Ha appena il tempo di bussare alla porta che si ritrova davanti le facce di Lucas e di Sandra, e non sono facce amichevoli, proprio per niente. Sospira desolato.

«Del cibo però l'ho trovato» prova, incerto e scoraggiato.

«Una gran vittoria» commenta Sandra con sarcasmo. «Certo, sei sparito dalla circolazione per più di quattro ore… È possibile sapere dove diamine ti eri cacciato?»

Hutch sposta lo sguardo da Sandra a Lucas, poi da Lucas a Sandra. Si imbroncia. «Sono andato da Pedro, come mi avevi detto, ma lui non aveva nulla e mi ha indicato un frate al convento dei domenicani. E così ci sono andato a questo convento, ma a piedi è lontano il posto, e io il cavallo non ce l'ho, e nemmeno un carretto con l'asinello o anche il solo asinello. Così, vedi, ci ho messo un bel po' di tempo per andare, parlare con il frate e poi tornare. Ma il cibo l'ho portato, però» insiste cocciuto, aspettandosi almeno quel riconoscimento.

Lucas sospira e si massaggia una tempia. Sandra fa roteare gli occhi, esasperata. «L'ho notato, sciocco. Spero che il tuo ragazzino ci sia ancora. In casa non s'è visto, quindi o si trova in camera oppure è fuggito dalla finestra. Ti conviene accertarti di persona di quel che ne è stato.»

E quella sembra proprio una minaccia alle orecchie di Hutch. China la testa, remissivo, e accetta di buon grado l'ennesimo ordine. Tanto alla fin fine ci è abituato. A nessuno interessa davvero ascoltare le sue ragioni, anche quando sembrano del tutto ragionevoli.

«Con permesso» borbotta, superando i padroni di casa e raggiungendo l'uscio che lo riporterà dal piccoletto.

Sempre ammesso che ci sia ancora e che non si sia stancato di aspettarlo. Oppure non ha mai neppure preso in considerazione di credere alle sue promesse campate per aria e se l'è data a gambe trenta secondi dopo che Hutch ha imboccato la via d'uscita per parlare con Pedro. Diavolo, spera proprio che non sia andata così, perché in quel caso lo avrebbe perso per sempre, indipendentemente dal fatto che sopravviva o meno a quello stupido paese.

Ma di nuovo si sta fasciando la testa prima di essersela rotta. Molto male! Arrivato di fronte alla porta chiusa tentenna, si mordicchia una guancia e infine, con cautela, bussa e poi piano socchiude l'uscio. Lui è lì (grazie al cielo!) e lo sta fissando. I suoi occhi affilati sono più grandi del normale e non c'è la solita luce di puro, crudo sospetto. C'è qualcosa d'altro che Hutch non sa bene come interpretare.

«Sei tornato» soffia la sua voce, titubante.

Hutch aggrotta la fronte. Pensa. D'accordo, è chiaro che non ci aveva scommesso un solo centesimo sul fatto che avrebbe mantenuto la parola. Probabilmente dovrebbe sentirsi offeso. Ma, del resto, come potrebbe? Il piccoletto è diffidente, l'ha ben dimostrato in svariate occasioni, e pretendere che dia credito ai suoi buoni propositi non avrebbe alcun senso. Però sta lavorando per crearsi dei rimarchevoli precedenti, sperando che ne tenga conto.

Sorride, innanzitutto, perché intende provare a essere amichevole, e anche perché ha il sospetto che non ne abbia visti molti, durante la sua esistenza, di sorrisi. Si chiede se abbia idea di come si faccia a produrne uno. L'unica cosa vagamente somigliante che gli ha visto in volto è stata un vago sogghigno amaro. Se mai arriverà il momento, magari glielo chiederà (e c'è da aspettarsi che si ritroverà infilzato per tutta risposta).

«Certo che sì!» esclama allegro, o almeno provandoci. «E ti ho anche portato qualcosa. Spero che sia di tuo gusto» scherza, beccandosi di rimando un'occhiataccia di quelle sue, affilate come rasoi.

Poi i suoi occhi studiano scettici il fagotto che Hutch porta sottobraccio. Gli piacerebbe imbastire una bella presentazione teatrale e gongolare del risultato, ma il suo pubblico è particolare e non è troppo sicuro che gradirebbe l'entusiasmo che vorrebbe metterci. Con tutta probabilità lo prenderebbe per pazzo e finirebbe col fuggire terrorizzato. Quindi, usando una certa cautela, si allunga lo stretto necessario per posare il fagotto sull'angolo più lontano del giaciglio che ancora occupa e lo sospinge appena nella sua direzione.

«Ecco. Giudica tu» offre, abbozzando un altro piccolo sorriso di incoraggiamento.

Mentre il ragazzino temporeggia e studia l'offerta dell'uomo, Hutch guadagna il proprio di giaciglio e si fruga nelle tasche della giacca, recuperando qualche pezzetto di carne secca che ha tenuto da parte e addentandolo con gusto. Non sarà di certo un succulento spezzatino, ma ha un sapore decente e lo terrà occupato per i prossimi minuti, in attesa di sapere se i suoi sforzi verranno ripagati.

A un certo punto una mano piccola e sottile si fa strada nell'aria immota e un poco pesante della camera, raggiungendo il nodo di stoffa che il frate ha creato attorno alla sua pur magra concessione. Tituba, ispezionandolo con la punta delle dita, lo sospinge appena, incerto, fa scorrere il polpastrello dell'indice lungo la spessa e ruvida stoffa del convento, infine sembra decidersi: afferra un lembo del fagotto e lo trae a sé, di fronte alla sue gambe incrociate, reclina un momento il capo, come riflettendo, poi con quelle sue dita sottili scioglie il grosso nodo e scosta i lembi di tessuto. Un ansito strozzato erompe dalla sua gola e spezza il silenzio precedente, i suoi occhi si sgranano e tende una mano sul contenuto del fagotto. Si blocca prima di raggiungerlo, arriccia le sopracciglia colto dal dubbio, si mordicchia un labbro e, tentennante, si volta verso Hutch.

Hutch che è rimasto a fissarlo, in trepidante attesa di una sua mossa successiva, e ora si sta domandando quale accidenti sia il problema questa volta. Mette in moto gli ingranaggi del cervello che protestano per il sovraccarico di quel giorno e giunge alla sua personale conclusione, permettendosi un minuscolo sogghigno.

«No, non ci sono droghe dentro il cibo. Ma se non ti va, me lo mangio io. Sai, non vorrei deperire come te» lo sfotte.

Come prevedibile, in cambio si becca l'ennesima occhiataccia omicida, e in aggiunta un piccolo ringhio stizzito.

«Ehi, dicevo così per dire» si difende Hutch, suo malgrado divertito.

«Ti sarebbe utile provare a ragionare, prima di parlare tanto per dare fiato ai polmoni» lo rimbecca acido.

Hutch sorride. È un idiota, lo sa bene, ma non può farci molto in quel caso. Sta scoprendo, per lo più a proprie spese, che apprezza il suono della sua voce e il suo sarcasmo pungente. Che avesse qualche serio problema lo ha sempre saputo, ma ora ha come il sospetto che il suo serio problema abbia trovato un nuovo motivo d'essere, un piccolo e malconcio motivo che a quanto sembra non ha soltanto lo sguardo affilato, ma persino la lingua.