I mortali li credono onnipotenti. Nulla di più lontano dalla verità. Li chiamano divinità, li adorano e chiedono protezione, danno loro merito dei loro successi e si interrogano su cosa li abbia irati se qualcosa va storto nelle loro fin troppo brevi vite. Ciò che non sanno è che non sentono le loro preghiere, e di certo non vengono a conoscenza di tutte le ingiurie che lanciano loro. Come potrebbero? Se davvero fosse possibile le loro orecchie sanguinerebbero per tutti i lamenti.
C'è una cosa che i mortali non conoscono sulla loro esistenza, qualcosa che ogni dio si impegna attivamente a tenere nascosto. Sono immortali, dotati fin dalla nascita di un incredibile potere e della loro amata divinità, per cui rinuncerebbero a tutto, fatto ampiamente riconosciuto da tutti. Sebbene lei la detesti quanto la ami, dopotutto l'ha costretta a fare scelte di cui si pente ogni giorno. Oltre a tutto questo sono, purtroppo, legati ai loro adoratori, ne hanno bisogno, molto più di quanto i mortali credono, molto più di quanto loro abbiano bisogno degli dei. Il loro credo li modifica, rendendoli vincolati a quegli insetti che li assillano per ogni piccola cosa.
Lo odia, odia quanto siano dipendenti dai mortali, e quanto ciò li cambi. È amaro ammetterlo, ma gli anni passati nello stomaco di suo padre sono stati i migliori della sua vita. Nonostante tutto erano assieme, loro cinque fratelli. Lei era la figlia di mezzo, godeva delle cure delle sue sorelle maggiori e insegnava tutto ciò che sapeva ai suoi fratelli minori. Non sono cambiate molto le sue sorelle, Hestia, ora Vesta, è sempre stata una figura materna per loro, molto più di quanto lo sia mai stata la loro vera madre, e ora com'è allora si prende cura di ognuno di loro come può.
Demetra, ora Cerere, si è sempre presa cura dei pasti di tutti. Trasformava i resti del cibo ingurgitato dal loro padre in banchetti gustosi, tanto che a volte lo sogna, il gusto magnifico che aveva sulle sue labbra, molto più dell'ambrosia o del nettare che ora mangia quotidianamente. Loro rimasero più o meno le stesse, toccate a malapena dal volere dei mortali
I suoi fratelli però, furono i più sfigurati. Ade, ora Plutone, era sempre gioioso e aveva talento nell'intagliare le pietre preziose. Fece per loro monili splendenti. Li conserva ancora oggi con cura, perché smise di dedicarcisi millenni prima. Aveva la pelle pallida il maggiore dei fratelli, troppo pallida, quasi traslucida. Ciò spaventò quegli insetti, pensandolo un morto, sebbene dio, così lo relegarono a sovrano degli inferi. Non sorrideva più nelle rare volte che lo vedeva. Quello che lo distrusse però fu che lo obbligarono ad innamorarsi della progenie di sua sorella Cerere, Kore. Una volta gli confidò che era invaghito di Vesta, e sospetta che il sentimento fosse ricambiato, perché non appena accadde la loro sorella maggiore fece voto di castità.
Poseidone, ora Nettuno, fu trasformato in un essere rancoroso, geloso di suo fratello minore, il re degli dei. Quando ancora erano giovani parlava loro del mare e di tutte le sue meraviglie. Ora era diventato sovrano delle acque, tuttavia la gioia che gli portava quel ruolo fu trasformata in amarezza dalle voci che diffuse Zeus, ora Giove.
Distrusse la loro famiglia, obbligando tutti a prendere posizioni che non desideravano, affibbiandogli ruoli che detestavano. Fu semplice farlo, bastò far circolare ridicole notizie su di loro, ma le credenze dei mortali le trasformarono in realtà.
Allora era la donna più bella del creato, sia essa mortale o divina. Zeus si invaghì della sua bellezza, del pensiero di possedere la creatura più bella del mondo. Così fece pensare ai mortali che lei si fosse segretamente innamorata di lui, e ciò divenne realtà. Così quando le propose una stupida scommessa per decidere il loro matrimonio, lei accettò, e quando la perse ne fu addirittura felice.
Si sposarono e per qualche anno vissero felici. Nonostante lo odiasse ne era anche innamorata, e quest'ultimo sentimento oscurava tutto il resto, almeno fino a quando non si stancò di lei. Le affibbiarono il ruolo di dea del matrimonio, così non poté lasciare suo marito nonostante tutti i suoi tradimenti. Il suo potere, la sua divinità, deriva dal loro legame. Se si lasciassero rimarrebbe immortale, tuttavia sarebbe poco più forte di un mortale fino a quando non si fosse risposata. Cosa che non aveva intenzione di fare. Inoltre il divorzio deve essere consensuale, e Zeus non lo permetterebbe mai, ne ha fatto una questione d'orgoglio. Gli uomini e il loro orgoglio, la loro gara di misurazione del cazzo prima o poi distruggerà il mondo.
Ad ogni donna con cui lo sorprendeva a giacere, a ogni umano che reclamava la sua discendenza come figlio del re degli dei, perdeva un po' del suo amore. Gli umani continuarono a parlare, e lei sentì nascere dentro di sé rancore verso quelle donne, contro cui fu costretta a vendicarsi, e se non loro i loro figli. In realtà provava pietà per quelle donne, forzate come lei in una relazione che non volevano. Perché non dici no al re degli dei, l'essere più forte del creato. Puoi accettarlo, fingendo che ti piaccia, oppure puoi essere violata. Nessuno ti salverebbe, nessuno rischierebbe la propria vita per te. Lo sa, perché anche lei ha chiesto più volte aiuto, ma non c'è niente che possa salvarti. Non da lui.
