5. Altri dolorosi ricordi

Pensavo che andare da mia madre mi avrebbe aiutato a fare luce su questo mistero, invece ne esco più confuso di prima.
Ho bisogno di riallinearmi. I pensieri, in questo momento, sono troppo confusi. Navigano nella mia mente come insetti storditi. Devo rimetterli in riga. Già. Il problema è: come? Ho già pronta la soluzione.
Una bella sfida a scherma è quello che mi ci vuole.
Mi ci è voluto poco per passare da casa e prendere l'attrezzatura e adesso sono qui, in piedi davanti a questa porta e non mi decido ad entrare. Anche qui non mi faccio vedere da tanti anni. Alla fine devo cedere di fronte all'evidenza.
Sono un codardo.
Sono sempre fuggito da tutto ciò che mi ha fatto soffrire. Anche questa palestra entra nell'elenco. Cosa faccio? Entro o no? Eppure sono qui apposta! Mi aggiusto la borsa con la divisa per allentare la tensione, quando una mano si poggia sulla mia spalla.
"Sherlock Holmes!" mi dice una voce. Lo riconosco subito. È Lightman, il mio vecchio insegnante.
"Ciao Cal" gli dico. Ormai siamo in confidenza, posso permettermi di chiamarlo per nome.
"Sono parecchi anni che non ci vediamo, vero?"
"Già" rispondo "Sono stato molto impegnato con il lavoro"
"Scienza della deduzione" recita lui assorto. Mi guarda. Non posso mentire davanti a lui. Nessuno può. Sa vedere le menzogne a km di distanza. Mi tocca essere sincero per non complicare le cose. Lo so e lo sa anche lui.
"Si" rispondo secco "Hai voglia di una sfida?"
Mi guarda da capo a piedi. Mi sento sotto esame. Ha capito che ho solo bisogno di una valvola di sfogo.
"Non avrò pietà" mi dice. Bene. Non è quello di cui ho bisogno. Ho solo la necessità di riordinare la mente.
Entro nello spogliatoio. Perché mi sento a disagio? Le voci degli altri già in palestra arrivano nella stanza attutite dai muri però sono presenti. Le sento bene. Mi sto immergendo nuovamente in questo mondo.
Erano anni che non indossavo questa divisa. Mi sta larga. Quanto sono dimagrito? Mycroft mi invidierebbe, lo so. Lui, in perenne lotta con i chili di troppo! Io non ho mai avuto di questi problemi. Magari li avessi avuti! Questi problemi, dico. Mi sarebbe piaciuto fare come lui. Soffrire sopra la bilancia sperando di leggere che l'aver rinunciato a quella fetta di torta ha dato i sui frutti.
Invece ne ho avuti altri, di problemi. Avrei fatto volentieri a cambio con chiunque. Chiunque.
Bene. Mi guardo allo specchio. Non devo fare così. Devo imparare a gestire le emozioni. Sto per scendere in pedana con Cal. Non sarà una passeggiata. Sono piuttosto arrugginito e questi pensieri continuano a ronzarmi davanti, inopportunamente fastidiosi.
Patetico. Semplicemente patetico. Ho fatto una figura veramente meschina. Ho perso miseramente. Troppe emozioni. Ero davvero deconcentrato. Cal mi si avvicina e mi tende una mano.
"Mi dispiace" mi dice togliendosi la maschera. Sul suo viso non c'è né disprezzo ne superiorità. Solo un sorriso. Quel sorriso che mi ha sempre confortato. Un sorriso totalmente privo di giudizio.
"Scusa" gli rispondo "Non sono concentrato"
"Pensavi che questo avrebbe potuto aiutarti?"
"Si"
"Pensavi bene" mi risponde lui squadrandomi "Ma la prossima volta ti voglio più in forma!"
Mi saluta con un cenno del capo e si allontana canticchiando. Che tipo! A Scotland Yard dicono che sono strano … forse perché non hanno mai conosciuto Cal Lightman!
È sempre stato di poche parole. Mi ha insegnato di più con le sue azioni. Non solo sulla scherma. Mi ha aiutato anche sulla vita. È da lui che ho imparato ad osservare le persone. Lui lo fa per lavoro, non tanto diverso dal mio. Lui scopre i bugiardi. Ora, però, mi rendo conto del mio errore. Mio e suo, probabilmente, anche se non ho dati sufficienti per poterlo dire.
Per quanto riguarda me si. Ho sempre osservato gli altri per evitare di osservare me stesso. Ho chiuso gli occhi di fronte alle mie sofferenze. Non volevo vederle. Adesso mi stanno presentando il conto. Si vogliono vendicare? Di certo stanno cercando un posto dentro di me. Vogliono uscire allo scoperto.
Mi avvio verso gli spogliatoi. Non mi è mai piaciuto fare la doccia qui. L'ho sempre fatta a casa. Allora perché ero sempre l'ultimo ad andarmene? Se non facevo la doccia mi sarebbe bastato cambiarmi e andare da mio padre che mi aspettava fuori, in macchina.
È tardi. Anche gli ultimi ragazzi stanno uscendo dagli spogliatoi. Si parlano. Ridono. Scherzano. Li invidio un pochino. Mia madre aveva voluto che facessi uno sport anche per legare con qualcuno. Fatica sprecata. Non ci sono mai riuscito.
Stancamente apro la porta degli spogliatoi. Sono vuoti. Mi siedo e comincio a spogliarmi. Sono solo. Come sempre. Mi passo la mano sugli occhi e premo forte. Vorrei che tutto questo finisse. Mi sembra di essere in un incubo. Per un momento, anche solo per un momento, vorrei poter far finta che non sia la mia vita. Vorrei poter vivere tranquillamente, come tutti. Inutile. Non è possibile. Non adesso, almeno.
