficile immaginarsi una tale calma di fronte a sé e attorno a sé, se lì ci fosse stato André, se André avesse mosso quel passo verso di lei e l'avesse anche solo guardata come ormai solo lui sapeva fare.
Che ne sarebbe stato di lui, André Grandier?
Che ne sarebbe stato di lei, Oscar François de Jarjayes?
Non era per una questione di onore, era semplicemente sorprendente immaginarsi entro quella sorta di dimensione estranea a tutto ciò che inesorabilmente continuava ad accadere e a esistere attorno a lei.
Chi avrebbe accettato la presenza di un servo accanto a una contessa?
Come avrebbero fatto a combattere i pregiudizi?
"Sono state annunciate diverse celebrazioni" – spiegò Victor, tono neutro e distaccato – "In onore di Monsieur Benjamin Franklin che presto lascerà la Francia".
"Va bene" – dubbiosa sul senso dell'affermazione.
Girodel giunse al punto, inaspettatamente risoluto, quasi sprezzante, quasi avesse scorto sul volto il rossore d'una corsa senza fiato, per fuggire o sfuggire a ciò che conduce all'Inferno.
Oscar scostò il viso mentre il cuore ondeggiava tetro.
"Monsieur Franklin ha espresso il desiderio di rivedere il bambino indiano".
"Argo?" – il nome declinato come a prendere il respiro, era evidente si trattasse di lui.
Intuì il filo sottile, il timore crebbe, lo sguardo si scostò ancora di più, ma così sarebbe stato peggio, perché ormai da tempo non aveva più necessità di nascondere il volto a Victor e Victor l'aveva spesso osservata in volto, da vicino, avvicinandosi fino a sfiorare la guancia in quello che avrebbe potuto essere un bacio ma non lo era davvero.
Un tocco rispettoso e lieve.
Una sorta di promessa a consentirle d'essere ciò che desiderava lei.
Dunque tutto era lì, nelle sue mani, e tutto sfuggiva.
Victor non se ne accorse, o forse fece finta di non accorgersene - "Certo, proprio lui. Vorrebbe parlagli e domandargli se intende tornare con lui in America. In fondo la Francia non è la sua terra d'origine".
"Argo aveva già detto che non sarebbe tornato con Monsieur Franklin. Sei certo...".
La battaglia verbale...
Il dubbio che Victor avesse compreso. Il dubbio che il sacrificio di André sarebbe stato vano se lei non avesse mostrato accondiscendenza a quell'accidente e a qualsiasi altro ostacolo tra sé e l'altro, tra sé e il resto del mondo.
Difendere André, dimostrando di non temerne la vicinanza.
Difendere André ammettendo che lui era nulla.
Come...
Dio...
"E' un desiderio dell'ambasciatore...e ti dirò di più...".
Il respiro sospeso...
"Franklin ne ha parlato con il nostro re e lui si è detto incuriosito dal bambino e vorrebbe conoscerlo. Vorrebbe che venisse condotto a corte".
"No! Questo mai! Argo non è una bestiola selvatica da esibire alla corte!" – che lo scenario era vergognoso, per quanto le intenzioni del re non lo fossero – "Il re è una persona buona, curiosa, gentile. La corte no! Gli verranno riservate solo occhiate di sufficienza, come se lui fosse un essere inferiore".
"Allora..." – Victor non si fece intimorire dal disprezzo dell'altra, uno sprezzo più che giustificato ma che non sarebbe stato bene esibire di fronte alla corte reale, era evidente che l'etichetta venisse prima, che il volere del re venisse ancora prima dei lucidi ideali chiusi entro il fondo dell'anima di Oscar François de Jarjayes – "Credo che potresti concordare un incontro privato. Accompagneresti il bambino tu stessa così da evitare insidie. Anche a me farebbe piacere rivederlo. Se poi decidesse di partire con Franklin…credo che dovrei trovare un regalo adatto".
"Non..." – gli occhi alla finestrella, al chiarore soffuso, alla famiglia, alle ore che scorrevano lievi e fragili – "Partirà!".
"Se ne sei così convinta. Dimenticavo, il ricevimento si terrà molto presto. Come ben sai la condizione di Sua Maestà la Regina non permette eccessivi sforzi. Molti nobili hanno espresso comunque il desiderio di renderle omaggio e questa sarà un'occasione ove coloro che intendono esserle grati di divenire madre di una altro erede al trono di Francia potranno porgere i loro ringraziamenti".
"Sì..." – quasi soffocato – "Un altro erede...".
"In realtà le occasioni non mancheranno di certo. A parte la festa di commiato, si terranno altri spettacoli".
Spettacoli…
Quanti...
"Dovremo essere presenti. Come ben sai la corte - una certa parte di essa - non disdegna di malignare...".
"Mi pare insensato e folle. Sua Maestà non dovrebbe essere oggetto di tali insulti! E io non sono diventata un soldato per proteggerla da pettegolezzi e insinuazioni".
"Ne sono consapevole ma così stanno le cose. Il dissenso verso la famiglia reale è profondo. Non solo da parte dei nobili. Anche a Parigi, la gente sa persino quanto viene speso per un ricevimento a corte. Che idiozia! Come se la corte di Francia dovesse rendere conto delle proprie necessità ai parigini! Forse che un fornaio o un calzolaio rendono conto di quanto hanno davvero nascosto nelle loro dispense!?".
"Victor...per chi ha poco o nulla...forse diviene interessante sapere perché accade?!".
"E sia! Ciò non toglie che oltre al fango riservato dalla corte alla famiglia reale ora ci si mettono pure i demoni di Parigi!".
Ecco…
Non gli aveva domandato nulla...
Né come facesse a vivere, né se avesse trovato un lavoro.
Oscar si accorse di aver abdicato a ogni sua più ferrea volontà di conoscenza.
Ascoltava la eco sorda delle viscere.
Ammise che non le importava.
Ammise che ciò che aveva vissuto sino ad allora, ciò che l'aveva tenuta attaccata alla vita, era stata una banale quotidianità, imbevuta di regole, doveri, ideali, scopi...
Ammise che lei era vissuta nel grembo di un'esistenza falsa.
Ma i cuori non si erano uniti, i cuori sarebbero stati sempre due.
André sarebbe stato altro da sé, sarebbe vissuto in modo diverso da sé. Che il cuore si contrasse allora ritrovandosi solo, distante, slegato dall'altro e quando anche il suo cuore avesse battuto su quello dell'altro, i cuori sarebbero rimasti sempre due.
Loro erano due.
"Sai dove vive adesso quel bambino?" – così, d'un tratto, domandò Girodel.
"Sì" – ammise, tradendo la banalità dell'informazione, negare sarebbe stato inutile, Victor aveva imparato a tradurre silenzi e dinieghi – "Me ne occuperò io".
"Lo sai dunque...".
Non era stato stabilito nulla tra loro, ma lui aveva avuto accesso a quell'angolo scuro e lieve ove lei andava a stare per trarre il senso dei gesti e delle parole e dunque si permise di lasciare in sospeso la domanda, che tanto lei avrebbe compreso. Sarebbe stata costretta a farlo.
Oscar deglutì a fatica - "Una mattina a Parigi ho incontrato uno dei soldati che aveva partecipato alla spedizione in America. Mi ha confidato di avere necessità di entrare nei Soldati della Guardia. E' stato lui a rivelarmi dove vive adesso Argo".
André...
Il nome si spezzò in gola...
Era la prima volta che Oscar osservava lo squarcio profondo della loro diversità.
Lei non l'aveva mai vista, pur conoscendola.
Lei non l'aveva mai indossato il suo abito da contessa.
Ma non aveva mai indossato neppure i panni dell'altro.
Erano come Adamo ed Eva.
Ignari, avevano concepito di esistere nel momento in cui avevano compreso di amarsi.
Fino ad allora non erano stati nessuno, né l'uno per l'altra, né per nessun altro.
Ora erano...
Ora esistevano...
Ora divenivano visibili e nudi.
Non comprese subito se la necessità di tenere André fuori dalla narrazione fosse per difendere l'altro o per difendere se stessa.
Non lo comprese. S'immaginò d'essere un tutt'uno con l'altro e dunque difendere l'altro e difendere se stessa sarebbe stato uguale.
Anche se i cuori sarebbero sempre stati due.
Comprese che l'amava però.
E che amare non è sacrificarsi...
Amare è imporre un sacrificio all'altro.