Così fu lasciata ad essere un guscio di quella che era una volta. Un guscio pieno di rancore e amarezza. Comunque ne fu felice, almeno non era costretto ad amarlo, poteva disprezzarlo e odiarlo quanto voleva.
Tutto cambiò quando la Grecia fu conquistata da Roma, passarono ad essere adorati da un impero. La fede dei romani però era diversa da quella dei greci, così come le loro usanze, quindi li adattarono ai loro gusti, rendendoli più disciplinati e uniti, ma anche molto più bellicosi. Lei, nonostante tutto, ne rimase deliziata. Tornarono ad essere una famiglia, per quanto lontana da quella che erano, da quella che avrebbero dovuto essere. Non si innamorò nuovamente di Giove, non avrebbe potuto più farlo, né come Hera né come Giunone. Tuttavia poté vedere più spesso i suoi fratelli e sorelle perché il consiglio si riuniva più spesso per deliberare, anche se era costretta a confrontarsi con l'odio che quasi tutti gli olimpionici avevano nei suoi confronti, dopotutto quasi tutti erano figli di suo marito, e aveva tentato invano di punire le loro madri.
Non poteva biasimarli, davvero, né aveva le forze per odiare gli umani che le avevano cucito addosso quel ruolo, ormai provava rancore solo verso Giove.
L'impero si espanse, e così fece il loro pantheon. Ogni vittoria sul campo di battaglia dei mortali corrispondeva ad una loro contro gli dei nemici, e proprio come i romani fanno con gli sconfitti, loro fecero con gli altri pantheon. Li inglobarono, rispettando le loro usanze ma insegnandogli le loro, romanizzandoli in tutto ciò che contava per l'impero, lasciandogli il loro orgoglio per le proprie tradizioni. Funzionò, si scontrarono con vari pantheon e li assimilarono. Si espansero in tre continenti, fino a quando non si dovettero fermare.
Attorno a loro si trovavano i nordici, gli indiani, e gli africani. I primi due li surclassavano per puro potere, quindi li evitarono, non avvicinandosi alle loro terre, mentre gli africani, sebbene meno potenti, sono più misteriosi, più duttili, e più capaci. Riuscirono a conquistare solo le terre a nord dell'Africa, quelle controllate dal pantheon egizio, tuttavia ogni volta che provavano a dirigersi verso l'entroterra venivano fermati. Una sensazione agghiacciante li travolgeva quando uscivano dal suolo romano, facendoli tremare e rinunciare a qualsiasi idea di continuare la campagna. Non dovevano temere neanche delle controffensive da questi temibili nemici. I nordici, sebbene forti, si stavano estinguendo, venendo prosciugati dalle continue orde di slavi che migravano da est. Gli indiani erano in una situazione di stallo con i cinesi, e non potevano permettersi di entrare in guerra con altri pantheon e, così facendo, indebolirsi. Mentre gli africani sembravano semplicemente disinteressati alla conquista.
Perciò Giove, affamato di più potere e gloria decise di iniziare una guerra contro un altro pianeta. Scelse quello che considerò più debole, dove la maggior parte degli dei fu sconfitta fino quasi a scomparire in una guerra contro la dea dei ghiacci e della morte avvenuta millenni prima, e il resto fu indebolita dalla nuova controffensiva avvenuta solo pochi anni prima. Sarebbe dovuta essere una guerra facile, vinta in poco tempo. Così non fu.
A combatterli si presentò solo un dio, nato umano e asceso alla divinità solo da poco. Lo derisero, provocandolo, ma non fu toccato dai loro insulti, e da solo li sconfisse. Che ironia, l'apice dell'esercito olimpionico messo in ginocchio da un giovane dio. E ora ne avrebbero dovuto pagare il prezzo. Il pantheon che avevano attaccato chiese un risarcimento per i danni inflitti, e così Giove si chiuse a contrattare con la dea che si presentò dopo la fine dei combattimenti. Si presentò come la quattordicesima Fiamma di Valyria, qualunque cosa significasse, dichiarando che avrebbe portato lei avanti le trattative al posto del giovane dio.
La cosa non piacque molto a nessuno, tuttavia il giovane, che si era presentato come Jon Snow non protestò, e loro non potevano avanzare nessuna pretesa. Così adesso aspettava nelle sue stanze la fine delle trattative, sperando che le condizioni imposte non fossero troppo severe. Un pio desiderio, sapendo fin troppo bene che come perdenti non hanno diritto nemmeno a sperare, il loro destino è interamente nelle mani dei vincitori.
Mentre si preoccupa delle conseguenze della loro disastroso campagna su Planetos si trova nella sua stanza. Ha smesso di condividere il talamo nuziale con Giove millenni prima, e lui non se n'è mai preoccupato le rare volte che gli è capitato di presentarsi nei suoi alloggi e non giacere con qualche altra donna.
É la stanza di una dea, costruita interamente in marmo e altri minerali preziosi. Perfettamente in tema con il resto degli edifici sull'Olimpo. Non la montagna originale, ma dove hanno costruito il loro pantheon. Un luogo che li segue ovunque desiderano, ed adesso si trova ad ospitare i loro nemici.
Un stanza degna di una dea, ma non di una regina. Una regina dovrebbe avere alloggi enormi, con servitori ovunque che la servono e la riveriscono. Almeno così è sempre stato per le regine mortali. Allora perché lei è sola a guardarsi allo specchio in una stanza decisamente modesta per l'Olimpo? Infatti negli ultimi migliaia di anni ha vissuto lì. Letto, armadio, scrivania e poco più. Mosaici di pietre preziose e affreschi decorano la camera, e due sculture di pavoni sorvegliano lo specchio a figura intera che incornicia la sua figura impeccabile.
