In quella notte di fine giugno la brezza notturna si addentrava nella sua camera da letto, scuotendo leggermente le tende. Le giornate erano state calde, e Nerissa dormiva con le finestre aperte, le lenzuola accumulate e schiacciate sul fondo del letto, mentre il suo corpo era coperto solo da una leggera vestaglia color azzurro che le panneggiava i fianchi e le cosce liscissime. La camera da letto di Nerissa era piuttosto ampia, una parete era completamente ammobiliata e occupata da due grandi armadi e un mobile piuttosto largo con cinque lunghi cassetti. Sulla parete adiacente c'era la scrivania, in uno stato costante di modesto disordine, con alcune pile di libri e quaderni appoggiati su di essa, insieme a una piccola lampada da lettura. Dall'altra parte, invece, c'era il letto, ampio e piuttosto morbido. Quella notte, nonostante avesse mangiato poco e leggero, Nerissa faceva fatica a dormire. Già per la seconda volta, quella settimana, un dolore profondo nel petto le dava noia e la costringeva a sudare, dandole l'impressione di avere la febbre. Si contorse fastidiosamente nel letto, mentre il contatto con il materasso diventava sempre più stringente e pungente. Il fiato diventava sempre più corto, il seno le faceva male, e i denti si stringevano come in una morsa.

Si svegliò di soprassalto.

Si mise seduta sul letto.

Si guardò intorno, cercando di riprendere fiato. Nella penombra della sua stanza, poteva vedere tutto perfettamente immobile. Fece un paio di respiri profondi, cercando di rilassarsi, e qualsiasi dolore svanì. Buttò i lunghi capelli all'indietro, esponendo vistosamente il collo, e chiuse dolcemente gli occhi. Inspirò delicatamente dal naso per lasciar andare fuori l'aria dalla bocca un altro paio di volte. Poi, avvicinò la mano al seno, e distese tutte e cinque le dita. Sul suo palmo apparve un monile, sferico e avvolto da una complessa decorazione metallica che lo proteggeva.

Il Cuore di Kandrakar.

L'oggetto più potente e ambito da tutti coloro che fossero a conoscenza della grande Fortezza dell'Infinito.

L'oggetto che la guardiana della Quintessenza era destinata a proteggere, e che conferiva grandi poteri alle Guardiane di Kandrakar.

Nerissa era stata scelta, dall'Oracolo in persona, per custodire il Cuore e guidare le guardiane nelle loro missioni per suo conto.

Nerissa lo rimirò nella sua mano, scrutandone i contorni.

Quanta potenza in un oggetto così piccolo. Quanta, la responsabilità. Quanto l'onore (o il disonore?) per portare un simile fardello.

Nerissa guardò la sua luce rosa fioca, e non poté non notare lo strano calore che emanava sulla sua pelle.

Il sole estivo brillava sui profili delle case di Silvegard.

La vita scorreva fra le strade cittadine, i suoi negozi, i suoi locali, le vie della capitale di Vannthalia brulicavano di persone affaccendate nei loro mestieri, qualche bambino giocava qua e là, e non c'era angolo che non fosse pattugliato da forze armate.

Silvegard era, da molti anni a questa parte, un esempio eccellente di rigore, ordine e controllo. La criminalità era stata debellata, nessuno poteva definirsi non impiegato in un qualche servizio utile alla società.

A Silvegard, come nel resto del Paese, non c'era nulla che fosse fuoriposto.

Il Palazzo di Giustizia, così chiamato e nient'altro che frutto delle ceneri del vecchio Palazzo Reale, sorgeva al margine del centro della città, lungo le sponde del fiume Trok che scorreva parzialmente sotto di esso.

Nel corso principale una piccola pattuglia composta da tre persone in divisa stava camminando scrutando attentamente l'attività delle persone che vi si trovavano accanto. Procedeva a passo lento, girando gli occhi ogni tanto a destra e qualche volta a sinistra, senza rischiare il minimo movimento brusco. Erano due uomini alti, robusti, entrambi sulla trentina; indossavano una divisa nera, costituita da una camicia a mezza manica, un paio di pantaloni neri piuttosto stretti e ricchi di tasche, e per finire due grossi stivali da battaglia. Non avevano quasi nulla con sé, ma facevano affiorare dall'orlo dei pantaloni una bacchetta di legno, una diversa dall'altra. Il terzo invece, che camminava di fronte a loro, era visibilmente molto più giovane: era un ragazzo, neanche diciottenne, sul metro e ottantacinque, ma molto più longilineo e meno muscoloso degli altri due. Aveva capelli neri corti e una barba non molto folta ma ordinata, gli occhi azzurri, e i lineamenti del viso velatamente spigolosi che ben si accordavano con la linea lunga del collo e quella ampia delle spalle. Diversamente dagli altri due, portava una maglietta bianca attillata, e nessuna bacchetta di legno si intravedeva dal suo vestiario.