Comprese che la sua vita volgeva in una direzione, mentre la vita di André scorreva altrove.
E la loro vita era altro, in un altro mondo ancora.
"Bene" – concluse cinico l'ufficiale – "Riferirò all'ambasciatore che potrà rivedere il suo pupillo. Sai, mi ha raccontato che mesi addietro, quando aveva conosciuto Argo, gli aveva affidato una serie di calcoli che avevano a che fare con la questione della…insomma…il naso del re…durante la prima spedizione, quella del giugno del 1778".
"Parli della coniazione delle monete?" – che ora aveva freddo, inspiegabilmente freddo.
"Sì... Monsieur Franklin era giunto alle sue conclusioni anche grazie all'aiuto del giovane indiano. La colpa era del procedimento di galvanizzazione…lo rammenterai?".
"Che intendi?".
"A detta di Monsieur Franklin…Monsieur Argo è molto bravo nei calcoli!. Immagino che il moccioso indiano sia stato felice che suo padre sia ritornato in patria per prendersi cura di lui" – Victor Girodel scorse all'effige dell'altra, freddo e senza cuore – "Il re vorrebbe conoscerlo anche per ringraziarlo del suo aiuto".
Ne imparava un pezzo alla volta.
Forse perché sapere sarebbe equivalso a tradire André, perché André s'era dichiarato colpevole ma non aveva rubato nulla.
S'era dichiarato colpevole per stare lontano da lei.
E lei doveva rispettare questa decisione.
Anche se non c'era riuscita e non ci sarebbe riuscita più.
La soluzione era semplice.
André si era assunto la responsabilità di ciò che non aveva commesso, solo per proteggere lei.
Ma lei non sapeva che Argo fosse coinvolto.
André lo sapeva?
Oscar dovette appoggiarsi al tavolo.
Le gambe tremavano, nella testa turbinavano immagini e dettagli catturati dagli occhi ma scartati dalla mente, ricacciata in disparte dal desiderio e dal cuore.
Intuì che le gambe non avrebbero retto al peso delle evanescenti figure, pesanti come macigni, piete polverose e riarse capaci di dilaniare carne e ossa.
Scacciò i frammenti dunque, li ricacciò nella gola e nelle viscere, mentre risorgeva il senso di sé frantumata e distrutta.
Uno scarto, un battito perduto...
Quasi cadde, che Girodel la sorresse...
"Stai bene? Che ti accade?".
"Niente...perdonami..." – un soffio.
"Ma...Oscar...dove sei stata?" – Victor non poté restare distante, non poté non chiedere, perché era evidente che lei non era rimasta a Versailles, ma nemmeno era giunta a casa.
L'altra si morse il labbro, come a mordere quel dannato rispetto che doveva a Victor.
Sorgeva nello stomaco la rabbia d'aver abdicato alla propria integrità, alla propria gelida intransigenza.
"Ero uscita a cavallo. La pioggia mi ha sorpreso e la strada per tornare era troppo pericolosa. Così mi sono diretta a Parigi".
Meschina scusa, che poi non era altro che la verità.
Una strada pericolosa non l'aveva mai fermata. Non era mai accaduto in passato, perché sarebbe dovuto accadere adesso?
Victor si ritrasse. Oscar comprese che la scusa era banale e indegna del dannato rispetto.
Forzò il cuore che forzò la mano che forzò lo sguardo a sollevarsi, come per accertarsi se l'altro davvero avesse compreso.
Non aveva paura per sé, non temeva alcun disprezzo.
Temeva per André, perché era stata lei questa volta a insinuarsi nella vita di André.
Intollerabile a prescindere.
Ma ancor più doloroso sarebbe stato rendere inutile il sacrificio dell'altro, quel sottrarsi per il bene di lei, che ora lei non avrebbe saputo come proteggere.
"Victor...".
Sorrise l'altro, un sorriso mesto che sollevò rabbia, perché era difficile disprezzare la mestizia, molto più semplice sarebbe stato ritrovarsi addosso colpevole rabbia, così che l'odio o il rancore o la gelosia avessero trovato alveo entro cui scorrere.
Forse Victor Girodel aveva imparato ad amare al di sopra di sé e per il bene dell'altro, l'amore come raggio intenso, madido di pioggia capace di condurre fuori della tempesta.
Un respiro fondo...
Victor si avviò alla porta.
Sapeva che Oscar François de Jarjayes non l'avrebbe mai amato, ma lui non aveva mai aspirato al suo cuore.
Voleva lei, semplicemente, voleva legarla al rispetto del suo rango, alla bellezza della sua immagine, alla fulgida effige d'una dea.
Non avrebbe mai tollerato di vederla risucchiata dal fango e dalla polvere.
"Riferirò all'ambasciatore che il bambino verrà a corte in visita privata".
§§§
Non pensava...
E non ammetteva di distogliere i sensi, ripiegarli entro la gelida quotidianità della sua vita che si svolgeva entro altri impegni. Una storia – quella scritta per lei - di cui lei aveva distrutto ogni brandello.
Il bacio...
L'immaginava.
Non pensava...
Lo voleva...
Si voltò...
Lo baciò piano.
Non l'aveva pensato quel gesto, si chiese se non fosse stata la smania di desiderare dunque, desiderare e basta, a indurla a metterlo in pratica. Così da ammettere di poter consumare l'esiguo istante del desiderio, e colmare quell'istante dell'istante successivo ove esso si realizzava.
Non era mai accaduto.
Non era mai accaduto di desiderare di commettere un bacio come fosse un gesto furfantesco, un'ignobile discesa entro i confini infuocati del peccato e dell'Inferno...
Non era mai accaduto d'esserne dunque appagata e ritrovare il proprio stordimento acquietato da quel bacio fondo che sostava sul collo, la pelle aspirata e succhiata piano, lì lì per esser morsa e poi no, abbandonata, perché era così che l'istigava a voltarsi e a baciarla, in silenzio, muti entrambi, acquietati entrambi d'essere soli, liberi, nudi, lontani da ciò che erano e da ciò che avrebbero dovuto essere.
Impagabile azzardo...
Era ritornata il giorno successivo a quello in cui erano stati annunciati i festeggiamenti in onore di Monsieur Benjamin Franklin, all'approssimarsi della primavera, nell'imminenza del prossimo parto della Regina Maria Antonietta.
Gli studi dello scienziato nella vecchia Europa si erano ormai conclusi, così come stabiliti e sottoscritti gli accordi commerciali e accertati gli effetti dell'immaginazione sulle menti meno attente. *
Non restava altro da fare.
Era tornata perché poi non sarebbe più potuta tornare.
Era tornata perché adesso non sapeva dove tornare se non lì, entro il tiepido soffio d'un respiro baciato piano, indugiato lento, morso e poi respinto.
Era tornata perché non avrebbe saputo come stare lontano.
Era tornata, anche se non sapeva tutto, ma sapeva che altro non voleva sapere.
Lo baciò piano, di nuovo, e poi intensamente e poi di nuovo piano in un susseguirsi di ondeggi come una nave che beccheggia fuori dal porto, indecisa se restare in mare aperto e lasciarsi cullare dalla notte di brezza e umidità, oppure rifugiarsi entro un luogo sicuro, liberarsi dal respiro sospeso della luna argentea e rifuggire entro il sonno morbido della resa.
Che poi fu lui a baciarla di nuovo, a bearsi dell'enigmatica carezza delle dita che solcavano la pelle liscia, la curva dei fianchi, il respiro lieve del petto.
Non pensava...
Non pensava più a nulla, se non che lei era tornata, se non che lei lo amava ma soprattutto si fidava di lui.
La fiducia...
Strana mescola di palpiti e cadute, insidiosi abbandoni e ripensamenti, resa al bene puro, e al tempo stesso feroce desiderio di non arrendersi, per tenerlo sempre a mente, per non dimenticare mai ciò che sarebbe potuto accadere.
Il bene puro, da difendere oltre il bene stesso, oltre l'altra.
Difenderlo persino da se stessi.
Trascinarla via dalla sconfitta...
Baratro d'esausta simbiosi, sinistro respiro annichilito...
Riverbero di vertigine fredda, a contorcere le dita strette, lo spazio annientato, il tempo sospeso...
Un soffio di vento s'insinuò entro lo spiffero della finestra chiusa.