I suoi occhi scattano in alto e in basso, alla ricerca di difetti, tuttavia non ne trova. La sua non è vuota vanità, ma la più semplice delle verità. Nonostante siano passati migliaia di anni dalla sua nascita la sua bellezza è rimasta intatta nel tempo. Lunghi capelli violacei, dello stesso colore dei suoi occhi, macchiati però da sfumature caleidoscopiche. Pochi fermagli variopinti le tengono le ciocche in posizione, rispettando l'acconciatura con cui si adornò la mattina. Alta, per essere una donna, grazie alle sue lunghe gambe, qualcosa che le sue figliastre, e perfino alcuni figliastri, le hanno sempre invidiato, la sua capacità di torreggiare su di loro durante le conversazioni. Seni rigogliosi, vita stretta e culo prominente. Ancora adesso con la sua figura solo Afrodite poteva rivaleggiare, e solamente in quanto dea della bellezza.
Non che ne sia orgogliosa, dopotutto la sua rovina è stata causata proprio dal suo aspetto.
Sospira, concentrandosi sul suo legame con Giove. Qualcosa che il re degli dei non si è mai preoccupato di approfondire, tuttavia le permette di sapere lo stato d'animo di suo marito in ogni momento. È arrabbiato, lo è da quando hanno perso, se lo aspettava, le dispiace per la sfortunata su cui sfogherà le sue frustrazioni. Giove è sempre stato nella migliore delle ipotesi un amante rude, e quando è in quello stato d'animo… non che l'abbia mai sperimentato, tuttavia ha assistito al processo. La poverina giaceva morta quando ha finito. Non dimenticherà mai la scena, e il momento in cui capì che sua marito non è migliore del loro padre.
Percepiva però un'altra cosa oltre alla rabbia, quasi sollievo, e forse un pizzico di felicità. Si chiese cosa potesse significare quando sentì il richiamo del re degli dei. Fa così quando vuole indire una riunione. Le trattative sono finite, e sembrano essere andate meglio del previsto.
Si diede un'ultima occhiata, sistemando il lungo abito che indossa. Bianco con finiture dorate, una striscia di tessuto che le si appoggia al collo e le scende sul petto, incrociandosi sul suo seno. Le lascia la schiena e le spalle scoperte, coprendole la parte inferiore del corpo, fermandosi ai suoi piedi, protetti da un paio di sandali. Alle braccia non indossa nulla se non per un paio di bracciali a spirale portati all'avambraccio, entrambi dai colori dorati.
Assicuratasi che fosse impeccabile si presentò nella sala del consiglio. Volle e accadde, questo può in quanto dea.
Si ritrovò seduta direttamente sul suo trono, un tripudio di argento e pietre preziose. Una splendente coda di pavone le funge da schienale, su cui si appoggia comodamente, posando le mani sui braccioli, che terminano in magnifiche teste di pavone. Le finiture sono talmente realistiche che al contatto sembra di accarezzare l'animale in carne e ossa. Naturalmente il suo trono, come quelli del resto del consiglio, é stato realizzato da suo figlio Vulcano.
Efesto lo chiamò all'epoca, uno dei suoi più grandi rimpianti. Una sera Zeus venne nei suoi alloggi, chiaramente frustrato, e si sfogò su di lei. Non fu violento, non abbastanza da renderlo doloroso, ma nell'atto non ne ricavò nemmeno il pizzico di piacere che cercava di trovare ogni volta che si univano. Una volta finitole dentro si rivestì e se ne andò, senza rivolgerle la parola nemmeno una volta. Trascorse il resto della notte a piangere, ed una volta arrivata la mattina volle assicurarsi di interrompere la gravidanza, se il suo seme avesse attecchito. Glielo impedì, e così fu costretta a portare in grembo il frutto di quella violenza. Nacque deforme, non che la cosa le importasse, al contrario di quanto i mortali furono portati a credere poi. Per lui provava amore, anche se macchiato da risentimento. Non poteva fare nulla per fermare quella sensazione amara che le si formava in gola ogni volta che lo vedeva, le ricordava quella notte, e nulla avrebbe potuto cambiarlo.
Zeus lo venne a trovare solamente mesi dopo il parto, e ne fu talmente inorridito che lo rinnegò come suo figlio e lo scaraventò giù dall'Olimpo. Successivamente diffuse voci tra i mortali su come lei abbia cercato di avere un figlio da sola, come ripicca per tutte le sue amanti. Per questo motivo nacque deforme, e inorridita da ciò che aveva creato lo gettò via, come si fa con gli escrementi. Lei sa che non è vero, ha ricordi di ciò che è accaduto realmente. Ricorda di quella notte. Eppure ha ricordi anche di se stessa che prova a rimanere incinta nella solitudine della loro camera e ci riesce, e di lei che lo lancia dalla finestra una volta partorito.
Tale è il potere che hanno i mortali sugli dei.
Efesto deve avere gli stessi ricordi, perché nonostante tutte le sue spiegazioni e le sue suppliche si rifiuta di perdonarla o di riconoscerla come madre.
Deve essere stata l'ultima ad arrivare, perché una volta accomodata tutti gli occhi furono puntati su di lei. Il giovane dio sembra guardarla con compassione, mentre la sua compagna, Vhagar si presentò, le sorrideva scherzosamente, come se avesse appena fatto uno scherzo che comprese solo lei.
Cercò di guardarsi intorno, stranita dalle loro espressioni, quando Giove cominciò a parlare.
"Ora che siamo tutti qui riuniti possiamo iniziare…"
"Finisci in fretta, non abbiamo tempo da perdere." Ad interrompere il re degli dei fu la dea straniera, che lo guardò infastidita. Giove parve visibilmente irritato dall'interruzione, tuttavia obbedì comunque alle sue parole.
"Hanno esposto i loro termini per la nostra resa e ho accettato a nome dell'Olimpo." Le parole le parvero amare, e ancora di più lo furono per Giove a giudicare dal tono con cui le disse.
"Allora, cosa hanno richiesto?" Vedendo che non continuava a parlare lo incalzò, incuriosita. Cercò di rispondere ma fu nuovamente interrotto.