Si fermarono di fronte all'ingresso di un bar. Con una rapida occhiata si trovarono di comune accordo e vi entrarono.

Il locale si chiamava Blue Flamingo, era un noto locale del centro che svolgeva il pieno della sua attività nelle ore serali fino alle tre del mattino. Al Blue Flamingo girava qualsiasi genere di persona poco raccomandabile, a detta di molti, e pertanto era tappa fissa dei controlli governativi. Non di rado infatti, e per più volte, aveva dovuto chiudere in via del tutto "precauzionale". Ci si poteva trovare qualunque cosa, al Blue Flamingo. Gioco d'azzardo, sesso o qualche partita di alcolici proveniente da remoti angoli di Vannthalia. Ma il problema, per il governo, non erano le prostitute, né gli ubriaconi né i giocatori. Il problema, è che di fronte ai tavoli da gioco e al bancone del bar si poteva trovare qualche anima irrequieta a fomentare le idee più rivoluzionarie.

E le forze armate di Silvegard servivano proprio a questo.

Il terzetto entrò nel locale, dove la luce era fioca e l'aria era intrisa di fumo d'ogni tipo.

Come gli inservienti li videro, cadde il silenzio.

L'impianto stereo venne spento.

Il trio si avvicinò lentamente verso il bancone, e nel frattempo uno dei due omaccioni diede una pedata a una sedia del locale, ribaltandola sul pavimento.

Il più giovane giunse al bancone, trascinò uno sgabello a sé e vi si sedette.

"Un drink con ghiaccio per favore" chiese gentilmente al cameriere. Mentre questo glielo serviva, il ragazzo si voltò verso i suoi due colleghi, facendogli cenno di controllare tutti i presenti nel locale in quel momento. Mentre venivano eseguiti gli ordini senza un effettivo scambio di parola, una donna gli si fece incontro al bancone. Era una donna visibilmente più grande di lui, forse di dieci o quindici anni. Aveva lunghi capelli castani che le cadevano sulle spalle fino alle scapole, leggermente spettinati, il viso scarno e la bocca grande che si allargò in un sorriso; portava un vestito blu di materiale sintetico cucitole perfettamente indosso, sovrastato da un semplice coprispalle nero in cotone. Si rivolse allo stesso cameriere per chiedergli lo stesso drink con ghiaccio. Poi, rivolse la coda dell'occhio alla figura del ragazzo che gli stava accanto.

"Ancora da queste parti, maschione?" gli rivolse la parola, abbozzando una risatina mentre portava alle labbra il suo bicchiere.

Il ragazzo bevve un sorso del suo drink. "Ancora qui a farti di alcol di prima mattina, Jane?" le rispose senza degnarla di uno sguardo.

"Lo sai che io ci sono sempre quando sento che il capo delle forze speciali verrà a fare visita" ridacchiò la donna, passandogli la mano velocissima lungo la coscia fino all'inguine. Il ragazzo la tolse con un gesto brusco e incurante.

"Tieni giù quelle mani, Jane, non te lo ripeto più".

"E sennò cosa mi fai? Mi sbatti dentro come una ribelle, Edwardino?" rise la donna ancor di più, cercando di afferrargli con decisione le parti intime.

Mentre Edward stava preparandosi a una reazione più stizzita, dal fondo del locale Blue Flamingo si era appena scatenato il parapiglia: uno dei due agenti era stato buttato per terra, mentre l'aggressore scappava tra i tavoli verso il retro. Edward balzò giù dallo sgabello e corse al suo inseguimento, lasciando perdere completamente Jane. Seguito dai due colleghi, si precipitò tra le stanze sul retro, le scale di emergenza e i viottoli secondari. Edward aveva delle abilità straordinarie. Era dotato di un'agilità sovrumana, nonché di una forza innaturale.

Dopo nemmeno un minuto, raggiunse il fuggitivo e lo buttò a terra sull'asfalto del vicolo. Gli bloccò il collo e gli si poggiò con il ginocchio sulla schiena, per bloccarlo.

"Fine della corsa! Perchè scappavi?" Gli chiese, frugandogli nelle tasche dei pantaloni.

"Mi sono scaduti i docum…" fece per rispondere l'uomo, prima che un fascio verde gli piombasse addosso e lo lasciasse esanime a terra.

Edward sbarrò gli occhi, incredulo. Si voltò, e vide i due colleghi raggiungerlo di corsa con un po' di fiatone. Si alzò come una furia dal corpo del fuggitivo, e si scagliò contro i due che gli venivano incontro.

"CHI è STATO? CHI CAZZO è STATO!" urlò.

I due rimasero per qualche secondo ammutoliti, poi, uno dei due strinse ancor di più la bacchetta di legno fumante che già aveva in mano.

"Almeno la prossima volta non mi spinge per terra".