Riapro gli occhi. Macchie scure cominciano a danzarmi davanti. Poi le vedo. No, non le vedo. Le immagino. Le ricordo. Sono lì, davanti a me, dolorosamente presenti.
Mi guardo le braccia. Come per magia le macchie scure che galleggiavano davanti ai miei occhi si sono posate sulla pelle bianca. Sono botte. Erano botte. Ora non ci sono più ma adesso hanno ripreso forma nella mia coscienza. È inutile tentare di scacciarle.
Sbatto gli occhi un paio di volte e la visione torna normale. Le macchie sono sparite. Il ricordo no. Ecco perché mi cambiavo sempre per ultimo e non volevo mai fare la doccia qui. Volevo nascondere le botte. Il mio corpo ne era sempre cosparso.
Quanti anni avevo? Dieci, dodici? Non ricordo. C'era la finale del torneo. Tra gli spettatori c'era anche la mia famiglia. Mia madre, ostentatamente orgogliosa. Mio fratello, interessato. Anche lui aveva giocato a scherma ma si era stufato subito. Mio padre. Si! C'era anche mio padre, quel giorno! Come ero felice! Ero in finale ed ero in netto vantaggio. Duellavo per lui. Per renderlo orgoglioso di me. Ogni tanto, quando riuscivo a segnare un punto e lo scontro si interrompeva, in quei pochi secondi alzavo lo sguardo verso di lui. Cercavo approvazione. Quello che vedevo, però, era solo disinteresse. Disgusto, forse? Di certo non amore. Mia madre, in fianco a lui, intercettava il mio sguardo e mi salutava. Lui no. Neanche un'occhiata.
Quella sera avevamo festeggiato per la coppa e la medaglia d'oro che ero riuscito a portare a casa. Mia madre mi aveva preparato una cena buonissima e il dolce al cioccolato. Anche Mycroft ne aveva mangiata una fetta. 'Uno strappo alla regola per festeggiarti come si deve' mi aveva detto facendomi l'occhiolino.
Eravamo solo noi tre. Mio padre si era già rifugiato nel suo studio, intento a correggere i compiti in classe dei suoi studenti.
Dopo cena ero sgattaiolato fuori dalla cucina per raggiungerlo. Perché lo avevo fatto? Dentro di me sapevo come sarebbe andata a finire eppure speravo.
Insomma! Avevo vinto quel giorno! Perché mi avrebbe dovuto trattare male? Avrebbe dovuto essere orgoglioso di me!
"Papà!" gridai entrando "Hai visto oggi? Sono stato bravissimo!"
"Si, si" mi rispose lui senza guardarmi. Insistetti.
"Hai visto l'ultima stoccata?" dissi mimandola "Un colpo da maestro! Forse diventerò anche più bravo di Mycroft! Lui è troppo pigro per …" Errore. Errore fatale.Mai criticare Mycroft.
Mio padre alzò lo sguardo furente verso di me. Si alzò in piedi mi raggiunse. Mi prese per il polso e mi sollevò mentre abbassava la testa, minaccioso. Mi guardò negli occhi. Vidi il disprezzo uscire come un fiume da quegli occhi scuri. Il braccio mi faceva male e sentivo che stava per spezzarmi il polso.
"Non osare mai più paragonarti a Mycroft" mi disse "Mai più!" Scandì ogni singola parola che bruciava come un ferro rovente sulla mia pelle "Sei solo un essere inutile, non sarai mai come tuo fratello!"
Presto grosse lacrime cominciarono a solcarmi il viso. Piangere è stato un altro grosso errore.Mai piangere.
"Non piangere!" mi urla addosso "Ti odio quando piangi!"
Mi buttò per terra con malagrazia. Iniziava sempre così. Io cercavo di attirare la sua attenzione ma l'unica cosa che ricevevo in cambio erano insulti e botte. Tante botte. Troppe. Non le ricordo tutte ma so che erano troppo per un bambino.
Prima partivano gli schiaffi. Allora lì il pianto si faceva più intenso. Più piangevo più mi picchiava. Lo faceva sempre di nascosto, in modo che né mia madre né mio fratello potessero sentirci. Io non dicevo nulla di tutto ciò. A nessuno. Mi vergognavo. Pensavo di meritarle quelle botte. Alla fine arrivavano i calci. Mi allontanava da lui con un poderoso calcio. Spesso mi lasciava lì a terra, tremante, mentre lui andava chissà dove per finire di sfogare la rabbia.
Non capivo. Non capisco. Perché mi odiava così tanto? Cosa aveva Mycroft in più di me? Ero suo figlio, no? Perché mi disprezzava così?
Se fossi andato da uno psicologo mi avrebbe detto che erano botte che non mi meritavo e che avrei dovuto denunciare mio padre. Come avrei potuto? Mi avrebbe odiato ancora di più e io non lo volevo.
Mi risveglio da questi ricordi. Adesso non ne ho proprio bisogno. Finisco di cambiarmi e prendo una decisione.
Devo andare da Brown. Devo parlargli. Se mia madre non si è voluta sbottonare, dovrò provare con lui.
Mi guardo allo specchio. Ho bisogno di una doccia. Ho bisogno di ritrovare la mia solita impassibilità. Non avrei grandi risultati con Brown, in queste condizioni.
Ho gli occhi lucidi e lo sguardo di un cane bastonato. La doccia mi farà bene.
*Un piccolo riferimento a Cal Lightman di "Lie to me". Il personaggio non è mai stato insegnante di scherma ma lo volevo come guida per Sherlock in un periodo difficile della sua vita.