"Tu. Abbiamo chiesto la regina come dono per Jon, qui. È l'unico che ha combattuto, quindi sarebbe ingiusto se il resto del nostro pantheon prendesse una parte del bottino. È l'ultimo arrivato in famiglia, ed è troppo cupo. Speriamo che un po' di compagnia femminile lo possa allietare. E chi può farlo meglio di una regina?" Sorrise felice quando lo disse, in attesa di una sua reazione. Reazione che si fece attendere. Ci mise del tempo per comprendere le sue parole, ma quando lo fece non capì perché Giove non avesse attaccato, dopotutto era sua moglie, e sebbene la loro relazione fosse morta tempo fa la dichiarazione della straniera, in casa loro, era comunque un affronto nei suoi confronti.
Aspettò, ma l'atteso accecante lampo e conseguente rombo di tuono non arrivarono mai, così si voltò a guardarlo, solo per sorprenderlo a fissarla. Il suo volto sembra marmoreo a prima vista, tuttavia lo conosce troppo bene, vede immediatamente l'arricciamento ai lati delle sue labbra, e sente la crescente gioia nel loro legame.
Ah, adesso capisce, è felice perché ha trovato un modo per sbarazzarsi di lei.
"Chiedo una votazione. L'espulsione di un membro del consiglio deve essere decisa per maggioranza." Vuole che le sue parole risultino chiare e decise, tuttavia lei stessa può sentire l'incertezza nel suo tono e il tremolio della sua voce, sul punto di incrinarsi.
Distoglie lo sguardo da Giove, che adesso sorride apertamente, solo per vedere la stessa espressione compiaciuta sul volto dei suoi figli. Pensava che l'avrebbero sostenuta, sebbene abbiano sempre litigato e abbiano cercato di uccidersi a vicenda sarebbero dovuti rimanere uniti contro gli stranieri
Guarda i suoi figli, Marte distoglie lo sguardo, mentre Vulcano la fissa impassibile, non si crogiola nella sua miseria ma non parla nemmeno a suo favore. Si volta verso Nettuno, che la guarda visibilmente contrito, ma ignora le scuse nascoste nel suo sguardo e si rivolge a sua sorella maggiore, Cerere, che sta ora piangendo in silenzio.
Quindi è così. Hanno già votato e deciso per la sua destituzione. Ora glielo stavano solo comunicando.
"Giunone, per il potere conferitomi in quanto sovrano degli dei, rompo qualsiasi legame che tu abbia con l'Olimpo e con i suoi abitanti, o con qualsiasi associato ad essi." La sentenza gli giunge lontana, ovattata, la sente a malapena. Percepisce però il legame che ha con suo marito scomparire, e ciò che la lega all'Olimpo spezzarsi.
Il trono scompare sotto di lei, e cade a terra. Si regge con le braccia, e il vestito le si strappa nel processo, mostrando le sue gambe. Non che le importi, e a questo che è stata ridotta, un premio, uno scaldaletto. Sente le orecchie pulsare. Un rimbombo nel petto che diventa sempre più forte, fino a quando una sensazione di calore la avvolge. Alza lo sguardo, per vedere che il giovane dio l'aveva coperta con il folto mantello in pelliccia nera che indossava.
Si fissano per qualche secondo, e solo ora nota gli intensi occhi grigi del giovane dio. Abbastanza scuri da poter passare per neri. Poi si inginocchia e la sostiene, sussurrandole all'orecchio. "Avvolgiti bene, dove stiamo andando farà molto freddo." Ah, uno sconosciuto si preoccupa per le sue condizioni più di coloro che dovrebbero essere la sua famiglia. È troppo per lei, che sviene sullo straniero.
Le divinità non dormono, non ne hanno bisogno. Scelgono di estraniarsi dalla realtà per un periodo di tempo, tuttavia mantengono ancora attivi i sensi. Scelgono solo di ignorarli. Quando svenne nella sala dell'Olimpo non ha effettivamente perso conoscenza, scelse tuttavia di scollegarsi dalla realtà, sperando che fosse solo un sogno, o un incubo.
Non funzionò.
Il tumulto di emozioni che le cresceva dentro si faceva sempre più aspro. La delusione di essere abbandonata era troppo da sopportare, quindi invece si concentrò su ciò che accadde al suo corpo. Il giovane dio non cercò di svegliarla, ma la prese tra le braccia e la fece accoccolare al suo petto, un braccio sotto la sua schiena e l'altra sotto le gambe. Rassettò il suo mantello in modo che la avvolgesse. Una volta sistemata ritornò dalla sua compagna, e subito dopo poté sentire il familiare schiocco del trasporto istantaneo.
Fu assalita dal freddo intenso. Mai, né come Hera né come Giunone, aveva sopportato una temperatura tanto glaciale. Cercò conforto nell'abbraccio del giovane dio, che la strinse ancora più a sé, notando il suo tremore involontario. Nonostante ciò il vento le parve un coltello che le scorticava il volto, e ben poco poté il mantello di pelliccia contro quel gelo, che le si infilò fin sotto la pelle, penetrandole le ossa.
"Ti abituerai con il tempo a goderti il tenero abbraccio dell'estate." Rabbrividì alle sue parole, sperando che fossero soltanto una menzogna. Se quella fosse veramente l'estate, allora che dire dell'inverno?
Si ritrovarono in un giardino, nonostante la temperatura glaciale per terra c'era soltanto un sottile strato di neve, e anche il piccolo laghetto non dava segni di congelamento. A proteggere quel posto dal freddo è l'albero immenso situato al centro del giardino. Un volto piangente scolpito nella corteccia, direttamente collegato alle falde acquifere dell'entroterra, troppo in profondità perché possano essere di alcuna utilità per il posto senza la divinità dell'albero.