Il rientro al Palazzo di Giustizia fu piuttosto mesto per il giovane Edward. Ancora una volta, aveva avuto l'impressione di potere poco nei confronti dei suoi sottoposti, nonostante il ruolo che lui stesso ricopriva. Si avviò lungo i lunghi corridoi di palazzo illuminati dal sole che penetrava attraverso le vetrate. A passo deciso, col capo chino, si diresse verso le scale che lo portavano al piano superiore e poi lungo un altro corridoio prima di aprire la porta di un grande salone.

Al suo interno si trovavano un salotto perfettamente arredato secondo gusto moderno, un lungo tavolo intagliato in oro con alcune sedie vuote e una vastissima libreria che percorreva tutte le pareti della sala. Sul tavolo erano state portate diverse vivande. Oltre a lui, nel salone, altri due uomini: uno altissimo, il viso incavato e pallido, gli occhi neri e le orecchie grandi, dietro le quali scendevano capelli neri, lisci e unti. Gambe e braccia erano lunghi, così come le mani scheletriche e le dita. L'altro invece, poco più alto di Edward, capelli corti rossicci e occhi piccoli, l'emozione congelata sul suo viso perennemente torvo e inquieto, il fisico moderatamente muscoloso. Del primo raramente si faceva il nome: si chiamava Khalid, il liberatore di Silvegard e Vannthalia, colui che molti anni addietro aveva posto fine alle ingiustizie e alle disuguaglianze del loro mondo. A lui si doveva tutto, e lui aveva il controllo di ogni cosa che succedesse a Vannthalia. Il secondo, invece, era il suo braccio destro, Amon: di lui si sapeva quasi nulla, nessuno sapeva con certezza da dove venisse, ma si sapeva che aveva occupato le file dei seguaci di Khalid fin da prima della sua ascesa al potere. Era il suo miglior consigliere, ma senza parlare mai più del dovuto. Se Edward poteva asserire di avere un buon rapporto di fiducia con Khalid, altrettanto non si poteva dire con Amon. Non era mai successo nulla fra i due, ma gli sguardi di disapprovazione e suffcienza di Amon nei suoi confronti non l'avevano aiutato nemmeno ad averlo in simpatia.

"Edward! Bene arrivato!" gli si fece incontro Khalid a braccia aperte, dispensandogli un abbraccio. "So che la pattuglia di oggi al Blue Flamingo è andata bene".

Edward arricciò il naso. "Mi dispiace, è sfuggita di mano la situazione".

"Non dispiacertene" proseguì Khalid "dipende da come le situazioni sfuggono di mano, e alcune soluzioni sono alla fine nient'altro che bene dispensato. Siediti e mangia, amico mio". Edward si sedette al tavolo, prese un piatto e si servì dai grossi piatti da portata di fronte a lui.

"So che mi avete fatto chiamare" disse, nel mentre.

"Sì, è vero" rispose Khalid, unendosi le mani di fronte alla bocca.

Edward aspettò il proseguio del suo discorso, buttando l'occhio fugace al suo interlocutore.

"Come dicevo, dipende da come le situazioni sfuggono di mano, o eventualmente, possono sfuggire di mano in futuro".

Edward annuì e addentò il primo boccone.

"Cosa conosci di Kandrakar?" chiese Khalid.

"Non molto. So che molti mondi sottostanno al suo controllo, ma non so quanto interferisca".

"Oh, interferisce, amico mio, non poco, e ha molti mezzi a disposizione per farlo" rispose Khalid. "Sai cosa sono le guardiane di Kandrakar?".

Edward scosse la testa.

"Sono esseri prescelti, magici, hanno in sé il controllo degli elementi naturali, e in loro possesso è il Cuore di Kandrakar" spiegò Khalid, alzandosi dalla sedia dov'era seduto e avvicinandosi a passi lenti alla finestra.

"Dove si trovano?" chiese Edward.

Khalid voltò brevemente la testa versò Amon, il quale ricambiò lo sguardo senza un minimo turbamento dell'espressione.

"Sono sulla Terra. In una città chiamata Heatherfield. Ma non si palesano come guardiane nel loro mondo, il loro ruolo dev'essere svolto in incognito".

Edward rifletté brevemente su quelle parole. "Credete possano recarci danno?".

"Sono sicuro che lo faranno. Tosto o tardi. Ma io voglio muovermi prima. Voglio sapere tutto. Cosa fanno, dove stanno, cosa pensano, cosa mangiano e cosa fanno prima di dormire, io voglio sapere tutto e giocare d'anticipo. Qui c'è la sicurezza del nostro Paese, e l'occhio fastidioso di Kandrakar è fin troppo lungo per me".

"Cosa volete che faccia?" chiese Edward, serio.

Khalid si rivolse al ragazzo mostrandogli un mezzo sorriso.

"Da adesso, mio giovane Edward, tu non controllerai più da vicino quei tuoi sudici e arroganti colleghi per le strade di Silvegard. Da oggi sei in missione speciale, e di questa missione non deve saperne nessun altro oltre noi tre".