L'odore freddo di neve percorse la pelle calda d'estate, scontrandosi, generando un brivido che la costrinse a stringersi a lui, imprimere all'onda sollevata dal ventre l'estatico sussurro dell'istante entro cui i sensi s'incontrano e si scontrano, duellano trafitti, nullità di reciproca beatitudine, increduli d'armoniosa resa.
La coprì, la chiuse nell'abbraccio buio, mentre il corpo tremava un poco.
Non era il freddo, non era la stagione gelida.
Chiuse lì, sotto di sé l'istante infinito che non sarebbe durato per sempre. Catturò lo spazio di tempo da rubare alla loro vita, perché di quell'istante si sarebbero dovuti nutrire i sensi, da lì a chissà quando.
Non troppo a lungo però.
André si contrasse mentre Oscar gli annunciava che Monsieur Benjamin Franklin aveva espresso il desiderio di rivedere Argo prima della partenza per l'America.
E così Sua Maestà Re Luigi XVI, incuriosito di conoscere finalmente un nativo americano.
Un essere che veniva da un altro mondo.
André trattenne il fiato.
Ora quel luogo, la Reggia di Versailles e i suoi tempi e l'etichetta e tutti i risvolti oscuri della corte più rinomata d'Europa, gli apparivano illuminati d'altra luce, come da altra angolazione, quella del tempo lacero e soffocante che scorreva entro le vie zozze di Parigi.
La coscienza era balzata in avanti e poi di lato e poi con orrore si era domandata cosa fosse stata la vita condotta entro le mura istoriate ma vuote, i corridoi assolati ma freddi, nella beata libertà di compiere un qualsiasi passo, ma in realtà non poter ammettere neppure un respiro fuori luogo.
André negò la visione, perché Argo gli aveva raccontato spesso di temere di essere riportato in America, terra natale sporcata del sangue della sua gente, terra di origine che ormai non gli apparteneva più.
Voleva avere un padre, voleva avere una sorella, voleva avere un falco da addestrare.
E voleva osservare la campagna modellata da colline docili, costellata di campanili, tetti di ardesia, mansardine illuminate di sera e buie di giorno, torri sbilenche, fumaiole, camini, contaminata qua e là da chiome di platani, salici e pioppi, imbastardita da muri corrosi da rose selvatiche, rosmarini odorosi, ortensie vanitose o più semplicemente dal consueto e costante chiacchiericcio che gli consentiva di non temere il silenzio delle praterie, interrotto di colpo dall'avanzare minaccioso di cavalieri al galoppo, vessilli di guerra, rombi di cannone.
Argo aveva imparato ad amare Parigi perché Parigi gli aveva sussurrato che l'avrebbe protetto.
Rimasero in silenzio per qualche istante.
"Ci sarò io con lui" – disse piano Oscar per tranquillizzare André, anche se non era lui quello spaventato.
Il desiderio del re non poteva essere disatteso dal timore di un bambino.
Si contrasse André, la questione era in sé di ben poco conto, eppure strideva che lei non ammettesse indugi, nemmeno quelli dettati dalla volontà di Argo.
Tentò di sottrarsi - "Mi spiace. Argo non si fida più di nessuno. E' accaduto per tante notti di ritrovarlo in giro per la casa, su e giù per le scale, e se gli domandavo che accadeva, mi raccontava di avere paura, di temere che qualcuno potesse arrivare a strapparlo alla sua vita. L'ha scelta lui questa vita, e per quanto sia in una casa mezza cadente, in una città come Parigi, questa è la sua vita".
"Quindi temi che non vorrà accettare l'invito?" – il dubbio insistente, non intendeva scadere oltre, l'insinuazione che si faceva largo nella testa, che il bambino fosse al corrente di altro che riguardava le dannate monete, e la faccenda del naso del re, scacciata via come serpe molesta e viscida.
André si sollevò un poco.
L'amava.
Amava tutto di lei e ormai nemmeno lui era più in grado di distinguere la donna dall'amante, il comandante dall'amica di Sua Maestà la Regina Maria Antonietta, la figlia di un generale da una giovane libera.
Ogni appellativo era scomparso, risucchiato dal voto d'amore.
Ma quelle maschere erano lì, ciascuna di esse posizionata ed esibita all'istante giusto.
Un respiro fondo, se lei voleva questo - "Proverò a convincerlo. Gli dirò che ci sarai tu con lui. Ma se non dovesse accettare, dovrò accompagnarlo. Potrei portare anche Victoire. Sono praticamente inseparabili quei due. In questo modo si fiderà".
Il silenzio ripiombò sui corpi abbracciati.
Il freddo costringeva a stringersi per trattenere il minerale sentore del sangue mescolato all'orgasmo.
Oscar intuì lo spasmo acuto...
Essere o dominare...
"Verresti a corte?" – la chiosa si compose dubbiosa – "E porteresti Victoire?".
Nello stesso istante si ritrovò perduta entro la visione di sé, giorno dopo giorno, estranea ai luoghi ove aveva vissuto sin da giovane, gli stessi dove aveva messo piede anche lui e dove lui non era più tornato.
Prima e dopo...
Rammentò i primi giorni in cui lui se n'era andato.
I passi cauti e pesanti al tempo stesso, attraverso i corridoi di marmo e le sale istoriate di statue e candelabri, lo sguardo nuovo a scrutare anfratti antichi, quelli entro cui avevano camminato assieme, ma in quel momento tinti di una luce fosca, arida quasi a togliere il fiato, quella d'una solitudine mai provata fino ad allora.
Lui era divenuto estraneo a quei luoghi, anzi forse non ne aveva mai davvero fatto parte, ma ora quegli stessi luoghi sarebbero tornati a colmarsi di loro, seppur al cospetto di una geometria diversa e non del tutto coerente con le loro vite.
E ora anche lei, a poco a poco, intuiva quel divenire estranea agli stessi luoghi, nella percezione dello strappo tra il dovere di esaudire un desiderio del re, che però avrebbe coinciso con la forzatura di una coscienza che mai avrebbe voluto ritrovarsi in tale frangente.
"Potrei" – sentenziò André un poco freddo, un mezzo sorriso – "Argo senza di Victoire ormai non va più da nessuna parte. E lei si risentirebbe se sapesse che il fratello andrà a Versailles da solo. E poi avevo già accennato a Sua Maestà di avere due figli. Vorrei credere che sarebbe contento se li portassi in visita. Ma sarebbe meglio…se tu…insomma…se tu non ci fossi!".
Muta, ammise che sarebbe stato meglio. Avrebbe rischiato di tradirsi e tradire André.
Di fronte a Victor, di fronte a...
Se stessa...
Eppure...
Declinare in modo sottomesso alla volontà dell'altro, seppur frutto di mero buon senso, strideva e sferzava al tempo stesso.
L'abbracciò allora che adesso le accadeva di desiderare d'abbracciarlo, ogni qual volta l'orgoglio restava sconfitto dalla visione violenta e cruda delle loro esistenze.
Erano diversi, lei luce e lui ombra.
Lei donna e lui uomo...
Lei contessa e lui plebeo...
Lei soldato e lui mezzo giornalista...
I cuori erano due...
L'abbracciò come per difendersi da se stessa, invocare l'aiuto disperato di quella zozza città dalla morbida e indolente dolcezza e dall'acuta e ruvida intelligenza, elevate al punto da proteggere amanti sconfitti e senza alcuna speranza.
Parigi era la città di quelli senza speranza.
Solo così, solo senza speranza, loro avrebbero brillato e sarebbero vissuti per sempre.
Cullati e chiusi entro le proprie braccia, abbracciati dalla muta città.
§§§
23 febrier 1785, Château de Versailles…juste pour un souffle de vent…
Il cuore batteva piano, come se il luogo avesse trattenuto i battiti di un tempo, i passi di un tempo e ora i nuovi passi ne intuissero la eco e la direzione.
Gli occhi osservarono i corridoi più scuri della reggia, rischiarati da bracieri, a indicare la via verso gli scaloni che conducevano alle stanze del re.
Argo davanti a sé e lui dietro, la mente piombata dal luogo, chiusa entro una sorta di grata di lontani ricordi, i passi sugli stessi scaloni, l'odore di profumi dolciastri, le risatine delle dame che si rincorrevano a studiar il modo più proficuo di trascorrere la serata, una partita a carte piuttosto che una vellutata chiacchiera sull'ultima moda di stoffe e piumaggi d'abbinare alle carnagioni.
Un soffio di vento sussurrò radendo le impalpabili fiammelle, piegandole, senza riuscire a domarne la rovente consistenza.