Poté sentirla, la divinità emessa dall'albero, che permea l'intera zona, antica e immobile. La percepisce anche dal giovane, dove si fonde con un'altra energia, la stessa che proviene dalla donna, densa ma vivace, come il fuoco di una stella, che però si scontra con la divinità esterna. Non rifiutandosi a vicenda però. Curioso.
Percorsero il sentiero acciottolato finora escluso dall'avanzata della neve e del fango fino all'entrata dell'immenso castello. Sebbene non grandioso come l'Olimpo, la costruzione dà la stessa sensazione dell'albero, inamovibilità. Come se fosse nato con il mondo, avendo vissuto più di chiunque altro, e vivrà per sempre, morendo infine solo quando il pianeta stesso cesserà di esistere.
Una volta dentro attraversarono ampi corridoi. I servi li salutarono rispettosamente, o almeno lo fecero al dio, ignorando totalmente la donna, non potendola vedere. Jon prese il comando e si diresse verso un'umile camera, anche per standard mortali.
"Non capirò mai il tuo attaccamento verso questo posto. Dovresti prendere la stanza migliore che questa umile dimora possiede. Non sei più un semplice uomo, ma un dio. Non devi farti condizionare dal tuo passato di bastardo, adesso non significa nulla."
Sospirò mentre la poggiava sull'unico letto della stanza, appena sufficiente a contenerla, e solo dopo rispose.
"Non si tratta di attaccamento, ma di rispetto."
"Rispetto per chi?" La risposta della donna uscì particolarmente velenosa, il fuoco del camino scoppiettò in accordo.
Si fissarono per qualche attimo, nessuno dei due disposto a cedere. "Per Jon Snow." "Adesso non sei più Jon Snow però, non è vero?" Lo disse sbuffando, prima di sedersi sull'unica sedia della stanza, proprio accanto al braciere crepitante, accavallando una gamba sopra l'altra.
"Allora, Jon Snow, so che hai dei dubbi, quindi chiedi."
"Perché?"
"Perché cosa, Jon Snow, spiegati meglio."
"Avresti potuto prendere qualsiasi cosa. Avresti potuto prendere perfino quel loro pantheon, sarebbe stato utile dato che Valyria non esiste più. Perché hai scelto lei?" Nonostante la derisione che poté sentire quando la donna pronunciò il suo nome il giovane rimase imperturbabile. Nemmeno un'emozione gli sfuggì mentre parlava.
"Tsk, lo sai benissimo perché. Non fai parte del pantheon valyriano, e di certo non ti assimili a questi dannati alberi. I sette stanno consumando il tuo territorio, lentamente, ma entro pochi millenni la tua divinità si estinguerà. La devi rinforzare. Non vuoi prendere adoratori, lo rispetto. Quegli insetti sono fin troppo volubili. Quindi per volere del consiglio di Valyria e degli antichi dei la prenderei in moglie, sposandola nell'anima e nel corpo:"
Giunone non capì metà delle cose che disse, tuttavia afferrò il concetto di base. Il giovane dio, Jon Snow, stava esaurendo la sua scintilla divina. Qualcosa che ottiene ogni mortale divenuto dio, ciò che li fa mutare, elevandoli. Senza di essi morirebbero, ritornando umani.
"Per ottenere l'approvazione il voto del consiglio deve essere votato all'unanimità."
"Non fraintendere. Ti abbiamo elevato a Fiamma di Valyria, è vero, ma non fai parte del consiglio."
Si fissarono per qualche attimo, la tensione palpabile, prima che la dea sbuffasse, riprendendo poi il discorso. "Come marito e moglie le vostre divinità saranno collegate, quindi la tua scintilla otterrebbe nutrimento costante. Se desideri potresti addirittura ricambiare, arrivando a nutrire la sua divinità a tua volta, dopotutto le vostre divinità sono particolarmente compatibili. Ciò ha convinto persino Shrykos nonostante abbia sempre messo il tuo volere davanti a tutto."
Avendo visto che non avrebbe ottenuto ulteriori opposizioni dal giovane dio uscì dalla stanza, solo dopo affermato un'ultima cosa. Senza arroganza questa volta, tuttavia con un senso di finalità. "Informerò tua cugina di non far entrare entrare nel bosco degli dei, e di lasciare la camera matrimoniale libera per questa notte. Domani partirete per la Barriera, Aegarax ti sta sostituendo, ma è ora che torni ai tuoi doveri."
Aprì gli occhi non appena sentì la porta chiudersi, solo per vedere il giovane dio che la osservava a sua volta.
"Quanto hai sentito?"
"Tutto." Sospirò, passandosi una mano tra i capelli, sedendosi poi sulla sedia. Lo sguardo rivolto al fuoco
Dubita che avrebbe iniziato la conversazione tanto presto, quindi decise di parlare lei, curiosa. "Quali sono i tuoi doveri?"
Si voltò ad osservarla per un attimo, distogliendo subito lo sguardo però. "Pensavo ti saresti messa a urlare o a piangere. La maggior parte delle lady del sud l'avrebbe fatto."
"Non sono una lady del sud, e non sarebbe la prima volta che vengo forzata in un matrimonio, quantomeno non sarò obbligata ad amarti." Per un istante sembrò indeciso, volendo chiederle cosa intendesse con la sua risposta, ma alla fine non diede voce alla su curiosità. Osservò la battaglia mentre si accomodava sul letto, indossando la pelliccia come tale, invece che come una coperta.
"Il mio dovere è quello di sorvegliare la dea dei camminatori bianchi imprigionata nella Barriera. Una volta sposati ci dirigeremo lì." Annuì alle sue parole, quindi la Barriera sarebbe stata la sua casa d'ora in poi. Avevano studiato attentamente il territorio che avevano in piano di conquistare, e ricorda fin troppo bene quella mostruosità di ghiaccio e magia, e ciò che custodisce. Almeno non sarebbe stata costretta a sopportare il disprezzo degli altri dei. Perché non ci sarebbe stato nessuno a poterla disprezzare, e il suo futuro marito non l'avrebbe mostrata direttamente, l'animosità nei suoi confronti, se ne avesse. Forse è proprio ciò che le serve, pace e tranquillità.
