Silvegard, 1953

Era diventato tutto tremendamente buio, anche le luci d'emergenza erano state fatte saltare. I passi si rincorrevano velocissimi, caotici, calpestavano il rivolo d'acqua che scorreva blando nel tunnel secondario, facendo rimbombare gli schizzi in tutta la rete fognaria. Il fiato cortissimo, le gambe continuavano a correre, in modo disordinato, convulso. Le mani sudate che scivolavano lungo le pareti del tunnel per farsi strada nell'oscurità, e le voci concitate quasi divertite, che sentiva sempre più vicine.

Poi un botto assordante, e la gamba che cede perforata da un dolore bruciante. Il sangue cominciò a colare lungo il polpaccio, fino al piede, per poi mischiarsi all'acqua di fogna.

"L'ho colpito io!" ridacchiò una voce alle spalle, seguita da latrati di gioia. "Che cazzo dici, l'ho preso io quel topo di fogna" rispose stizzita un'altra voce giovanile, mentre a gran passi si avvicinavano.

"TI PREGO NO! Non stavo con loro mi serviva un lavoro!" singhiozzò, senza nemmeno voltarsi, trascinandosi il più velocemente possibile tra lacrime di terrore.

"Guarda che parla ancora!" disse un altro, inforcando la bacchetta e colpendo ancora la sua vittima sull'altra gamba.

Si levò un grido straziante, agonizzante.

E il topo di fogna non potè più strisciare. Li sentiva vicini, col loro passo giovane, pesante, violento.

Due ragazzi robusti, entrambi sui vent'anni, si chinarono su di lui e lo sollevarono con forza per la braccia, trascinandolo, tra uno scherno e l'altro, fino al primo dei condotti principali, dove l'acqua correva veloce tra due strette passatoie, e finiva in un grande filtro a un paio di chilometri di distanza.

"Disinfestatori provetti siamo! Yu-huuu!" Esultò uno dei due ragazzi mentre si portava il peso appresso.

"Se bisogna disinfestare bisogna farlo bene sennò poi tornano".

Le lacrime cominciarono a scendere copiose sulle sue guance, mentre perdeva pian piano la sensibilità delle gambe. "Vi prego non so niente, non stavo con loro, ho una famiglia, vi prego" continuò a singhiozzare, con la disperazione che si mescolava al terrore. I due ragazzi non risposero nulla, continuarono a sghignazzare fra di loro, mentre lo facevano sporgere con tutto il tronco sopra il fiume putrido. "Ce l'hai tu?" chiese uno di loro rivolgendosi a un terzo presente, "Sì, aspetta, nella tasca..".

"LASCIATEMI ANDARE VI PREG…" urlò, quando le sue parole gli morirono in gola; una mano rapida gli aveva strattonato i pochi capelli verso l'alto in un'estensione innaturale della testa, e un'altra gli aveva fatto scivolare la lama seghettata in profondità a recidirgli la giugulare. Per un momento, sentì il sangue caldo colare verso il petto, e perdersi nel vuoto sotto di lui.

"Almeno non parla più!" rise il giovane mentre scrollava il sangue dalla lama del coltello con un gesto sufficiente del polso, e gli altri due ridendo si divertivano sadicamente a vedere il fluido rosso mischiarsi all'acqua scura e maleodorante che correva sotto di loro.

Rimasero lì a godersi il frutto della caccia, a punzecchiare la loro preda in volto e sulle natiche. In loro era presente una strana euforia, un delirio di onnipotenza, che aveva con grande evidenza scavalcato qualsiasi altro sentimento potesse giacere nell'animo umano. Dopodiché, tra una risata e l'altra, si ricomposero.

"Vabbè dai…mi sono stufato, andiamo" sentenziò il boia, avviandosi verso l'uscita. Gli altri due annuirono, con una smorfia quasi delusa, per un divertimento finito troppo presto. Scossero la testa della loro vittima, come a volersi assicurare che si fosse svuotata di tutto quel sangue ritenuto di infimo valore, e poi la lasciarono cadere in acqua, con grande noncuranza.

Il Palazzo Reale era circondato da fiamme, disordini, violenza, così come tutto il resto della città di Silvegard. I vicoli si snodavano tra edifici distrutti, esercizi commerciali saccheggiati e cadaveri. Molti di questi erano stati fatti oggetto di scherno, abbandonati nelle posizioni più insolite e indecenti, trascinati a faccia in giù lungo il selciato per corromperne il volto.

Le urla, che fino a poco tempo prima si udivano distintamente dalle finestre del Palazzo Reale, si erano finalmente assopite, e cominciava a rieccheggiare nell'aria il canto cupo, violento e rozzo di chi, guidato dal suo idolo ed esempio supremo, aveva compiuto una strage mai vista prima.

Nella piazza principale di Silvegard, un uomo aveva fatto la sua apparizione. Il viso pallido, ossuto, i capelli neri unti che gli raggiungevano le spalle. Gli occhi profondi, che scandagliavano l'area circostante con paziente malizia. I suoi vestiti, sgualciti e luridi, erano macchiati di sangue in più punti. Non aveva più scarpe, e i piedi sporchi di rosso vivo suggerivano che aveva compiuto la strage tanto agognata. Nella mano, stringeva ancora salda la bacchetta, che ancora fumava dalla punta.

"VANNTHALIA è NOSTRA!" si levò nell'aria.

Alzò lo sguardo per vedere da dove si ergesse quel grido. E ne sentì un altro uguale.

"VANNTHALIA è NOSTRA! VANNTHALIA è NOSTRA!.

"VANNTHALIA AI LIBERATORI!".

Un sorriso gli si allungò sul volto, mentre allungò la bacchetta verso il cielo e ne fece fuoriuscire un raggio incandescente, luminoso, a far brillare l'aria e le fiamme che sormontavano la città ormai caduta.

"VANNTHALIA è NOSTRA!" gridò infine, lasciando uscire un lungo sospiro liberatorio, socchiudendo gli occhi, gustando la vittoria.

Silvegard era caduta. Caduta nelle mani di un liberatore, che aveva cosparso le sue strade e le sue mura di rosso vivo. Caduta per mano di un liberatore che ha creduto nella superiorità della sua razza, attraverso l'annientamento studiato delle altre.

Silvegard, la capitale del pianeta verde e azzurro che era Vannthalia, era caduta tra le fiamme rosse ardenti, che cancellavano in quell'istante ogni diseguaglianza, ingiustizia, prevaricazione. Cancellate con la distruzione massiva.

Da lontano, gli occhi di un guerriero si poggiavano con infinita tristezza su quelle immagini; scivolavano da un edificio all'altro, percorrendo ogni strada e ogni vicolo, udendo le urla di donne e uomini, assistendo alla loro disgrazia. Il respiro normale, di chi, in fondo, già sapeva. Alle sue spalle, quello più affannato di un guerriero sì forte e onorevole, ma che lasciava spazio all'empatia nelle parole che si apprestava a dire.

"Doveva andare così, Himerish?" Chiese al suo compagno.

"Sì, Endarno. Doveva andare così".

"Non abbiamo nessuno che possa dar loro un aiuto e fermare questa follia".

"Non ancora, amico mio. Ma verranno".

"Guerriere di Basiliade?".

"Non ci è dato sapere" rispose risoluto "ma verranno. E il loro compito sarà alquanto gravoso".

"Lo credo, Himerish".

"Non si può mai credere abbastanza, Endarno. Sto cominciando a capirlo adesso io stesso".