Pareva essere trascorso un secolo che però era stato un istante.
Argo rallentò il passo, gli prese la mano, all'altro, che il suo animo era piegato dal timore di non poter essere di nuovo libero e di non poter rivedere più il falchetto ch'era stato lasciato a casa.
Il ricevimento si sarebbe tenuto di sera, nessuna dimostrazione dell'abilità nella caccia sarebbe mai stata possibile a quell'ora.
Il gruppetto rallentò.
Victoire quasi andò a sbattere contro André, gli stava dietro, a bocca aperta, naso all'insù, nella mente il vago ricordo di un luogo ove lei aveva vissuto, seppure come fosse stata una lucertolina, beata al sole ma pronta a scattare, fuggire, perché quel sole non le apparteneva e lei non avrebbe avuto diritto di goderne, neppure d'un solo raggio.
La stanza delle Guardie Reali, al secondo piano, le finestre su La Court de Marbre...
Quadretti di caccia e di guerra appesi alle pareti istoriate di stoffe di raso, poltroncine a impreziosire l'arredamento dorato e sontuoso, un tavolino in radica, un grande orologio appoggiato sopra il mobile in fondo, il ticchettio a scandire i battiti del cuore.
Venne ordinato agli ospiti di attendere.
Victoire si sedette, aggiustandosi il vestito che le era stato regalato per l'occasione, un abito lungo a coprire le gambette ossute, il color malva abbinato alle calzette di raso, il corpetto a fiori blu ricamati sopra uno sfondo argentato.
Si sentiva una specie di dama, intimorita dal luogo, il respiro sospeso alla ricerca dei dettagli che gli occhi catturavano avidamente.
Aveva da poco festeggiato il suo compleanno. Un compleanno strano, che lei non lo sapeva esattamente il giorno in cui era nata. Maman non glielo aveva mai detto, anche se forse era accaduto in inverno, perché maman le aveva raccontato – ma nemmeno questo lo rammentava bene - che per tenerla al caldo usava adagiarla in una cesta di piume strappate alle oche ch'erano messe nel forno e poi lana cardata scartata e gettata via.
Victoire non era consapevole dell'etichetta e delle regole ferree che avrebbero imposto di riconoscere ciascun membro della famiglia reale e dunque omaggiarlo come dovuto.
Non ne era consapevole e infatti non si alzò neppure dalla seggioletta quando si ritrovò addosso gli occhi di una deliziosa damina, che le parve di avere già incontrato ma non rammentava dove.
La damina fece tre passi mettendosi al centro della stanza, controllando che dietro a sé nessuno l'avesse seguita, soddisfatta d'aver forse preso per il naso una qualche dama di compagnia che dunque non aveva fatto caso alla scomparsa di Madame Royale.
André riconobbe la piccola, l'effige ricamata in una qualche acquaforte che decantava la beltà della famiglia reale.
Si inchinò e così fece Argo imitando il padre.
Victoire invece, sciocca e incosapevole, lisciò le piegoline del vestito, un sorrisino appena abbozzato ma soddisfatto, come a mostrare all'altra la bellezza dell'abito in cui l'animo galleggiava come una bolla d'aria in una ciotola colma di miele.
Madame Royale aveva da poco compiuto sei anni. Vezzosa e lieve come una farfalla di primavera, scostò il capo per accogliere l'omaggio del giovane uomo e del ragazzo dalla pelle ambrata, mentre si stupì della strana alterigia della mocciosa.
"Victoire, alzati e saluta Madame Royale" – disse piano André con un mezzo sorriso di rassegnazione.
Che Victoire sussultò, che quell'appellativo aveva imparato a conoscerlo quando andava a Les Halles e girovagava per i banchetti di verdura e frutta e uova e farina, mano nella mano al padre, oppure a Rosalie, e ascoltava i discorsi delle comari grasse e veementi che affondavano velocemente e ad alta voce nella visione lontana della reggia, della vita che si svolgeva alla reggia, delle persone che abitavano alla reggia.
La reggia...
Un luogo fino ad allora lontano, sontuoso, inimmaginabile.
Chi l'avrebbe mai detto che ci abitassero minuscole mocciose come lo era stata lei?
Victoire si alzò, obbedendo al padre. Un inchino...
Marie Therese sorrise...
"Vuoi vedere le mie bambole?" – chiese quella allungando la mano, che l'altra sgranò gli occhi e di colpo il cuore si ritrovò immerso nel mare denso e nero del passato e gli occhi s'aprirono e poi s'assottigliarono come avesse visto sfilare avanti a sé, se stessa, e le proprie mani che afferravano una bambola, tanto tempo prima...
I dannati ricordi...
Negò Victoire, nell'istante la dama che accudiva la bambina si precipitò nel salottino, respirando a fatica per via della sparizione della regale mocciosa.
"Madame..." – chiocciò la dama – "Voi mi farete venire il batticuore e i capelli bianchi e...".
Madame Royale si ritrovò scoperta ma per nulla intimorita. Conscia del fatto che in un istante sarebbe stata invitata a tornare nelle sue stanzucce, compì una specie di piroetta, correndo via, lasciando i presenti sospesi della strana fuga.
Nemmeno il tempo che gli occhi scivolassero in basso, gli ospiti si accorsero che dietro alle sottane della dama, avanzava a passetti un altro bambino questa volta più piccolo.
André fece un passo indietro, si inginocchiò, Argo sgranò gli occhi imitando nuovamente il padre mentre Victoire non poté fare altro che afferrare la stoffa del vestito, stringerla con tutta la forza che aveva, inghiottire il grido che sarebbe sgusciato dalla gola...
Madame Royale era rientrata, portando con sé ben tre bambole, una di legno, vestita di stoffa, e le altre due completamente di stoffa.
Le offrì all'ospite...
Il bambino più piccolo tentò d'afferrarle, le bambolette. Che Marie Therese si mise a strillare, che quelle non erano sue, mentre lei avrebbe voluto farle vedere alla nuova amica.
Il grido si strozzò nella gola sommersa dall'acqua. Il gorgo risalì dalle viscere.
Tutto divenne nero, d'improvviso, mentre Victoire osservava la bambola, così simile a quella che Maman Amalie le aveva messo in braccio, per zittirla e consolarla, mentre camminava al buio di notte, il vento freddo addosso contro una costellazione di luci ovattate e poi via via spente.
E maman le ripeteva di non avere paura, che nessuno le avrebbe mai separate e che...
E che suo padre si chiamava Victor, ma non era una persona gentile, non era come quel giovane di nome André che le aveva aiutate.
Ma André non c'era più, se n'era andato anche lui e allora...
Victoire rivide l'arco nero sotto cui scorreva il fiume.
Non sapeva dove fosse, sentiva solo la stretta fradicia di maman che le teneva una mano sulla bocca, per impedirle di gridare o forse, in un palpito di pietà, di annegare e poi...
L'abbraccio si scioglieva, lei era libera...
L'istinto di respirare...
Risalire...
Victoire cadde, André fece in tempo a raccoglierla.
Madame Royale rimase lì, con la bamboletta in mano, impietrita, mentre il fratellino Louis Joseph, il Delfino e futuro re di Francia, riusciva ad avere la meglio e a strappargliela dalle mani.
Il segretario annunciò che Sua Maestà era pronto a ricevere gli ospiti.
Impossibile farlo attendere...
Victoire galleggiava nel limbo nero della disperazione che aveva spinto Maman Amalie a porre fine alla loro vita.
Solo che lei era sopravvissuta e aveva continuato a vivere, e sarebbe vissuta per sempre con la colpa d'essere sopravvissuta.
Victor...
Il nome ripetuto...
Victor era suo padre.
Victor era l'uomo che era venuto a cercarla a Soissons, nel collegio dove lei era stata portata dopo essere vissuta per qualche tempo nell'orfanotrofio di Parigi, distesa su una branda vuota, lo sguardo aperto, il corpo immobile, raggelato dal freddo della Senna che aveva stretto i muscoli e le tempie per tante settimane.
A Soissons aveva conosciuto Louis Antoine...
E poi...
Lo sguardo si aprì.
Lo sguardo si contrasse alla vista.
Indietreggiò Victoire rannicchiandosi nel divanetto ove era stata adagiata.
Gli occhi dell'uomo che l'aveva trovata a Soissons erano su di lei, ed era come specchiarsi nel fondo di uno specchio che riportava una verità chiara ma impossibile da rivelare.