Le sue riflessioni furono interrotte dall'apertura improvvisa della parte, che sorprese entrambi. "Zia Sansa ha detto che tu conoscevi mia madre, è vero?" A parlare fu un bambino dai capelli biondo miele, i suoi speranzosi occhi grigi si rivolsero a Jon, rimasto immobile, quasi intimorito. Si accorse allora che i due hanno lo stesso colore degli occhi, e si assomigliano molto.
"Allora, la conoscevi o no?" Il bambino sembra essersi spazientito, perché questa volta lo disse irritato, cosa che sembro svegliare il giovane dio.
"Perché lo vuoi sapere?"
"Zia Sansa e nonno Davos mi parlano sempre di mio padre, tuttavia non sanno molto di mia madre. Quindi la conoscevi o no?"
"No, mi dispiace, non la conoscevo." La speranza si estinse di colpo dagli occhi del bambino, che si asciugò le lacrime che minacciano di cadere.
Solo in quel momento sembrò accorgersi della sua presenza, seduta sul letto. La guardò con la bocca aperta, stupito, prima di correre verso di lei, fermandosi davanti a lei. Si protese in avanti, allargando gli occhi, e alzandosi sulle punte dei piedi per avvicinarsi il più possibile al suo viso.
Non seppe cosa dire, non capendo cosa volesse fare, quindi glielo chiese. "Cosa stai facendo?"
"Zio Tormund ha detto che mio padre ha conquistato mia madre facendo gli occhi dolci. Sta funzionando?" Non poté fare a meno di ridere alla sua risposta, accarezzandogli i capelli. Si allontanò subito infastidito, cercando di rimettersi a posto i capelli, non che fossero pettinati prima. Jon lo guardò prima esasperato e poi divertito, le prime emozioni che gli vide mostrare.
Una volta soddisfatto di sé stesso tornò a guardarla, questa volta rattristato. "Non ha funzionato, vero?"
"No, no. Ha decisamente funzionato, ma…"
"Non mentire. Sono un bambino grande, ho già sette anni, posso affrontare la sconfitta. Tuttavia sappi che la prossima volta ti conquisterò sicuramente." Una volta detto il suo pezzo uscì impettito dalla camera, solo per tornare pochi istanti dopo, facendo sporgere solamente gli occhi. "Zia Sansa mia ha incaricato di dirvi che è tutto pronto." Poi scomparve davvero.
Ci mise qualche istante a riprendersi dallo stupore, anche a Jon del resto, che una volta ripreso andò a chiudere la porta.
"È tuo figlio?"
"Sì" Non esitò a rispondere, aspettandosi quella domanda.
"Perché non gli hai detto che sei suo padre."
Sospirò prima di rispondere, evidentemente rattristato questa volta. "Divinità e mortali non possono vivere insieme, porterebbe solo sofferenza per entrambe le parti. È meglio così"
Non discusse le sue parole, riconoscendo la verità dietro le sue parole, tuttavia non sa se lei sarebbe in grado di fare lo stesso con i suoi figli. I figli che l'hanno abbandonata e hanno deciso di regalarla ad un altro pantheon.
Sembrò percepire la sua crescente tristezza, perché prese a parlare. "Vieni, ora abbiamo un matrimonio da celebrare." Le offrì il suo braccio, che accettò.
Si diressero verso il bosco degli dei, fermandosi una volta arrivati davanti all'albero del cuore. Il volto scolpito nella corteccia pallida li osserva mentre prendono posizione, protetti dalla cupola di foglie rossastre. Niente a che vedere con l'opulenza del suo precedente matrimonio, tuttavia in qualche modo si ritrova a non disdegnare la semplice atmosfera. Lungo il tragitto le aveva spiegato cosa sarebbe successo. Un matrimonio è il modo con cui i mortali fanno riconoscere la loro unione agli dei, ma loro in quanto divinità non hanno bisogno di tutto ciò, quindi uniranno le loro anime e divinità. Senza voti o promesse inutili, dopotutto stanno semplicemente adempiendo al loro dovere, lui come guardiano della Barriera e lei come bottino di guerra.
Rimasero in piedi, una di fronte all'altro, e cominciarono a declamare le inviolabili parole per unire le loro anime. Non l'aveva fatto nemmeno con Zeus. quando si sposarono, e adesso si stava vincolando indissolubilmente ad un completo sconosciuto.
"Io, Daemon Targaryen, quindicesima Fiamma di Valyria, araldo degli antichi dei, dio della resilienza e patrono degli irriducibili sofferenti, mi unisco, anima e corpo, nel sacro vincolo del matrimonio a te, Hera."
"Io, Hera, dea del matrimonio, patrona delle donne e della maternità, mi unisco, anima e corpo, nel sacro vincolo del matrimonio a te, Daemon Targaryen."
Con un coltello si fecero a vicenda un taglio sul palmo della mano sinistra, la più vicina al cuore. L'icore dorata si fuse al sangue cremisi dalle sfumature argentate del suo consorte. Controllarono le loro divinità, legandole, fondendole. E quando il processo finì si poté finalmente rilassare. Non essere parte di un pantheon è una condanna peggiore della morte per una divinità. Sono immortali e possono compiere imprese prodigiose, tuttavia anche loro hanno bisogno di una forma di sostentamento. Il loro nutrimento è il pantheon. Senza di esso scomparirebbero, non letteralmente, tuttavia la loro divinità smetterebbe di reagire all'ambiente esterno. Diventerebbero fantasmi, non potendo interagire con niente e diventando invisibili a tutti. Continuerebbero a vagare per l'eternità in un limbo, senza poter fare nulla, perché una volta reciso il legame con il pantheon non si può risanare.