Lo stesso viso entro un destino lontano.
Forse anche l'uomo ormai ne aveva inevitabile certezza.
Victor Girodel aveva fatto il suo ingresso nel salottino.
Victor Girodel cercava qualcuno.
Aveva trovato lei e l'aveva riconosciuta. Un poco più paffuta, più alta, i capelli arricciati e raccolti sulla nuca, i lineamenti lievi della madre, gli occhi intensi e chiari, così simili a quelli di un padre mai conosciuto.
Victor fece un passo indietro, senza profferire parola, dietro a sé comparve un'immagine via via più nitida. Anche quella l'aveva già vista ma non rammentava dove.
"Come ti senti?" – la voce accarezzò la disperazione della bambina, lo sguardo della piccola accolse quello dello sconosciuto, come se fosse stato lui, un tempo, a cavarla fuori dalla Senna.
Victoire scorse Victor Girodel scomparire alle spalle, mentre colui che aveva di fronte stava sorridendo. Il ricordo prese a dilatarsi nella testa...
La bamboletta ricciuta, boccoletti un poco unti del colore della cenere, pagliuzze dorate nello sguardo, vibranti al crepitare del fuoco che ardeva lì accanto, nasetto piccolo e sporco…
"Perdonami, forse non rammenti, ci siamo già conosciute ma eri molto piccola".
Una vestina lunga, tela grezza un poco rattoppata, piedini scalzi e unghiette nere.
Victoire s'era messa seduta. La corrente di ricordi ogni tanto si scontrava con un'ansa, il pilone di un ponte, un ammasso di sterpaglie, una duna di sabbia asciutta.
Ma era ormai inarrestabile.
Una specie di spiritello sorto d'incanto dalle braci del camino, che poi aveva avuto in animo di rotolarsi nella cenere e chissà forse anche negli schizzi di intingoli colati a terra.
"Io..." – domandò dubbiosa, oltretutto intuendo il genere declinato al proprio – "E voi?".
"Ho conosciuto anche tua madre...Amalie...".
Victoire non rispose.
"E' possibile che sia stata l'emozione oppure…il vestito è molto bello ma forse non sei abituata al corsetto e così è venuto meno il respiro".
Un cenno, Victoire strinse nuovamente la stoffa del vestito, lo sguardo basso - "Voglio andare via" – dura, le lacrime imprigionate nelle mani chiuse una dentro l'altra – "Dov'è mon papà?".
Victor Girodel era rimasto ad ascoltare. I pugni stretti.
Amalie Jenevieux dunque si era portata il suo segreto nelle gelide acque della Senna. A tal punto aveva avuto timore di lui che aveva preferito fuggire dal luogo sicuro ove avrebbe vissuto senza affanni, scappare verso Parigi e poi morire.
Sua figlia era sopravvissuta.
Ora Victor Girodel sapeva.
Indietreggiò come sopraffatto dalla vertigine del passato che però era lì, racchiuso entro il volto di una mocciosa che per lui era una perfetta sconosciuta.
I pugni stretti, non provava nulla per quella bambina.
Forse davvero Amalie Jenevieux l'aveva sempre saputo e non aveva potuto far altro che sottrarre la figlia alla più dura delle condanne, quella di un padre che non prova e non avrebbe mai provato nulla per lei.
"Tornerà presto" – sorrise Oscar – "Non ti senti bene?".
Annuì Victoire, un poco imbarazzata: "Tu come lo sai?".
"Forse…" – ammise Oscar dubbiosa – "Rammento che tua madre mi raccontò che eri nata nel 1774. Dunque stai crescendo. Forse sta accadendo ciò che è accaduto anche a me, tanti anni fa. Insomma, ciò che accade alle giovani fanciulle".
"A voi?!" – domandò stupita Victoire, non rammentava, era troppo piccola – "Perché voi siete...tu sei…una fanciulla?!"
"Sì...a dispetto dell'uniforme che indosso..." – che stavolta il cuore si contrasse, Oscar si ritrovò quasi affogata nel vezzoso appellativo, mentre la mano andava a scostare un ciuffo di capelli ribelli all'acconciatura della bambina.
Si rialzò, i pugni stretti anche lei, la vertigine addensata nella testa e nella gola, immaginando che André era lì, dopo tanto tempo, poco distante da lei, ma lei aveva accettato di restare lontana.
Ora comprendeva…
Affogare lentamente nello sguardo…
Ascoltare il tenero sorgere dell'affetto…
Scorgere l'istinto libero d'azzardare una carezza.
Dinnanzi a tutti…
Eppure tutto era mutato, ma nulla sarebbe dovuto mutare.
Rammentò la sfida d'essergli comparsa davanti, seppur da lontano, quando André era ritornato dalla Cayenna.
E poi quando lui era giunto a Versailles, per essere ricevuto dal re.
La visione dell'altro, succube della sua stessa volontà di tenerla a distanza, annichiliva, galleggiando nello stomaco, come una pietanza rancida, una vendetta atroce che lei faticava a immaginarsi esser lui riuscito a rivolgerle addosso.
Aveva fatto ciò che lui voleva e in quel momento, parimenti, stava facendo ciò che lui le aveva chiesto.
Si domandò allora se loro non sarebbero stati destinati a vivere davvero separati, lontani, come l'ombra e la luce, incapaci di oltrepassare il confine che li divide, come il giorno e la notte capaci di abbracciarsi solo entro i pochi istanti di candida alba e rosso tramonto, come il sole e la luna che, parimenti, soltanto entro fugaci e momentanee visioni, appaiono assieme, seppur contrapposti, entro la volta celeste.
Insomma...
I cuori erano due e sarebbero rimasti sempre tali.
Non c'era scampo.
Era semplice...
Quella non era la loro storia, il destino non si può mutare come un foglio vergato per errore e poi strappato e gettato via.
Fece per andarsene, immaginando che di lì a breve André sarebbe tornato per accertarsi delle condizioni di Victoire. Il patto era non incontrarsi.
Argo era impietrito, occhi sgranati, impettito di fronte ai due uomini che lo osservavano adesso, sguardo bonario e sereno, un poco panciuti, rubicondi e paterni.
Uno lo conosceva già.
Con Monsieur Benjamin Franklin s'era scambiato una certa corrispondenza, e quello, che s'era messo in testa d'insegnargli qualche nozione di calcolo, gli aveva poi commissionato certe operazioni utili a sbrogliare la questione del naso del re.
Che Argo si trattenne, per poco non gli scappò uno sbruffo, una risata soffocata.
Perché quello, il naso del re, stava proprio lì, in bella mostra sulla faccia del re, e c'era da scommetterci che un naso così importante avrebbe fatto gola a chiunque si fosse avventurato nelle fasi preparatorie del conio di monete riportanti la sua effige.
Quel naso aveva messo nei guai parecchie persone.
Gli fu consentito di alzarsi e avvicinarsi.
La pacca sulla spalla da parte di Monsieur Franklin giunse calorosa - "Bene mio buon Argo...".
La conversazione procedette.
André si scusò spiegando che gli premeva uscire per accertarsi come stava l'altra figlia, la piccola Victoire.
Uno sguardo ad Argo che si era voltato implorante di non essere lasciato solo, ma André mise subito al corrente i presenti della volontà del ragazzo di restare in Francia.
Lo stesso Re Lugi XVI convenne che era un bene, così avrebbe avuto modo di conversare ancora con il bambino e soddisfare l'innata curiosità sulle terre straniere. Il re era avido di conoscenza ma non altrettanto impavido nell'abbandonare gli agi della reggia, avventurandosi in viaggi che poco lo soddisfacevano.
Lo sguardo si scontrò con un altro sguardo, non appena varcata la soglia dell'anticamera.
Victor Girodel si avvicinò imponendogli d'indietreggiare.
Un altro ricordo...
Il ginocchio, puntato a terra, per alzarsi all'ordine di Victor Girodel.
Le mani legate dietro la schiena...
Essere inferiore…
Non aveva importanza che qualcuno glielo rammentasse. Era così...
Il terrore che in quel gorgo potesse finirci anche lei.
"Che cosa ci fai qui!?" - sibilò Victor Girodel – "Non rammenti ciò che ci siamo già detti?!" –
Rispetto e disprezzo...
"Lei è libera" – rispose André fissando l'ufficiale, senza disprezzo, seppur una velata commiserazione scivolava lenta sull'uomo che s'era dimostrato incapace di accettare la realtà delle cose.
Amore e libertà...
Quale status potrebbe mai indurre l'amore ad arrendersi alla libertà?
L'eloquio scorreva cauto, André Grandier non avrebbe mai tradito nulla dell'altra, neppure il pensiero di piegarla a divenire soggetto conteso e dunque possibile trofeo d'una qualunque disgustosa disputa, insulto alla sua coscienza, alla sua esistenza.
Eppure...
"Una ben strana vittoria la tua!" – rincarò Girodel sprezzante, quasi gli avesse letto nel pensiero – "Quindi è così che ti lavi la coscienza!? Lei è libera! Dunque la decisione resta sua! Sua la colpa di rischiare di oltraggiare la sua famiglia! Sua la colpa di accompagnarsi a un servo! Tu non avresti colpe dunque...ebbene in questo modo la ucciderai!".
"E dunque amare sarebbe una colpa per voi?!" – sputò André, stanco dei doppi sensi, ma incapace di nominarla, incapace di ficcarla nell'assurdo discorso – "Dunque vorreste che lei vivesse dentro questa gabbia?! E' questo che vorreste per lei?!"
Girodel s'avvicinò ancora di più, non s'accorse che Victoire si era alzata, in ascolto delle voci fonde e rabbiose che giungevano dal corridoio.
"Questa gabbia come la chiami tu..." – affondò Victor – "Lei è nata qui! Lei è stata addestrata da suo padre per esistere in questo luogo! Solo qui lei risplenderà e solo qui dentro lei sarà al sicuro!".
André si contrasse, intuiva il senso dell'affondo, non gli era estraneo pur trovandolo atroce – "Solo qui dentro lei risplenderà!? Dunque lei sarebbe nata per restare chiusa in una gabbia!? Qui ha il suo esercito, ha i suoi soldati che le obbediscono, ha la stima di Sua Maestà, ma fuori di qui non avrebbe più nulla giusto?! E dunque non avendo più nulla, non sarebbe più nulla? Dunque voi la stimate per ciò che ha, non per ciò che lei è!? Non per ciò che lei desidera!? E' così che dovrebbe vivere? Anelando alla libertà, ma meglio ancora se non la raggiungesse mai?".
"Anelare alla libertà non è peccato!" – rincarò Girodel per nulla intimorito – "Anzi, è proprio quella libertà a cui lei aspira che la rende così diversa da tutte le altre donne! Ma nemmeno dovrebbe essere una colpa godere di ciò per cui si è nati, mentre quella libertà che tanto le vorresti calare addosso non farebbe altro che ucciderla!".
"Siete solo un ipocrita! Finché lei desidera la libertà allora risplenderà? Allora sarà una donna diversa da tutte le altre che invece in questa gabbia ci vogliono vivere davvero!? Ma qualora la conquistasse davvero - la sua libertà - allora lei non sarebbe più tale? Lei non accetta di stare in questa gabbia, lei vuole essere libera! Dunque sarebbe proprio questo desiderio a renderla..." - un sussurro, André si ritrovò al gola chiusa.
"Immortale!?" – sibilò livido Victor Girodel.
Ma nessun essere vivente potrà mai essere immortale, ciascuno vive il proprio destino scegliendo chi essere, fino alla fine dei suoi giorni.
André stava scivolando nel mutamento dell'esistenza dell'altra, stava amando con tutto se stesso una creatura che sarebbe stata immortale solo rinchiusa in quella gabbia dorata, senza conoscere né amore, né desiderio, né paura, né rabbia. Anelando alla libertà certo, come sublime affrancamento, ma senza mai diritto di raggiungerla.
Pura...
Della purezza incontaminata dalle passioni e dal tempo che sarebbe scorso, senza intaccare la sua bellezza.
Fuori da lì, lei...
"Morirà!" – affondò Victor Girodel ritraendosi del tutto...
André fece un passo, passò oltre come in cerca del guizzo d'un vetro freddo a separarlo dall'aria che s'espandeva lì dentro, insinuata entro i corridoi neri di ghiaccio che conducevano all'esterno della gabbia dorata.
"Io non posso scegliere per lei" – rispose piano sopraffatto dal desiderio, annientato dalla visione.
"Sarai responsabile della sua disfatta!" – rincarò Girodel – "Sarà per causa tua se lei non sarà più ciò per cui è nata, chi è davvero...".
Girodel non s'accorse che lei era giunta alle spalle.
Neppure André.
"Sono disposto a morire per lei" – sibilò André.
"Così lei soffocherà sotto la colpa d'essere stata la causa della tua morte! E questo…questo non ti fa inorridire!?".
Un istante, silenzio...
"E a voi non fa inorridire essere stato la causa della morte della madre di vostra figlia?!" – sputò André, voltandosi, che all'istante Victor Girodel gli fu addosso, l'afferrò per il colletto della giacca, il pugno alzato, quasi trasfigurato dal vergognoso affondo.
"Avete abbandonato Amalie. Lei è morta. Aveva così paura che accadesse qualcosa a sua figlia e a lei stessa…" – sferzò André, incapace di trattenere la rabbia – "Quella bambina...l'avete vista proprio adesso. Non vi dice nulla il suo volto?!".
Victor Girodel mollò la presa - "E' stata una sua scelta!" – sibilò indietreggiando, rammentandosi di serbare il giusto contegno al luogo. Non gliel'avrebbe data vinta a quel plebeo, non sarebbe scivolato giù in quella specie di rissa verbale, che c'era da aspettarsi questo e altro.
Quell'errore non era affar suo.
Ammesso fosse da considerarsi un errore!
L'errore l'aveva commesso quella dannata Amalie Jenevieux, una prostituta...
E forse, consapevole di quell'errore, aveva tentato di rimediarvi.
L'onore innanzi tutto...
"Ebbene ora vi nascondete dietro al diritto di scegliere?" – sibilò André terreo, incapace di mantenere l'atona calma – "Decidetevi allora!".
Un passo indietro, un altro ancora…
Victor si voltò e se la ritrovò davanti.
Un istante…
L'istinto feroce dettò d'afferrarla, a squarciare ogni impalpabile velo di rispetto, di marcia educazione.
Lei intuì, si mantenne vigile, stretta tra il pari istinto di scostare André dal decadimento della scena, ove lei s'era ritrovata a recitare la parte della donna rifiutata che voleva dimenticare il rifiuto, che voleva rimediare al torto odioso d'essere stata respinta, che aveva ceduto la propria vita esattamente come gliel'aveva chiesto André.
Aveva eseguito la sua stessa richiesta – andare avanti con la propria vita – e mai quella richiesta era stata infausta e nefasta e atroce.
Ma amava André e allora doveva proteggerlo dal suo stesso amore.
E l'altro istinto, non darla vinta a nessuno, nemmeno a Victor Girodel, che se André l'avesse fatto – mettersi in mezzo – sarebbe stata la fine.
Victor si sporse avvicinandosi al viso, ripiombando giù all'uomo ch'era stato un tempo, un uomo che prendeva ciò che voleva, a mala pena colse il disprezzo, anzi, adesso quasi l'anelava, come a volerlo possedere, simbolo dell'orgoglio e dell'amore, così che nessuno potesse farci più nulla, tutto rinchiuso entro le sbarre di una evanescente gabbia dorata.
La sfidò...
E sfidò André, che André li vide, entrambi.
Amare o cedere…
Oscar tentò di sottrarsi, intuendo lo scarto del volto – in esso impressa la volontà di Victor - che si sporse ancora come a cercare la bocca, respirare un bacio di folle rassegnazione.
Che le mani dell'altra piombarono le spalle per stringerle, difendersi, che s'arresero di colpo, André era lì, e lei l'amava e doveva tradirlo, e lei l'amava e non poteva tradirlo…
Se Victor avesse compreso...
Proteggere o vivere...
Atroce vendetta, crepa sottile, incrinatura dettata dall'amore spesso e potente...
Nulla avrebbe potuto scalfire quel bene puro e immacolato e immortale che era la sua vita, lì, entro la fulgida gabbia che l'avrebbe protetta.
Nessuno sarebbe rimasto sconfitto, non vi era battaglia tra uomini, ma solo contro il destino che prima o poi avrebbe chiesto conto della scelta di libertà.
André chinò il capo, Victoire gli corse incontro e qualche istante dopo anche Argo, che si riunì al padre e a quella che ormai considerava sua sorella.