Zeus non ha condannato a questo supplizio nemmeno il loro padre, eppure lo ha riservato a lei. Zeus e il resto del consiglio. Perciò si legò velocemente al giovane di fronte a lei, Daemon Targaryen è il suo vero nome. Nome che non ha conosciuto per la maggior parte della sua vita, e che ancora adesso non utilizza. E adesso può finalmente tirare un sospiro di sollievo, tranquillizzata dalla familiare sensazione che la lega al giovane davanti a lei, e in misura minore al loro pantheon, che adesso può percepire, a nord. La sua nuova dimora comprende la Barriera e le terre circostanti.
I nomi delle divinità sono potere. Conoscere il vero nome di un dio ti permette di conoscere ogni aspetto della sua divinità, di comprenderne ogni sfumatura. Gli dei che conoscono il suo vero nome si possono contare sulle punta di una mano. Le sue sorelle e fratelli. Se lo dissero quando ancora erano dentro lo stomaco del loro padre, l'unica volta in cui lei lo pronunciò. Rifiutò di farlo conoscere a Zeus, respingendo la sua supplica anche nel periodo in cui furono felici. L'unico periodo, in realtà, in cui gli sia importato di conoscere il suo vero nome.
Una volta finito poté sentire le sue emozioni, cosa che dubita sapesse, e che comunque non avrebbe scoperto da lei. Può percepire molte cose provenienti da lui, rimpianto, tristezza, amarezza, tuttavia solo un'emozione è rivolta a lei. Risolutezza. L'unica emozione che può anche vedere nel suo sguardo.
Finita la cerimonia si diressero verso la camera da letto. Questa volta presero un'altra strada, avviandosi verso una stanza decisamente più grande, e suo malgrado deve dare ragione a Vhagar. Grande Inverno è un posto umile, almeno per loro divinità. La stanza è più grande e più accogliente, ma rimane comunque deludente. Non si avvicina nemmeno alla grandiosità dell'Olimpo, o anche solo all'opulenza di alcune opere mortali che ha visto.
Non fa trasparire la sua delusione però, e mentre Jon chiude la porta si spoglia nuda. Non ci vuole molto, la pelliccia e il vestito che indossava si sono tolte con un solo movimento, cadendo a terra. Quando si volta a guardarlo lui la stava già scrutando. Beve ogni angolo del suo corpo e solo dopo si sofferma sul suo volto. Ogni volta che la vedeva nuda da Giove poteva percepire una compiaciuta soddisfazione, come se avesse finalmente ottenuto il premio che tanto bramava, mista a lussuria ovviamente. Meschina lussuria.
Ciò che percepisce dall'uomo di fronte a lei però è altro. Fame. La più primordiale delle emozioni. Cruda fame. Di lei. Può sentirla avvolgerla da tutte le parti. Il suo desiderio di banchettare con la sua carne, di fare suo ogni parte di lei. Non ha mai provato nulla di simile prima, e la fa scaldare fin troppo velocemente. Il calore le sale dal basso addome, diffondendosi in ogni parte di lei, provocandole la pelle d'oca ovunque passi.
L'incantesimo dura pochi attimi però. Si ricorda delle sue precedenti esperienze, e la delusione le cade addosso. La sua fantasia uno specchio in frantumi, può sentirlo rompersi. Spera solo di ricavare un minimo di piacere.
Le si avvicina, dopo essersi spogliato a sua volta, ci mette più tempo di lei, abbastanza tempo da permetterle di godersi lo spettacolo, godendosi il fisico di suo marito. Non è immenso o statuario, ma può apprezzarlo comunque. Ha costruito il fisico di un guerriero, come testimoniano le numerose cicatrici lungo tutto il suo corpo. Le più importanti sette pugnalate sul petto e sull'addome. Le vede per la prima volta, e avrebbero dovuto farle ribrezzo, tuttavia invece la attraggono, stupendo perfino se stessa.
Le si ferma davanti, abbastanza vicino da poter sentire il suo respiro sulla sua pelle. La sovrasta, nonostante la sua altezza. Non in maniera spropositata, ma a sufficienza perché debba alzare il volto per guardarlo in viso. Lo sfida, se pensa che possa intimidirla allora si sbaglia di grosso.
Continuano a osservarsi, mentre sente la sua fame crescere ogni istante di più, e suo malgrado il calore da cui si era liberata ritorna più feroce di prima, non lasciandola andare questa volta. Si avvicina per baciarla, lentamente, quasi a sfidarla a fermarlo, ma non lo fa, così le loro labbra si toccano.
Si ritrova a godersi il bacio più di quanto immaginava. Diventarono sempre più aggressivi, divertendosi a lottare con la lingua. Non cercò il dominio del loro bacio, e lei non glielo cedette. Cercò di abbassarlo per mettersi più comoda tuttavia lui la prese per le cosce e la sollevò. D'istinto si aggrappò a lui, avvolgendogli le braccia attorno al collo e le gambe intorno alla vita. Le sue mani passarono dalle cosce al sedere, giocandoci a suo piacimento. Gli morse il labbro per ripicca, abbastanza forte da far uscire poche gocce di sangue, tuttavia non la mollò. Così mentre sentiva il suo seno sfregarsi con il suo petto fu costretta ad assaggiare il suo sangue.
Neve, il suo sangue ha il sapore di neve.
Si tirò indietro mentre lui li fece cadere sul letto. Non allargò la presa su di lui però, così le afferrò i capelli appena sopra il collo e le tirò indietro il capo. Colse l'occasione e si tuffò sul suo collo. Tentò di trattenerli ma alcuni gemiti le scapparono lo stesso mentre spostava la sua attenzione sui seni. Le tenne le braccia bloccate ai lati del volto mentre banchettava con i suoi seni. Morde, succhia e lecca ogni singolo punto, ora dal seno destro ora da quello sinistro.