Victor Girodel strinse il polso dell'altra, rimase sul viso, come a lasciarsi attraversare dalla gelata furia d'amore e dagli apatici occhi dei presenti, ascoltando la rabbiosa resa della donna che aveva di fronte, sperando che l'uomo lì vicino, accanto a lei, la raggiungesse e si facesse giustizia da sé, per quell'affronto duplice, a lei e a se stesso.
Sfidava tutti, Victor Girodel...
Oscar François de Jarjayes cedette alla vicinanza – solo a quella – lasciandosi ammaestrare da colui che l'amava di profondo rispetto, come suo pari, unico uomo capace di tenerla lì, entro la gabbia dorata che avrebbe preservato il suo rango, la sua bellezza, la sua stessa vita.
Un passo...
Victor scorse al volto, quasi appoggiando la bocca alla guancia.
I pugni stretti, il disastroso passo a un passo dall'essere compiuto, se non fosse stato per la mano piccola, umida di sudore freddo, di Victoire appoggiata alla mano del padre.
André trattenne il respiro, rivide se stesso immerso nel demone irascibile dell'Amore…
Oscar intuì il respiro, non comprese s'erano le sue lacrime oppure quelle di Victor...
Nessuna battaglia...
Solo il desiderio che lei vivesse...
"So che non potrai mai amarmi!" – disse piano Victor Girodel – "Preferisco sapere che provi disprezzo per me. Mi farò bastare quello. Io rispetterò sempre la tua vita".
Immobile, Victor attese che lei lo respingesse.
Che si tradisse e tradisse l'altro.
Non accadde nulla.
Muto si scostò, allontanandosi.
E lei, muta, ascoltò il lento dissolversi dell'imperfezione del rispetto, il vano dibattersi, mutato e declinato forse in amore, seppur altro e diverso da quello che infiammava la mente, inducendo i muscoli a desiderare il baratro.
Perdersi, annullarsi, morire...
Si riebbe, cercò André.
Non c'era più nemmeno lui.
Le gambe parevano inchiodate a terra, incapaci di muoversi.
Forzò a voltarsi e cercarlo e correre e...
Lo tradiva per amarlo.
Lo amava e lo tradiva.
L'aria fredda giunse a rammentare l'esistenza, a scompaginare gl'intenti.
Braci spente, profumi sgradevoli dal fondo della scalinata, vociare goffo e scortese, il richiamo al governo di nuovi ordini per via dei nuovi ospiti, altre carrozze giungevano al ricevimento, dunque altri soldati andavano comandati entro le geometrie percorse da coloro ch'erano alla reggia.
L'incarico era importante, la buona riuscita quasi ridicola e farsesca.
I passi si arrestarono. Oscar si rese conto che cercando André avrebbe disatteso al patto.
Aveva ceduto a Victor, immaginando di distanziarsi da André, così che il primo non avesse in animo di sospettare del secondo.
Ignominia pura...
Che nello scarto del cuore, tutto rovinava…
La mancata fede al patto di onore del proprio rango, del proprio status, così come del rispetto che Victor aveva dimostrato per lei.
L'amore…
La vergogna dettata dall'amore…
Tutto assurdo, inutile, idiota...
Tutto...
§§§
Il respiro imbrigliato, le mani stette al corrimano della scala che conduceva lontano dal luogo.
I passi alle spalle...
"Perdonate...".
Un sussulto, Victor nascose il volto, nell'udire la voce che giungeva fastidiosa, nella misura in cui andava a interrompere la discesa nel vuoto della perdita, della resa, della sconfitta.
"Monsieur...non ho veduto tutto".
"Madame...perdonate voi. Godete della sorprendente virtù d'osservare ciò che basta! Né troppo, né troppo poco!" – sentenziò Victor acido.
"Ebbene, se avessi veduto di più non avrei avuto altro che conferma ci ciò che ho sempre pensato. E se non avessi veduto nulla mi basterebbe osservare voi".
"Ebbene, avete trovato di vostro gusto?! – respirò piano Girodel, ricomponendo gesti e voce – "Avevate ragione voi! Sarete soddisfatta!"
"Nessuna soddisfazione monsieur..." – abbozzò docile Madame Alexandra Roma Lemonde – "Non ho mai desiderato scorgere alcuna soddisfazione nell'osservare un uomo che d'improvviso impara a comprendere che cosa sia l'amore e altrettanto velocemente si accorge che quell'amore può diventare la più dura delle condanne. Forse avrei fatto meglio a non sfidare il vostro orgoglio, la vostra coscienza. Ero stata io a contestare la vostra freddezza e ora...".
"E ora...".
Roma si avvicinò, mise una mano sulla spalla dell'altro, mentre l'altra mano si appoggiò alla mano ch'era appoggiata al freddo corrimano di marmo.
"Che fate!?" – sussultò Girodel.
"Nulla...forse...se accettate il mio suggerimento...".
Victor si scostò, lo sguardo corse giù al buio della scala che scivolava verso stanze all'apparenza spoglie.
"Dovreste accettare ciò che accade, senza opporvi".
"Dite bene voi! Quell'uomo…lo ha detto…morirebbe per lei! Eppure è stolto a tal punto da non comprendere che proprio questo la ucciderà! Come si può pensare di addossare a qualcuno la colpa della propria morte!?".
"Ebbene lasciate che muoia allora!" – affondò cinica Madame Roma.
"Che diavolo state dicendo?!".
"E lasciate che anche lei muoia!".
Victor sottrasse il tocco della mano, l'orrore attraversò il sangue e lo sguardo - "Siete…pazza! Come sarebbe?".
"No! Non lo sono. Starà a voi cogliere l'istante in cui questo accadrà! E allora voi lo impedirete...".
"Dovrei...attendere...senza fare nulla? Lo trovo meschino e disonorevole".
"Monsieur...l'onore di un uomo troppo spesso s'intromette a distorcere i gesti e la coscienza. Non è da quell'onore che una donna come Oscar François de Jarjayes vorrebbe essere salvata...".
"Non mi amerà mai!".
"Meglio allora!".
Victor si voltò stupito.
"Lei non vi amerà mai, ma di certo il vostro rispetto verso di lei, la vostra abnegazione verso la sua vita non le potranno mai essere indifferenti. Voi l'amate anche per questa sua onestà d'animo e dunque mai lei potrà disprezzarvi. Voi dovrete solo fare in modo che nulla accadrà mai per cui arriverà a disprezzarvi...".
"Mi sarà impossibile! Se l'avete veduta. Se l'avete osservata...si è persino piegata a me pur di non tradire quel plebeo! E' terribile!".
"Sì! E ciò che ho veduto anch'io. Lei non vorrà mai coinvolgere quell'uomo nell'angoscioso destino che in quanto nobile l'attenderà".
"Non vi comprendo più. Io so…mia sola e salda certezza…la nobiltà a cui appartengo e a cui appartiene lei non potrà mai mescolarsi al sangue plebeo! Non è un mio vezzo. E' l'unica maniera per evitare che uomini che fanno della proprio origine e del proprio orgoglio il loro vanto finiscano per mescolarsi a uomini senza onore, senza spina dorsale! Che cos'è dunque quell'uomo se non un uomo senza rispetto!? Forse...potrei aspettarmi da lui l'unica decenza di non rischiare di compromettere il suo onore...credo davvero che quell'uomo darebbe la vita per lei...e non lascerebbe mai che nessuno le facesse del male! Se non fosse lui stesso…che gliene farà!".
"E allora..." – Roma indietreggiò, lo sguardo corse lontano, al passato – "Lasciate che lo faccia. E vedete di non esser voi a diventarle nemico. Restatele accanto, lei lo apprezzerà".
"Che dite...".
"Sarete voi il miglior alleato di quell'uomo. E lui stesso diverrà il suo più fedele guardiano. Per non tradire lui, lei sarà costretta a restare fedele a se stessa. Lasciate che il destino compia il suo corso e voi continuate a essere chi siete sempre stato...".
Continuate a essere chi siete sempre stato...
Le parole si persero nel buio del corridoio.
§§§
Continuate a essere chi siete sempre stato...
Un souffle de vent…
Aria tiepida di sole lieve, capace di scaldare la terra, sedurre i sensi entro visioni di lucida umidità, profumata d'erba asciutta e santità...
L'Assomption de la Vierge Marie...
I mesi successivi al ricevimento, ora dopo ora, erano stati divorati dai tarli.
I giorni erano trascorsi alla deriva.
Non l'aveva più rivisto.
Per via delle giornate di neve prima, dei ricevimenti che si erano succeduti, e poi per via della nascita del terzo figlio di Sua Maestà, Louis Charles Duca di Normandia, e poi ancora per partenza di Monsieur Benjamin Franklin.
E poi per via d'una imprecisata faccenda che di giorno in giorno, seppur inizialmente di soppiatto e senza che nessuno vi avesse concesso il meritato peso, aveva preso a scuotere la reggia, fin quasi dalle fondamenta.
Dapprima si era parlato di una lettera, giunta molti mesi prima, forse addirittura l'estate precedente, da parte di un certo gioielliere di Parigi, tale Boehmer, che reclamava il pagamento della prima rata di un costoso gioiello, una collana, pesante e ingombrante, commissionata durante il regno di Luigi XV per la sua favorita, Madame Du Barry e poi mai presa in consegna dal sovrano.
La lettera era scomparsa, forse bruciata perché ritenuta senza senso e senza importanza.
Quando però le rimostranze dell'uomo si erano via via sollevate fino a denunciare che lui voleva il suo denaro, altrimenti sarebbe fallito, e che quella collana lui l'aveva ceduta davvero a Sua Maestà, la Regina Maria Antonietta, colei che se n'era impossessata – valeva forse un milione e seicentomila livres quella dannata collana - senza onorare il pagamento…
Allora le fondamenta della reggia, i baluardi della virtù e dell'onore della famiglia reale, avevano davvero iniziato a tremare, come sotto una specie di tuono, un rombo sordo e terribile, come fosse un boato, grido sordo e fondo, scandalo capace d'infliggere il colpo micidiale dell'esordio della fine…
Tizzone ardente a infuocare i già roventi giudizi che covavano sotto la brace delle strade zozze di Parigi sul conto della famiglia reale, ma soprattutto sulla testa della Regina di Francia.
Come fosse stato inevitabile e non più rimediabile, ormai in pochi avevano creduto alla buona fede della donna più ricca di Francia, che aveva da sempre ammansito la propria malinconica esistenza attraverso il sollazzo di abiti nuovi, gioielli, scarpe, parrucche, ricevimenti, costose amicizie, dame dispendiose da vezzeggiare a mezzo di sontuosi appannaggi.
Dunque perché mai colei che si era sempre concessa tutto avrebbe mai disdegnato di possedere una collana dalla sfolgorante bellezza, ch'era stata commissionata addirittura da Luigi XV per la favorita du Barry?!
E in tanti allora si erano immaginati che Maria Antonietta si fosse professata innocente per sviare d'esser colpevole, perché quando anche lo fosse stata, nessuno avrebbe mai potuto torcerle un capello.
E in tanti avevano stabilito che la regina fosse colpevole, mentre innocenti dovevano senz'altro esserlo tutti quelli ch'erano stati ritenuti responsabili della faccenda, presunti colpevoli o ritenuti tali, arrestati oppure destinati a essere ricercati ovunque fossero finiti.
D'uno di questi, le Cardinale di Rohan, era stata disposta la cattura e l'arresto, mentre si accingeva a celebrar Messa proprio per L'Assomption de la Vierge Marie...
Ma non era bastato, perché si sapeva che quello era già stato nemico della madre della regina, Maria Teresa d'Austria, e allora s'era detto che Maria Antonietta l'avesse prima usato per ottenere la collana, che il religioso assai benestante, aveva fatto da garante per il pagamento, per poi addossargli la colpa dello scandalo, in una sorta di reciproco rimbalzo di suadenti ripicche e vendette.
Il delitto perfetto!
Che non è quello dove non c'è il colpevole ma quello dove si trova il colpevole sbagliato!
Il punto era che oramai non era più nemmeno possibile stabilire chi davvero fosse il colpevole giusto e quello sbagliato!
Parigi allora era rimasta meta lontana, il nome trattenuto in gola, le dita ad annaspare nell'intento di proteggerlo.
Per via d'aver anteposto il bene di lui all'amore per lui...
Per via d'aver tentato di stare lontano, così che André sapesse che lei lo amava.
I destini tornavano a dividersi...
Lei aveva tutto tranne la libertà...
Lui possedeva la libertà ma non aveva ciò che desiderava.
Dunque era riuscita a ritornare lì, nella stanzetta su, in cima a La port du ciel, lì, a Paris, la città di quelli senza speranza.
Era tornata lì, nella stanzetta senza speranza, che Oscar François de Jarjayes aveva imparato giorno dopo giorno, ora dopo ora, cosa fosse l'amore, o meglio la sua inebriante e distruttiva e sottile capacità di insinuarsi nel sangue, entro le viscere, sotto le dita, dentro il cervello, pungendo a tratti e poi ondeggiando e ancora oscurando quasi la vista.
Non sapeva se l'avrebbe rivisto - quell'amore - non sapeva se l'altro si sarebbe reso conto che lei era tornata, nemmeno lei sapeva a cercare cosa, se non forse quell'agonia senza speranza entro cui la sua vita si stava spegnendo.
Nella sera tiepida, non aveva fatto in tempo a sedersi che lo sguardo s'era sgranato al chiarore sputato dalla finestrella dirimpetto alla Port du ciel.
Le stanze ferocemente illuminate da torce, uniformi di soldati che si spostavano da un angolo all'altro, e poi le facce atterrite dei mocciosi, stretti alle braccia di André Grandier ch'era fermo in un angolo, volto truce...
Si alzò, fece per precipitarsi fuori, Madame Fabér le venne incontro senza respiro e dietro a lei Rosalie Lamorlière e un altro uomo.
"Non dovete andare!" – Madame Fabér sbarrò la strada, braccia aperte – "Non sapeva se sareste tornata, ma nel caso, m'ha detto e ripetuto che qualsiasi accidente fosse accaduto, voi di qui non vi dovete muovere, né affacciarvi alla sua casa. Non andate, per l'amor del cielo!".
"Che significa?" – chiese, respiro sospeso, occhi atterriti alla visione di tutti quelli che sbarravano il passo, lì a eseguire un ordine dato da chissà chi.
Sono disposto a morire per lei…
"André! Me l'ha detto lui. Non dovete andare! Ha fatto in tempo ad avvertirmi. Ve ne prego...ascoltate quello che chiede".
Tutti…
Madame Fabér e dietro Rosalie e dietro ancora…
Il sussulto del cuore...
La spasmodica ricerca d'una ragione per ciò che stava accadendo, per quella sorta di rappresaglia che si consumava nella casa di fronte.
Chi li aveva mandati i soldati…
Cosa cercavano?
Gli occhi scorsero all'uomo che avanzava subito dietro Rosalie.
"Sono Bernard Chatelet, sono un giornalista e conosco André. Adesso lavora con me" – si presentò feroce l'uomo che seguiva Rosalie – "Mi hanno detto chi siete e allora vi chiedo se voi sapete ciò che è accaduto oggi a Parigi?! Intendo per via del l'affaire du collier?".
Ecco dunque una possibile spiegazione…
S'impietrì Oscar François de Jarjayes.
"Voi siete un soldato del re, so che venite da Versailles" – sferzò Bernard Chatelet avanzando mentre lei quasi indietreggiava sulla soglia dell'hotel particulier – "Il nostro giornale è stato perquisito, proprio oggi! E adesso questo! Rosalie mi ha detto che voi conoscete André! E Alain Soisson mi ha raccontato che da Versailles è giunto l'ordine di cercare quelli che avrebbero rubato la collana! Che cosa c'entrano i giornali con quella faccenda? O non è forse un nuovo tentativo del re di chiudere la bocca a tutti quelli che cercano la verità? Perché la verità è forse che quella collana se l'è presa proprio la vostra regina?!".
Rosalie tremò, quasi perse il respiro e l'equilibrio – "Bernard! Non parlare così! Non ho mai detto questo...ho detto solo che...".
"Non so nulla di ciò che sta accadendo!" – replicò Oscar la voce imbrigliata – "L'ordine di cercare i responsabili del fango rovesciato addosso alla famiglia reale non ha nulla a che fare con...".
Implosero i sensi...
Il nesso diabolico e lampante al tempo stesso eruppe...
"Ebbene, come faccio a credervi?!" – rincarò feroce Bernard Chatelet.
* Riferito agli studi di Franklin sul mesmerismo.
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