Una volta saziato le afferra le cosce e mentre è distratta dal suo incessante attacco le allarga le gambe. Continua a scendere, nulla ad ostacolarlo questa volta. Ad ogni bacio che lascia dopo essere sceso un po' può sentire il pulsare incessante del suo fallo che si allontana, fino a scomparire totalmente.
Cade fino ad avere il volto sulla sua femminilità. La guarda, sapendo fin troppo bene cosa anche solo il suo respiro le stia provocando. E solo dopo essersi goduto la sua vista piagnucolante il volto scomparve alla sua vista, e subito uno strillo poco dignitoso le uscì dalla bocca.
Si ritrovò a stringere la coperta su cui si stendono mentre scava sempre più in profondità. La schiena le si inarca ad ogni colpo che le arriva. La sua lingua sembra magica, e ad ogni leccata, ad ogni suzione si ritrova sempre più vicina a venire. Lo sente arrivare, lo implora, nella sua mente, almeno spera che non lo stia supplicando ad alta voce. Le sferzate arrivano ogni secondo, fino a ritrovarsi sull'orlo. Un colpo, le basterebbe un solo colpo lì, in alto, dove li può sentire molto di più. Prega che arrivi, ma non lo fa mai.
Si alza per vedere perché si sia fermato, solo per essere fermata e rigettata sul letto. Il ghigno compiaciuto che Jon le regala la fa irritare. Cerca di alzarsi, di afferrarlo, per bloccarsi quando lo sente, che sfrega su di lei. Perde un attimo per tornare a guardarlo, così lui inizia ad entrare dentro di lei, lentamente. Il mancato orgasmo la fece irrigidire, così poté sentire l'incessante pulsare del suo fallo. Ringhia nel suo orecchio ad ogni parte che entra. Gli serra le braccia intorno al collo e gli fa sprofondare il volto sul suo collo, dove ricomincia ad adorarla.
Le si soffoca il fiato in gola una volta che i loro bacini si scontrano. Anche lui si ferma, l'unico rumore è il loro respiro affannoso. Una volta leggermente più calmi lui si alza, la guarda. Si abbassa per baciarla, e quando riprendono la loro lotta le prende le braccia e gliele blocca nuovamente sopra la testa, ancorate al letto. Lotta in ogni modo possibile, si dimena, gli morde la labbra, ma l'unica cosa che ottiene sono le sue risate.
Tutto cambia quando inizia a muoversi. Esce da lei con calma, e sempre lentamente si infila nuovamente dentro di lei. Ricomincia il ciclo, esce e spinge, esce e spinge, esce e spinge. Ad ogni spinta accelera, le sua gambe che lo avvolgono nuovamente. Questo gli rende più difficile il movimento ma comunque non demorde. Continua il suo assalto. Tutta la notte.
Non sa quante volte raggiunse l'apice quella notte. Si perse nelle fragorose ondate di piacere che continuavano ad arrivare. Non che non abbia mai affrontato un orgasmo, tuttavia anche solo raggiungerne uno a notte sarebbe bastato a rendere la sessione un successo. Cosa che accadeva meno di quanto le piacesse ammettere. Sa solo che si sono fermati solo una volta che non ebbero più bisogno di usare le candele per potersi vedere a vicenda.
Così si ritrovò ad ammirare lo spettacolo che fece del corpo di suo marito. Si stese su di lui, il suo braccio a farle da cuscino mentre le accarezza i capelli. I numerosi segni sui loro corpi il ricordo di quanto siano stati selvaggi. Di tutte le cose che ha fatto. Cose che non pensava avrebbe fatto, di cui però non riesce a pentirsi.
A volte è stata sotto, a volte è stata sopra. Altre volte ancora Jon scendeva a leccarle la femminilità, e si è ritrovata a contraccambiare il favore, più volte. L'ha baciato, leccato e succhiato. L'ha adorato con tutta se stessa, e non può non ammettere che lo rifarebbe nuovamente, più che volentieri.
La sensazione che però la sconvolse più di tutti fu il nutrimento che ricevette dall'accoppiamento. Non lo ricevette lei direttamente, quanto piuttosto la sua divinità, che può sentire essere cresciuta, rendendola più forte, come quella di suo marito. Le piace il suono che fa, suo marito.
Ha scoperto di poter condividere le emozioni attraverso il loro legame. Dapprima li confuse, tuttavia presto si abituarono, e il risultato fu che trovarono molto più facilmente i punti deboli l'uno dell'altra, il piacere accresciuto di parecchie volte.
Fece scivolare la mano lungo lo stomaco di Jon, scendendo, fino ad arrivare al suo inguine. Si fermò un attimo, percependo lo sguardo di suo marito che ha seguito ogni suo movimento. Solo dopo aver deciso di averlo fatto penare abbastanza prese il suo fallo in mano, cominciando ad accarezzarlo. Su e giù, su e giù. Si rianimò fin troppo velocemente.
La mano che aveva tra i capelli smise di accarezzarla. Decise di stuzzicarlo ulteriormente, allora spostò la mano sull'apice, cominciando a stuzzicare quella zona. Il respiro di Jon si fece più affannoso e pesante, quindi si mosse più velocemente, di più, sempre di più, fino a quando non lo sentì pulsare nella sua mano, ad un soffio dal venire.
Si fermò. Il gemito frustrato che lasciò le labbra di suo marito la divertì particolarmente, tuttavia in quel momento ciò che vuole non è ridere. Si girò, e una volta avuta la sua completa attenzione prese a parlare, dicendo qualcosa che fino al giorno prima non avrebbe mai pensato di voler dire.
"Jon Snow, voglio farlo un'altra volta." Il sentimento di fame che percepì dal loro legame fu l'unica risposta di cui ebbe bisogno.
